Citazione bibliografica: Gasparo Gozzi (Ed.): "Numero LXXXV", in: L’Osservatore veneto, Vol.1\085 (1761-11-25), pp. 356-361, edito in: Ertler, Klaus-Dieter / Fuchs, Alexandra (Ed.): Gli "Spectators" nel contesto internazionale. Edizione digitale, Graz 2011- . hdl.handle.net/11471/513.20.470 [consultato il: ].


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N° LXXXV

A dì 25 novembre 1761.

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Dialogo II.

Ulisse, Euriloco, Mercurio, Uccelli e Storione.

Livello 4► Dialogo► Utopia► Ulisse. Oh! io però, oh! ad ogni modo intendo di trarre i compagni miei dalle mani a quella maga di Circe.

[357] Euriloco. Io ti ricorda che non ti riuscirà così facile. Credimi: io ebbi che fare e che dire a non cedere all’armonia della sua canzone.

Ulisse. Va’pure innanzi tu, e lasciane il pensiero a me. Guidami a cotesta casa. Tu vedrai bel giuoco. S’ella non mi restituisce i miei compagni alla prima forma, appiccherò il fuoco alla casa di lei, e forse la non uscirà viva delle mie mani. Siamo noi troppo lungi?

Euriloco. Si comincia di qua a vedere il tetto. Alza gli occhi costà; costà un poco più a sinistra. Vedi tu?

Ulisse. Sì, veggo; e scoppio di voglia d’esservi pervenuto. Affrettiamoci. Ma che splendore è questo? che barbaglio? Chi sarà costui che pare ch’egli abbia le penne sul cappello e a’talloni? Per mia fè, egli è Mercurio che ne viene a cavalcioni d’un raggio giù dall’Olimpo. Eccolo già arrivato. Come fanno tosto le Deità a fare così lungo viaggio, e sopraggiungere gli uomini!

Mercurio. Arrèstati, o Ulisse. Egli mi pare che a questa volta tu non usi quella tua maschia e nobile prudenza che fu già tua compagna per tutto quel tempo che fosti all’assedio di Troia, e per quegli aggiramenti, ne’quali fosti tratto per tanti mari dalla volontà degli Dei. Sai tu forse dove te ne vai al presente così pieno di collera, e a qual pericolo t’arrischi? Pensi tu che in iscambio di liberare i compagni tuoi, tu potresti com’essi riportarne un mantello di setole e un grifo? Sai tu punto chi sia Circe? ti sei tu punto apparecchiato prima a poterti difendere da lei?

Ulisse. Io nol so; ma essendomi tante volte riuscito con le mie sottigliezze di trarmi fuori delle mani a crudelissimi nemici, molto più avrei creduto d’uscir salvo da quelle d’una femmina.

Mercurio. Oh! non saggio, e non prudente, qual tu se’dalle genti creduto. Che? credi tu che sia minore difficoltà l’affrontarti ad una femmina, massime di tale autorità qual è Circe, ch’esplorar di notte il campo de’Troiani, trafugare il Palladio nella città de’tuoi nemici, e fare altre imprese simiglianti? Tu non dèi sapere che sieno occhiate, risolini, canzonette, mense notturne, danze, e altre giocondità, dappoichè credi che il tuo presente furore abbia a vincere tutte queste cose. Euriloco è stato più giudizioso di te a nascondersi e a fuggire. S’egli non si fosse risoluto a temere, sarebbe ora a grufolare in qualche pozzanghera, come gli altri, e tu non avresti saputi i casi de’tuoi compagni. Euriloco. So dire ch’io fui tentato più volte d’entrare, e appena mi ritenni. Quasi quasi non so ancora com’io non entrassi con gli altri. Mercurio. Fu la forza mia che ti diede aiuto. Senza di me saresti caduto al laccio, come tutti gli altri. Ma vedendo Giove che n’avea a fascere un gravissimo male, volle per opera mia che ci rimanesse qalche via al rimedio.

Ulisse. Adunque pure ci ha rimedio. Io ti prego, o uccisore d’Argo, celeste figliuolo di Maia, insegnami in qual modo io m’abbia a regere. Sono al tutto disposto di rimettermi alla sapienza tua, e di fare tutto quello a che sarò da te indettato.

[358] Mercurio. Bene; poichè tu diffidi delle forze tue e del tuo sapere egli è di necessità che tu sappia in prima, che quanto qui vedi è incantesimo. Che ti pare questo luogo in cui siamo al presente?

Ulisse. Un bosco.

Mercurio. E questo stridere, e queste voci che odi d’intorno, che ti paiono?

Ulisse. Strida e canti d’uccelli.

Mercurio. E a te, Euriloco?

Euriloco. E a me il medesimo.

Mercurio. Alzate gli occhi colassù a quella quercia, dove sono que’nibbi; e state bene attenti. Ecco, io tocco l’uno e l’altro di voi, e intenderete quello che dicono fra loro; e insieme saprete tutto quello che dicono gli altri uccelletti, che a voi pare che cantino.

