L’Osservatore veneto: Numero LXIX

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N° LXIX

A dì 30 settembre 1761.

Citation/Devise

 . . . Alter
Ridebat quotisti e limine moverat unum,
Protuleratque pedem; flebat contrarius alter.

Juv., Sat., X.

Non sì tosto aveano posto il piede fuori di casa,
che l’uno rideva, e piangeva l’altro.

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Se furono mai al mondo uomini mascherati in migliaia di guise, si può dire che fossero i filosofi. Da certi pochi in fuori, che veramente furono sapienti, e uomini di virtù e di dottrina, fra’quali Socrate fu il principale, io giocherei che tentavano d’acquistarsi mirabile concetto nel pubblico, chi con la barba fino al bellico; un altro che non avea da natura barba che gli bastasse, s’aiutava con un mantello intarlato; chi col rider sempre, chi col piangere di tutto; un altro col bestemmiare tutti gli uomini, e far professione d’odiarli e fuggirli come i cani guasti; e chi col tratteggiargli e mordergli sempre. Un onest’uomo, uguale in tutta la vita sua, che fa quello che dee per temperamento o per meditazione, opera come il comune, e non ha in sè verun particolare che lo distingua dalle genti, non ha cosa che meriti l’attenzione altrui, non se ne dice nè ben nè male, non può rendersi famoso. Quelle bestie, che si chiamavano filosofi, avvedutesi che un vivere usuale non potea pascere la vanagloria che aveano in corpo, postosi indosso un sacconaccio, e preso in mano un bastone, rappresentavano chi una commedia, chi un’altra; e l’indovinarono, perchè fino a’tempi nostri sono pervenuti almeno i nomi di molti, che in altro modo si sarebbero rimasi nella dimenticanza seppelliti. Ma questa fu l’usanza antica: bello sarebbe l’aver tempo, e tanta flemmaticità di cervello che bastasse a trascorrere con diligenza tutte le vie e i modi che furono ritrovati da que’tempi in poi per essere creduto filosofo; e più bello ancora il dichiarare in che fosse riposta la filosofìa. Ma la faccenda sarebbe lunga, e converrebbe averne pensiero maggiore di quello ch’io intendo di darmi nello scrivere questi fogli. Quello ch’io dirò, e che mi pare degno d’osservazione, si è che oggidì non solamente ci sieno filosofi di molti generi; ma che ci sia anche una setta di persone, le quali a dispetto loro facciano filosofi coloro che non hanno mai avuto un’intenzione al mondo di far questa professione. Guai a chi tocca d’essere intitolato filosofo, e acquista questo nome! so dire ch’egli può far conto di non aver mai più una consolazione, e che s’ha a rodere il cuore fin ch’è vivo. Acciocchè il prossimo mio possa guardarsi molto bene da tutte quelle qualità che gli possono tirare addosso questa maladizione e questo diabolico soprannome, l’avviserò brevemente di quello che dee fare per non darvi dentro, e non essere martirizzato.

