L’Osservatore veneto: Numero LXXXVIII

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N° LXXXVIII

A dì 5 dicembre 1761.

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Dialogo V.

Ulisse, Amore e Civetta.

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Dialogo

Utopia

Ulisse. Bello e comodo boschetto è questo! Ha qui nel mezzo un’aiuola coperta dalla minuta erba, e qua e colà questi verdi cespugli intorno fanno all’aiuola corona. Io odo anche un certo schiamazzo d’uccellini, i quali si debbono godere la naturale bellezza e la solitudine di questo luogo. Ma, che vegg’io colà? una civetta sopra una gruccia, ch’ora si leva sulle punte de’piedi, e allunga il collo, poi si cala giù, e ora scende, ora sale; e uno stormo d’uccelletti saltella per quei rami, e paiono incantati agli attucci ch’ella fa. Ell’ha un lungo filo a’piedi; e intorno a que’cespugli sono ordinati i panioni. Ora veggo: quivi è un uccellatore. Un putto appiattato attende che gli uccelli sieno impaniati: ecco egli esce fuori di quella macchia, e va a schiacciare il capo a quelli ch’ivi son presi. Io so pure che qui non abitano uomini: chi sarà quel fanciullo? Questa dee essere un’altra maraviglia. Infine infine io voglio sapere che sia. M’accosterò a lui, e gli dimanderò: O fanciullo, s’io sturbo ora il tuo uccellare, mi spiace; ma abbimi per iscusato: l’esser io qui forestiero, e voglioso d’informarmi di tutto quello ch’io veggo, mi fa essere importuno. Chi sei tu? e donde sei tu venuto in quest’isola? Amore. Ulisse, a questa volta tu hai teco un’erba che ti guarda da quell’autorità che m’hanno data gli Dei sopra quanti uomini e donne sono al mondo; e però mi troverai ubbidiente ad ogni tua domanda. Se non l’avessi, potrebbe essere che tu fossi finora impaniato al mio vischio. Ulisse. Qualche gran cosa tu dèi essere, dappoichè fino a qui hai saputo il nome mio, e indovinato ch’io ho meco l’erba datami da Mercurio. Io ti prego, di grazia, dimmi chi sei. Amore. Tu vedi il figliuolo di Citerea, il potentissimo Amore. Ulisse. Piego le ginocchia dinanzi a te, o bellissima luce dell’Olimpo; e, o bene o male che altrui facciano le Deità, riconosco che le sono sempre degne d’essere da noi mortali venerate. Amore. E fai bene. Lèvati. Forse ch’anche l’erba che tu porti indosso, non ti potrebbe salvare dalla forza mia, se non avessi di me questo timore. Odi ora il restante, ch’io appagherò la tua domanda. Di tutt’i luoghi che sono in sulla terra, l’isola di Circe è quello che a me è più gradito. Odo volentieri il suono de’dolcissimi strumenti, e le note delle soavi canzoni che ad onor mio ci vengono cantate. Mi piacciono le accordate danze, che con affettuosi movimenti spiegano senz’altre parole il fuoco di quelle varie passioni che vengono da me stimolate ed accese; ma sopra ogni altro sollazzo ch’io volentieri mi godo, quello è a me il più dilettevole di vedere uomini e donne dagl’incantesimi della padrona dell’isola in animali scambiati. Quantunque io sia d’età vecchissimo, non ho mai potuto perdere le mie fanciullesche inclinazioni, le quali durano in me, siccome mi dura ancora questa faccia di fanciullo. Non potresti credere con qual diletto io vada talora per li campi con un cane a caccia, per isguinzagliarlo dietro ad una lepre vecchia, la quale con mille aggiramenti gli si toglie dinanzi; ed egli che si credea con la forza del correre di prenderla, si trova smarrito, con l’ugne mezzo logorate fra’sassi, e ritorna indietro ansando malinconico e doglioso. Talora tu mi vedresti sciogliere più bracchi dietro ad una volpe, la quale dopo d’avergli fatti impazzare su per colline, dentro per selve, e in bugigàttoli e buche, delle quali è a lei nota l’uscita, finalmente ritornano anch’essi braccheggiando, dopo d’aver lasciato del loro pelo, qua sopra uno stecco, colà sopra uno sterpo, e di là sulle spine. Oggi, come tu hai potuto vedere, io m’intratteneva in questo luogo uccellando a civetta, e ricreandomi a vedere che costei già donna, e ora divenuta quale la vedi, non ha potuto lasciare ancora i primi suoi atti, e ridendo di cuore nel veder che quegli uccellini, i quali già furono uomini anch’essi, e vennero da lei nella prima forma ingannati, cadono ancora alla prima trama, e prestando fede alle sue pazziuole, quasi che ella promettesse a loro la vera felicità, se la stanno guardando. Ulisse. Amore, tu m’hai fatto venire una gran voglia di favellare a questa civetta, se tu me lo concedi. Amore. Tu sai bene che puoi farlo, e in qual guisa dèi farlo. Io la lascio qui a te, e intanto me ne vo a pescare, e a ridere di certi grossi pesci, i quali tirati da me più volte in secco, ritornano alle mie reti, come se fosse la prima volta. Vado: ritornerò poi a ripigliare la mia civetta, e a proseguire l’uccellagione. A rivederci. Ulisse. Veramente io non so di che scherzi cotesto Amore. Tu dèi essere però stata donna degna di considerazione, dappoichè fosti cambiata nel più nobile uccello che voli per l’aria, e in quello che la sapientissima Minerva ama sopra ogni altro. Hanno predetto non so quali oracoli, che tu dèi essere l’insegna d’una delle più nobili città della Grecia, e impronta delle monete di quella. Se tu non avessi avute qualità più che umane, anzi quasi qualche cosa del divino, non saresti stata tramutata in un uccello che sarà ancora un giorno onorato da tutto il mondo. (Oh! com’ella s’innalza e abbassa! Quanti attucci fa! La gongola tutta. Già comincerà a parlare.) Civetta. Ora io veggo che tu sei veramente quel facondo e bel parlatore Ulisse, di cui si dicono tante maraviglie fra gli uomini. Bench’io abbia conosciuto che tu voglia la baia del fatto mio, pazienza: tu mi se’piaciuto a favellare. Ma che? tale è l’usanza. Noi altre povere donne siamo già accostumate a queste lodi: e chi vi crede, suo danno. Ulisse. (Oh! com’ella chiude mezzi quegli occhiacci, e mi guarda coi collo torto. Io ci giuocherei che le pare d’esser donna ancora, benchè sia civetta.) In qual paese nascesti? io ti prego, non mel celare; e dimmi per quale avventura se’pervenuta all’isola di Circe. Sì, di grazia dillomi, o bellissima reina degli uccelli.