Nibbi. Noi fummo amici un tempo di fortuna,

Ricchi, onorati. Fertili terreni
Ci davano a’granai mèssi abbondanti,
E liquor grato le frondose vigne.
Cerere bella ed il giocondo Bacco
Ci tenean cari. Ahi che l’avverso fato
In mano un giorno ci condusse a Circe.
I suoi begli occhi e le sue bionde chiome,
E la dolcezza di sua falsa voce
Ne legò sì, ch’ogni favor cortese
Disperdemmo di Cerere e di Bacco,
E perdendo il pensier delle faccende
Poveri fummo. Di pennuti augelli
Vestimmo il manto; e con gli adunchi artigli
E col rostro or convienci acquistar vitto
A’rosi dalla fame aridi ventri.

Mercurio. Udiste.

Ulisse. Ho udito. Infelici!

Euriloco. Sono d’uomini dabbene, a cagione di Circe, divenuti ladroni.

Mercurio. Udite di qua quella schiera d’uccelletti domestici.

Uccelli. Oimè! che un tempo d’intelletto industre

Fummo, ed atti a’lavori! Il sudor nostro
E delle nostre man l’opre gentili
Traean fuor l’oro delle ricche mani,
E l’abbondanza si vedea fra noi.
Gioivan lieti i pargoletti figli,
E fra le braccia delle care mogli
S’avea la pace. Lusinghiera Circe!
Tu con gli atti, col canto, e il falso mèle
Della tua falsa e sì creduta lingua,
Ci tramutasti in meschinetti augelli;
Sì che per cibo aver, che ci sostenga,
Limosinar convienci dalla terra
Quel che del mietitor I’occhio non cura.

Mercurio. Udiste?

Ulisse. Udii. Costoro di buoni e grassi artisti, per aver prestato fede alle parole di Circe, vanno ora limosinando per vivere.

[359] Mercurio. Ma tu dirai che quei nibbi e questi uccelletti furono genti intenebrate dall’ignoranza; che non sapeano che fossero vizi nè virtù. Vedi tu colà quel fiumicello che con tortuosi aggiramenti serpeggia per la valle? Andiamo, ch’io ti farò udire più nobili e più pregiati ingegni di quelli che tu hai fino a qui uditi a ragionare, vien meco, Ulisse; vieni, Euriloco.

Euriloco. Eccomi.

Mercurio. Arrestatevi qui in sulla riva. Ecco quello storione che viene di qua. Io gli darò la facoltà di favellare. Non sarà più mutolo, come sogliono essere i pesci. Ascoltatelo. Storione, o storione, approda: metti il muso a questa riva. Odi me. Di’: qual fosti, prima che Circe ti mandasse a nuotare in quest’acque?

Storione. Lodato sia il cielo, che posso favellare, e ho riavuta la favella umana. La lingua che s’era legata . . .

Mercurio. Non ci fare ora una dissertazione intorno alla lingua; chè non abbiamo il tempo di star ad udire lungamente. Di’, chi fosti?

Storione. Filosofo, amatore della sapienza e del vero.

Mercurio. E come d’amatore della sapienza e del vero, sei tu ora storione, e ti diguazzi nell’acqua di questo fiume?

Livello 5► Utopia► Storione. Stanco del lungo meditare in sui libri, rinchiuso in una stanza, e non volendo aver pratica col mondo, che mi parea ripieno di lusinghe e d’inganni, messomi indosso un semplice mantello, presi un bastone in mano e una tasca a lato, e mi posi a camminare per luoghi solitari e deserti. Esaminava ne’luoghi aperti e spaziosi delle campagne la bellezza de’cieli che s’aggirano intorno a noi, e cercava d’intendere con qual ordine le divine sfere si movono. Ora rivoltomi alla terra, studiava con quanta virtù ella somministra alimento alla vita delle piante di tanti e sì vari generi; ed ora altre cose esaminava. Ma più spesso d’ogni altra studiava con diligenza me medesimo, e volea conoscere da quali principii nascevano le mie passioni, come io poteva indirizzarle a virtù, e rendermi degno del nome d’uomo, favorito da Giove di tanti bei doni. Erami cresciuta intanto fino al petto la prolissa barba: il mio mantello era presso che consumato; ed io diceva tra me: “Oh! infelici coloro che perdono il cervello in pensieri per guernirsi il corpo, e tentano di renderlo appariscente co’fornimenti! Non mi ripara forse questo mio anche mezzo logoro mantelletto dal freddo, il quale mi serve ancora così sovente di materasso e di copertoio quando io dormo? e non mi basta forse anche questo bastoncello a fare lunghissimi viaggi, aiutando i miei piedi, senz’aver pensiero di cocchi, nè di cavalli? O natura umana, quanto è poco il tuo bisogno, quando non allargano i desiderii che ti rendono ingorda di tutto quello che vedi!” Tali erano le mie meditazioni; e mi parea già di rinforzarmi l’animo di giorno in giorno, sicchè cosa umana non potesse mai assoggettarlo. Quando la mala fortuna mia fecemi un giorno pervenire alla magione di Circe. Udii ch’ella dolcemente cantava; e dissi; “Oh! qual soave capacità ha il gorgozzule d’una femmina!” Mi venne in animo d’essere introdotto a lei, per istudiare in qual modo il fiato umano uscendo d’una gola di donna, potesse acquistare quella dolcezza. Fui bene accolto. A poco a poco, penetrandomi quell’armonia nelle midolle, cominciai a dimenticarmi le meditazioni che io voleva fare, e m’arrestai a [360] contemplar la bianchezza della pelle di sua gola in cambio dell’intrinseca attività. Ella se n’avvide; ne scherzò; io sorrisi: e cominciò tanto ad aggirarmisi il cervello, ch’ella m’indusse a farmi radere quella mia maestosa barba, a gittar via il mantelletto, per vestirmi d’un color cilestro. E mentre ch’io non pensava più ad altro che ad avere la grazia di lei, lasciati da parte tutti gli studi e le dottrine, una sera trovandoci insieme a sedere sopra le sponde di questo fiume, toccomi con una verghetta che la tenea in mano, fecemi divenire storione; io balzai in quest’acque, e ci sono ancora. ◀Utopia ◀Livello 5

