L’Osservatore veneto: Numero LXXXVII

Permalink: https://gams.uni-graz.at/o:mws-103-528

Ebene 1

N° LXXXVII

A di 2 dicembre 1761.

Ebene 2

Ebene 3

Dialogo IV.

Ulisse, Cane e Montone.

Ebene 4

Dialog

Utopie

Ulisse. Ben so che se un giorno pervengo alla patria mia, e narrerò le cose da me vedute, s’ha a dire ch’io sono un parabolano. Ma la maggiore e più strana che mi sia accaduta ancora, credo che sia questa, ch’io abbia a parlare ad animali, e ad udire le risposte di quelli. Ma che? da ogni cosa nel mondo s’ha da imparare; e non mi vidi mai intorno albero, nè fiore, o erba sotto a’piedi, che non mi desse cagione di meditare. Mi ha detto Circe che per movere le bestie che mi verranno incontro, basterà ch’io cerchi con qualche ingegnoso trovato di stuzzicare in esse una passione, che questa le riscalderà, e poi l’opera di Circe moverà loro la lingua a poter favellare, ond’io intenderò come la pensano gli uomini coperti sotto le pelli delle varie bestie che sono in quest’isola. Ma io veggo costà un grasso montone che si sta a mangiare quell’erba, e un cane pezzato vicino ad esso, che disteso col ventre in sul terreno, ha fra le cime delle due zampe davanti un osso, e lo rode col maggior sapore del mondo. Andiamo loro incontro. Oh! che belle e lucide lane ha quel montone! com’è grasso! Io voglio vedere s’anche le bestie hanno vanagloria. S’io lodassi una donna o un uomo c’hanno una bionda e bella zazzera, non l’avrebbero forse caro, non farebbero un ghigno almeno? Chi sa che cotesto montone non si tenga da qualche cosa per quel suo bel pelo. Io non saprei quale altra passione stimolare ed accendere in un animale così goffo e semplice, il quale non ha altro di bello, nè di buono, fuorchè questa poca apparenza di fuori. Ne farò prova. Montone, montone. Io ti prego, alza su il collo dal terreno, e sta’saldo: lascia ch’io contempli coteste lane che ti vestono il corpo. Io non mi ricordo d’averne veduto mai altro che a te somigliasse. Come ogni bioccolo è ricciuto, e del colore dell’oro! Io credo che tu certamente sia il re di tutta la tua specie. Montone. Lodato sia il cielo che ritrovo uno in questo deserto, il quale conosce molto bene chi io sono. Dappoi in qua ch’io divenni montone, non fu chi si degnasse di commendare le qualità mie, laddove quando io era uomo, avea sempre intorno le turbe de’lodatori. Ulisse. E chi fosti tu, o grazioso animale, mentre ch’eri uomo? Montone. Io fui un certo Divizio nato nella Beozia, a cui fortuna cortese avea dati, si può dire, quanti beni ell’avea, per farmi godere tutti gli agi della vita. Un adulatore, un iniquo adulatore fu la cagione che mi mosse a venire in quest’isola: il quale imbarcatosi però meco, oggidì anch’egli per opera di Circe, coperto con una pelle di cane pezzato, si sta, come voi vedete, a rodere un osso qui al canto mio, e non si degna più non che di lodarmi, ma di guardarmi in faccia. Ulisse. O cane sciagurato, è egli però il vero che tu con le tue vilissime adulazioni inducesti il povero Divizio a così pericoloso viaggio, e finalmente fosti l’origine, con le tue melate parole, ch’egli divenisse montone? Se così è, tu facesti male, ed egli ha cagione di dolersi grandemente del fatto tuo, massime se tu oggi non hai compassione di lui, e non cerchi qualche mezzo per