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Utopia

Civetta. La patria mia è Micene. Nacqui di genti mezzane, e non molto de’beni di fortuna abbondanti. Mia madre vide in me ne’primi miei anni una bellissima speranza al miglioramento della sua condizione, e fecemi allevare con tutti quegli ammaestramenti che accendono in una fanciulla l’amor proprio; imperciocchè non rifiniva mai, e sola e in presenza delle genti, di ripetermi mille volte al giorno ch’io era bella e aggraziata; e sopra tutto, benchè non avessi ancora passati gli ott’anni, mi dicea per ischerzo ch’io era innamorata ora di questo, ora di quel fanciulletto dell’età mia; e rideva della mia accortezza, ch’io sapessi così ben fingere ora con questo, ora con quello, e oggi far buona accoglienza ad uno, domani ad un altro; con questo far l’ingrognata, con quello la malinconica, e con un altro star lieta. Io veramente non so se facessi tutte queste maliziette; ma udendo dalla bocca della madre mia spesso ch’io le pareva già grande (tanto bene faceva!), parvemi che quelle cose ch’ella dicea di me, fossero necessarie per divenire un giorno femmina di capacità; e quello ch’io o non facea, o facea forse innocentemente, incominciai a farlo per meditazione: e non posso negare che in pochi anni diventai la più vezzeggiata e la più ingegnosa fanciulla di Micene. I più leggiadri giovani di quel paese furono concorrenti nell’amarmi; sicchè in quel tempo il mio nome era uno de’più celebrati per tutto. Non credere però che fra tanti giovani, i quali concorrevano ad amarmi, io ne amassi alcuno; piacevami di vedere che tutti mi spasimassero intorno; e compartendo fra loro la dolcissima vivanda della speranza, a uno a uno gli facea farneticare del fatto mio; e quasi sedendo sopra un seggio reale sopra di tutti, sentiva un continuo diletto del vederli a spendere e spandere per amor mio, fare feste, conviti, e talora venire a zuffa, e perdere fino il cervello. Io non avea tra loro prima aperta la bocca, e mostrato desiderio di qualche cosa, che incontanente facevano a gara a chi più presto sapea soddisfarmi, e fin dalla corte di Priamo mi facevano venire tutte le gale che il morbidissimo popolo dell’Asia e le figliuole d’Ecuba sapeano inventare. Nelle compagnie io era sempre ripiena di vivacità e di grazia. Ma poche donne, anzi niuna, io volea meco, massime quando o belle o giovani fossero state; e se mai alcuna ne veniva colà dove io era, ora con motti e burle, e talvolta con qualche sgarbato modo le facea in breve sparire dalle conversazioni nelle quali io avea pratica. Tale era la vita mia in Micene, quando crebbe la fama della moglie di Menelao; di che ebbi tanta rabbia al cuore, che fui per disperarmi ad udire che quasi per tutta la Grecia non si faceva altro che ragionare della sua bellezza. Credo certamente ch’io sarei morta in quel tempo, se non fosse avvenuto che la fu rapita da Paride, e condotta in Asia; di che io presi grandissima baldanza, e sfogai allora quel veleno che avea conceputo nell’animo verso di lei, dicendo mille mali del fatto suo, e denigrando il suo nome quanto potei per tutte le compagnie, e in tutti quei luoghi dov’io andava. Ma che? s’accese di rabbia tutta la Grecia, e tu lo sai; chè la guerra di Troia trasse fuori di tutta la Grecia quanta bella e fiorita gioventù quivi era, per modo che non vi rimase quasi altro per le case, fuorchè i padri, le madri, e alcuni pochi mariti, di quelli che per qualche difetto non poteano portare arme, e rimanevano a casa