Mercurio. Non altro: va’a tuo viaggio. Credi tu, Ulisse, s’ella ha saputo vestire di squame un filosofo, ch’ella non abbia tant’arte che possa vestire ogni altro uomo di penne o di pelo, come le piace?

Ulisse. Dunque che dovrò io fare? Fuggirò al tutto da lei, e abbandonerò i miei compagni?

Mercurio. Non fuggire, no; ma anderai così bene apparecchiato, che la non possa nuocerti. Quello che non possono gli uomini, lo possono fare gli Dei. Attendi.

Euriloco. Che guarda con tanta diligenza sul terreno?

Ulisse. Nol so. Ma ecco, ch’egli ha sbarbicata un’erba.

Mercurio. Prendi, Ulisse, e tu, Euriloco, tocca quest’erba. Questa è solo conosciuta dagl’immortali. Vedete voi queste nere barbe e questo bianco fiore? In queste radici è la forza che passa al cuore, e in quel bianco fiore una virtù che rinvigorisce il cervello. Con queste due parti virtuosamente rinforzate, voi potete andare davanti a Circe, e non temere di suoi veleni nè incantesimi. Voi avrete il piacere delle sue canzoni e delle mense, e non soggiacerete al danno delle malie. Ulisse, va’, non temere; e procura d’arrestarti seco qualche tempo, che imparerai molte cose. Sopra tutto esamina la natura di quegli animali che le stanno intorno. Quest’erba ti farà ottenere da Circe di favellare ad essi, e finalmente la tramutazione de’tuoi compagni in uomini, come prima. Non altro. Ecco la casa di Circe; io ritorno a Giove.

Ulisse. Mercurio, va’con la buona ventura; e ringraziato sia tu, o Giove, che volgendo gli occhi alla terra, vedesti il mio pericolo, e mi mandasti questo soccorso. Vedi, o Euriloco, quello che faceva in me la collora e la passione de’perduti compagni. Ora mi pare che quest’erba mi abbia rinvigorito il cuore e il cervello. Io son certo che Circe non potrà tendermi le sue trappole; o s’ella potrà tenderle, non mi coglierà però dentro.

Euriloco. Udisti che Mercurio ti disse, che t’arrestassi qualche tempo seco? Io non vorrei che l’arrestarti ti rendesse debole, e che tu vi rimanessi troppo lungo tempo.

Ulisse. Non dubitare, lo ho voglia di trattenermi parecchi giorni, tanto ch’io ragioni con diversi di quegli animali. Ho curiosità di sapere in qual forma possano vivere insieme, come tu mi riferisti che fanno, lupi e pecore, lioni e buoi, e tanti vari e nimici generi di bestie; perchè parte degli uomini sieno scambiati da lei in una qualità di bestie, e parte in un’altra, e altre novità, che non so intenderle da me solo. Poichè m’è accaduta quest’avventura, voglio trarne qualche profitto. Ma così camminando a passo a passo, eccoci pervenuti al palagio.

[361] Euriloco. Ecco l’uscio, ed ecco le fissure. Odi tu a raddoppiarsi i grugniti de’porci? Io ci giuocherei che ci hanno veduti, e ci fanno accoglienza.

Ulisse. Sta’zitto. Io odo a cantare. Ascoltiamo.

Ricchezza d’oro e gioia di fortuna

Vagliono men che forza di beltate.
In tutto il mondo non è cosa alcuna
La qual non ceda a giovanil etate.
Non così tosto il raggio della Luna
Fugge innanzi alle chiome auree ed ornate
Di Febo, come innanzi alla bellezza
Nulla Fortuna restano e Ricchezza.

Ulisse. Oh! come l’è baldanzosa! Ella si vanta anche. Ma io non voglio perdere più oltre il tempo. Si chiami. ◀Utopia ◀Dialogo ◀Livello 4 ◀Livello 3 ◀Livello 2 ◀Livello 1