confortarlo. Cane. Io non ti voglio negare per ora di non avere, mentre che fummo in Beozia tuttaddue, esaltato grandemente la sua persona; nè ch’io taccia al presente, che siamo di qua, e anzi all’incontro mi prenda spasso della sua tramutata figura di fuori. Ma io voglio che tu sappia ch’io mi rideva tanto di là, quanto mi rido ora di qua del fatto suo, perchè, dalla lana in fuori, di là Divizio era montone, com’egli è qui’nell’isola di Circe. Montone. E perchè, s’io lo era, non mel dicevi tu, come me lo dici al presente? Cane. Io te lo diceva bene io; ma tu non m’intendevi. Se tu avessi misurato bene e pesato quello che tu eri di dentro, e non confitto l’animo tuo nelle cose che possedevi di fuori, dalle quali credevi di ricevere bellezza, dottrina e virtù, avresti veduto benissimo, che lodandoti io mi faceva beffe del fatto tuo; e quelle cotante lodi che ti solleticavano gli orecchi, ed erano un gonfiatoio che ti facea empiere di vento, tutte quante erano motti e sferzate; le quali io però ti dava contro mia voglia, ma veniva sforzato dalla mia povertà e dalla crudeltà tua a così fare. Montone. Come crudeltà? Non t’avea io forse fatto padrone di casa mia? non venivi tu alla mia mensa, come vi sedeva io medesimo? E non eri tu vezzeggiato da me, quale un mio fratello? Di che ti puoi tu lagnare? Cane. Ehi gioia! Ricordati quanti buoni e virtuosi uomini ti bazzicavano intorno, la cui bontà e virtù non la potevi tu sofferire, perchè apparendoti dinanzi con l’esempio loro, che tu non volevi imitare, ti facevano dispetto; ma più perchè t’avvedevi quando anche dalla lunga entravano in ragionamento per correggerti di qualche difetto. Ti ricordi tu che non gli volevi mai a casa tua, o facevi loro il viso dell’arme, e dicevi a loro ingrognato appena due parole, e talvolta fu che chiudesti loro l’uscio sulla faccia, cacciandogli via dalla tua presenza? Io ammaestrato benissimo dalla mia necessità e dalla tua superbia, conobbi a qual manico tu volevi esser preso, e prevalendomi della goffaggine tua, t’entrai allora in grazia, ora col commendare la tua bellezza, benchè paressi un bertuccione, ora la tua superlativa dottrina, comecchè appena sapessi compitare le sillabe come i fanciulli che vanno alla scuola: e tu, leggiero come una canna vana, prestando più fede a me che a tutti gli uomini dabbene, non ti sapevi spiccar da me un momento, e non sì tosto avevi proferita una castroneria, o fatta un’asinaggine, che ti voltavi a me sorridendo per attendere dalla mia bocca l’approvazione della mellonaggine tua, la quale veniva da me commendata. Era forse la colpa mia, se morendo quasi di fame, cercava d’acquistarmi il vitto e il vestito da tanta bestialità, in quella forma ch’io potea? o era tua, se ricco e fornito di tutt’i beni della fortuna, non davi un sorso d’acqua a chi non t’esaltava per ogni verso? Montone. Io era il padrone della roba mia, e volea a mio beneplacito dispensarla; e tu perchè mi rinfacci ora, se non ne dava a questo e a quello? Cane. Se n’avessi dato alle genti dabbene, tu non saresti ora montone, nè piluccheresti l’erbe di questo prato, per aver prestato fede a me che ti dava ad intendere lucciole per lanterne. Ulisse. Come vi siete voi indotti a fare questo viaggio, e qual fortuna vi trasse all’isola di Circe?