come disutili. Non potendo io avere altro, incominciai a far impazzare le mogli, ed avea sempre dietro un codazzo di cotesti rimasugli della Grecia, i quali per amor mio abbandonavano le mogli e i figliuoli, e non aveano altro pensiero che me, nè potevano vivere se non erano meco. Intanto io nell’animo mio ardendo d’invidia che per cagione d’Elena si fosse accesa una guerra che avea posta in arme tutta la Grecia e tutta l’Asia, non potea aver bene nè giorno nè notte, e stava meditando qualche gran fatto che facesse ragionare di me tutto il mondo, come si ragionava di lei. E così mulinando mi venne uno de’più grandi e de’più gagliardi pensieri che venissero mai in capo di donna. Diceva dunque fra me: “Cotesta così bella Elena, della quale si fa un così lungo cianciare nel mondo, che ha ella fatto con la sua bellezza? In iscambio di comandare ad un uomo, e farlo fare a modo suo, la s’è lasciata comandare da lui, e consentì d’andarsene seco in un paese da lei non conosciuto, e di perdere un regno ch’ella avea, per divenire la nuora d’un re forestiere, che ha cento nuore, e starsi mescolata con quella ciurmaglia. Perchè non tento io di rapire quanti posso mariti a questo paese, e andarmene altrove? Oh! bella e nobile impresa che sarebbe questa, e non più udita forse nel mondo!” Così dicendo io fra mio cuore, tanto m’invasai in questa fantasia, che in pochi giorni feci tanto che indussi uno stormo di Greci a mettere a ordine segretamente una nave, e con prospero vento da Micene ci dipartimmo. Spiacquemi solo che io non potei udire il romore che ne fu fatto nella patria mia, comecchè io me lo godessi con l’immaginazione. Non fu però picciolo il mio diletto, quando entrata nella nave, divenuta quivi piloto e governatore, comandai a’miei seguaci che si mettessero al remo, alzassero o calassero le vele, e facessero l’uffizio che fanno i marinai; ridendo io veramente di cuore quando gli vedea ad un mio picciolo fischio e ad una voce affaticarsi e sudare per acquistarsi ognuno il maggior merito appresso alla loro padrona, la quale non si curava punto di nessuno, e con l’allettamento delle parole e di mille vane speranze gli facea lietamente comportare le fatiche de’galeotti. Molti giorni navigammo con prospero vento. Finalmente approdammo a quest’isola, dove ricevemmo da Circe una gratissima accoglienza. Fummo accettati ad uno splendido convito; entrai in danze, udii soavissimi canti; volle intendere la Dea i nostri casi. Io gliene feci una lunga ed eloquente narrazione, di che ella grandemente si rideva. Ma io intanto vedea a poco a poco ora l’uno de’miei compagni cambiarsi in rosignuolo, un altro in pettirosso, e quale in pispola, e chi in un uccellino e chi in un altro, e volare; e mentre ch’io tutta attonita stava mirando quella tramutazione, mi sentii nascere queste penne grigie, e volai finalmente fuori d’un finestrino, cambiata la mia prima soave e delicata in querula voce. Benchè questa a te paia disgrazia, io ho però la consolazione di vedere che i compagni miei, ancor ch’io sia civetta, tutti ancora mi corrono intorno, e si lasciano allettare alle mie attrattive.
Ulisse. Consólati che tu hai di che. In effetto tu m’hai raccontata una storia che io non avrei potuta immaginare giammai; e non potea nascere una tramutazione che meglio si confacesse a’tuoi costumi. Oh! ecco l’uccellatore. Amore, ti ringrazio. La civetta ha avuto meco un lungo ragionamento. Abbila cara, e uccella. Amore. E tu va’in pace, e tien bene a mente i suoi ragionamenti.