Ebene 5

Utopie

Cane. Odi storia veramente da ridere. Costui che tu vedi qui ora montone, avea poco miglior faccia mentre ch’egli era uomo. Ne più bel garbo, o più grazioso portamento di corpo avresti veduto. Con tutto ciò, come s’egli fosse stato il divino coppiere di Giove, quel bellissimo Ganimede che venne dall’aquila traportato nell’Olimpo, egli credea che tutte le femmine impazzassero del fatto suo. E quello ch’era amore delle sue ricchezze, de’suoi palagi e dell’altre grandezze della fortuna, giudicava che fosse opera della sua dolce guardatura, delle sue parole. Lungo sarebbe a dire le sue pazzie; e quante volte egli credette perdute del fatto suo femmine che l’aveano in odio come il fistolo; e in qual guisa egli si pavoneggiava, se veniva guardato, e dimenavasi passeggiando a guisa di cutrettola, e quando vedeva una donna, facendo le viste di non curarla, domandava a me quello ch’ella avesse detto di lui. Io che l’avea veduta a ridere e stringersi nelle spalle, o fargli visacci, per prendermi spasso di lui, gli diceva ch’ella avea sospirato e detto: “Oh felice colei che avrà per innamorato quel colombo, quel passerino!” Di che Sua Signoria si gonfiava tutto; rizzava il capo, e sospirando parea che avesse compassione al sesso femminile travagliato per lui. Egli avvenne un giorno che standoci noi sulla piazza, dove s’odono molte novelle, venne un navigante, il quale fra molte cose da lui vedute, ci raccontò ch’egli avea sentite narrare grandissime maraviglie della bellezza di Circe. E tanto e tanto ne disse, che il mio montone rientrò quel giorno in casa con la fantasia piena di lei, e non potea più tacere, nè sapea altro dire, fuorchè nominare Circe. “Oh!” gli diss’io, volendo pur vedere fin dove giungesse la sua pazzia: “che facciamo noi più qui in un paese dove le donne sono mortali? S’io avessi quella vostra faccia, quel portamento così aggraziato che avete voi, io vorrei lasciare tutte queste passeggiere conquiste, e tentar d’avere per mia compagna la figliuola del Sole. Egli è il vero che, come udiste, molti sono i pericoli: si corre risico d’essere cambiati in bestie. Ma questo sarà avvenuto a coloro, i quali fondatisi in un picciolo merito, senza guardar più oltre, si saranno avventati a così difficile fortuna. Quand’io vi guardo, conosco benissimo che la figliuola del Sole è riservata a voi, e chi sa ch’ella in iscambio di tramutarvi in animale, non vi faccia dono dell’immortalità; ma guardatevi bene, nel domandargliela, di ricordarle che con l’immortalità vi lasci anche questa vostra bella e fresca giovinezza per sempre; che non faceste, come Titone, al quale fu dall’Aurora impetrata l’immortalità; ma perchè la non ebbe in mente di domandare a Giove che gli lasciasse l’età in cui si trovava allora, ora vecchio e spossato si giace chiuso in una stanza, maladicendo la sua disgrazia di non poter più morire. Gran peccato sarebbe che incanutissero mai, o vi cadessero que’capelli che paiono ora fila d’oro, che quello splendore degli occhi vostri si ammorzasse, e che quella faccia sì incarnatina e liscia s’offuscasse e aggrinzasse.” Mentre ch’io gli diceva queste parole, io ti giuro, o forestiero, che mi batteva il cuore, temendo che una così aperta e strana adulazione lo facesse montare in collera, e che co’calci e con le pugna mi cacciasse fuori dell’uscio, o mi facesse balzare fuori d’una finestra. Ma mi rassicurai quando lo vidi a ghignare e a consentire a tanta bestialità. Che vuoi tu ch’io dica? Fu messa a ordine una nave, volle che fossi suo compagno di viaggio, e s’io mai tentai di dissuaderlo dall’impresa, non mi volle più udire; sicchè mi convenne contra mia voglia far buon viso, e dar le vele a’venti con questo mio garbato compagno. Dopo molto aggirarsi qua e colà, finalmente approdammo all’isola, dove non sì tosto mettemmo il piede a terra, senza che ci fosse conceduta la grazia di vedere la Dea, egli fu tramutato in quel montone che vedi, e io in cane.
Ulisse. In effetto io veggo ch’egli ha troppo creduto alle tue parole; ma si può dire ch’egli si sia anche molto più, che non credea, affidato a sè medesimo. Montone. Sia quello che tu vuoi. Ma costui che fu sempre ben trattato da me, e ch’io ho amato sopra tutti gli altri, perchè ora ch’io sono montone, non solo non mi loda più com’egli era usato di fare, ma ora mi ringhia e beffeggia, e talora anche mi corre dietro abbaiandomi e facendomi atterrire con que’suoi lunghi denti? Cane. Egli è perchè ora mi vendico di te, il quale non mi desti mai del tuo, senza forzarmi a dire mille bugie, le quali tu mi cavasti di bocca con la tua avarizia verso tutt’i buoni. Io non sono più quel che fui, nè tu se’più quello ch’eri una volta. La natura nostra è diversa. Tu ti pasci d’erbe, e io d’ossa di questi animali che muoiono qua e colà per l’isola. Ora tu non potresti darmi altro ch’erbe, e io non ne mangerei, che non mi bisognano. Sicchè non mi puoi più legare per la gola, e obbligarmi a dirti che non se’montone, quando se’veramente tale; nè far sì, ch’io non ti dica ora in sulla faccia tutte le castronerie che facesti quand’eri uomo, e ch’io non potea dirti allora, perchè non ne volevi essere avvisato, e mi pagavi perchè le assecondassi. Anzi io non ho ora altra necessità, fuorchè quella del vederti a dimagrare e morir di rabbia, per divenire erede di coteste tue ossa, e mangiarmele sopra il prato. Ulisse. Orsù, rimanetevi alla malora. Non voglio udire altro. Son chiaro abbastanza. Io veggo che ogni cosa fanno i viziosi per amore di sè medesimi. Quel montone non ha potuto ancora lasciare il vezzo ch’egli avea prima di sentirsi a lodare, e vorrebbe che il cane seguisse a dir bene di lui, come faceva prima, per la superbia che gli è rimasa in corpo, anche sotto la lana. E l’altra bestia, per avere gli agi della vita, non si guardò dal dire mille bugie, e dal mantenere l’altro ben fermo e avviluppato nell’ignoranza, perchè gli fruttava. Ora ch’egli ha perduto la prima speranza, gli dice il vero in faccia, non per amore ch’egli abbia alla verità, ma per voglia di farlo morire, ed ereditare quelle poche ossa da nutricarsi. O Santissima Virtù, chi t’adopera, perchè tu se’bella? perchè se’la vera tranquillità in questo mondo? Ma io non voglio ora perdere il tempo in riflessioni. Le scriverò poi da me a me sopra un taccuino. Al presente anderò in traccia d’altre bestie, per intrattenermi con esse, e imparare altro. Anche quest’isola vota d’abitatori non sarà stata senza mio frutto.