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Hétéroportrait

In primo luogo fugga a tutto suo potere di essere flemmatico; e s’egli ha una voglia in corpo, incontanente la manifesti, e mostri con atti e con parole ch’egli ha un incendio nel cuore, e che non può vivere un’ora senza la cosa desiderata da lui. Anzi faccia quanto può e sa per possederla, movendo cielo e terra, e, come si dice, ogni pietra, acciocchè sappia ognuno che l’anima sua è tutta cupidità, che sta per uscire del corpo suo ad ogni picciola opposizione. A questo modo egli avrà da ogni lato chi avrà compassione di lui, che si moverà a fargli piacere. Che se all’incontro gli paresse mai strano, e piuttosto cosa bestiale che da uomo, l’aprir il suo cuore alla passione, e cercherà d’affogarla, o almeno di tenerla a freno con fatica, egli n’acquisterà una certa tristezza, astrattaggine, e col tempo un certo parlare, sentenzioso, e una cera o pallida, o brusca, o malinconica, ch’egli verrà cognominato filosofo, e può andarsi a sotterrare. In secondo luogo, s’egli avesse contraria la fortuna, e le cose sue non gli andassero prospere, scampi quanto può e sa dall’averne sofferenza. Anzi, se egli potesse mai, salga quasi sopra un’altissima specola nel mezzo della terra, ed esclami quivi dall’alto a tutte le genti, dolendosi de’casi suoi, e dimostrando che fortuna lo tiene pel collo a forza; perchè s’egli ne tacerà, e le genti sospetteranno che comporti; con pazienza i casi suoi, sarà chiamato filosofo, e può annodarsi la strozza. In terzo luogo, s’egli per sua mala ventura si fosse mai dato alle lettere, in due modi si può salvare. O egli studierà nel suo stanzino segretamente, senza che alcuno sappia la sua inclinazione alle dottrine; ma il custodire questo segreto gli riuscirà difficile, perchè se una volta verrà colto in sul fatto, basta perchè gli venga appiccato il campanello addosso, che gli suoni filosofo, filosofo: ovvero si glorificherà degli studi suoi fra tutte le genti. Questo, secondo il mio parere, è il rimedio migliore; e tanto più, perchè non fa punto mistero degli studi suoi. Chi diavol gli potrà appiccare la calunnia di filosofo, s’egli sarà il primo a farsi gli elogi, ad apprezzarsi da sè, a gonfiarsi, sicchè gli occhi gli schizzino di testa se viene lodato? All’incontro s’egli mostrerà modestia, timore dell’attività sua, s’egli pubblicherà qualche cosa, e gli tremeranno le ginocchia sotto, se riceverà le lodi per istimoli d’affati carsi, di far sempre meglio, e non si enfierà; in breve, se verrà conosciuto per uomo di pietra, eccolo filosofo, strombazzato in tutto il mondo per tale, e s’affoghi.
Oh! dirà alcuno: È però sì gran male l’essere stimato filosofo? Peggio d’ogni altra cosa. Che ha più a fare nel mondo un uomo che venga creduto tale? Per quante voglie l’accendano, ognuno si sta a guardarlo, per notare qual effetto faranno in un animo alla filosofia rivolto; per quante calamità gli accaggiano, verrà confortato con queste parole, dopo una breve e leggiera consolazione: Ma che? voi siete filosofo. Venga a sua posta annegato dalla pioggia, flagellato dalla gragnuola, consumato l’ossa dalle infermità; che importa, s’egli è filosofo? E se il meschino cadesse mai nelle mani di qualche donnuccia di spirito, garbata e di buon umore, che l’avesse in concetto di filosofo, allora vi so io dire ch’egli è concio, e ch’egli avrà con la sua filosofia a farneticare. Suo danno, s’egli fosse da vero; ma se il poverino non ne ha colpa, se fu creato tale a suo dispetto, che sarà di lui? Ho detto suo danno, se n’avesse colpa; e queste poche parole sono state un artifizio rettorico per appiccar qui sotto un certo dialogo, udito da me alquanti giorni sono, fra non so quante persone in villa, e uno che si spacciava per filosofo, a cui avvenne quello che dirò qui sotto.

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Récit général

In una deliziosa villetta, non molto di qua lontana, erano e sono ancora a villeggiare molti giovani di spirito, uomini e donne, i quali vennero da me un giorno visitati. Fra molte persone di buon umore, spensierate, e che non aveano in cuore altro che i passatempi, vidi un cert’uomo, il quale si stava a sedere da un lato con un libro in mano, e cotanto astratto, che in quella gran moltitudine parea solo, se non che talvolta udendo gli altri a ridere gagliardamente, stringevasi nelle spalle con atto di ammirazione che nel mondo si potesse dar allegrezza. Domandai ad una delle signore chi egli fosse: ed ella mi disse all’orecchio: “Zitto, quegli è un filosofo.” – “Buon pro gli faccia,” dissi io: “ma perchè, s’egli è così d’umore solitario, viene in questa compagnia così lieta?” – “Egli ci è venuto,” rispos’ella, “oggi solamente, e ne l’abbiamo indotto a venire a forza di preghiere, e a patti che sarebbe stato lasciato da noi a godersi la sua libertà.” Mentre che in tal forma si ragionava, venne uno staffiere a dir che la mensa era apparecchiata: onde ognuno lasciato stare il giuoco e gli altri passatempi, ce n’andammo per mangiare. Il filosofo, per quanto m’avvidi, con gli orecchi tirati alla voce dello staffiere, guardò con la coda dell’occhio una certa Cecilia, ch’era quella la quale m’avea renduto conto di lui: e levatosi di là dov’era, s’accostò a lei, la prese con una certa goffaggine sotto il braccio, la condusse alla mensa, e, senza punto attendere altro cenno, si pose a sedere appresso di lei. Era la tavola di vari cibi imbandita. Cecilia, giovane di buon umore, cominciò a parlargli in tal forma:

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Dialogue

Cecilia. Voi non volevate venire ad ogni modo. Vi par egli però che la compagnia degli uomini sia quella mala cosa che voi andate dicendo? Certamente io intendo di farvi rappacificare con l’umanità. Il Filosofo. Oh! questo poi no. L’uomo è la più viziosa creatura che sia al mondo. Non me ne parlate. Cecilia. Io vorrei sapere donde traete questa notizia. Il Filosofo. Veniamo al fatto. Ve ne fo ora veder l’esempio. L’avete sotto gli occhi. Notate questo spettacolo. Si può dare crudeltà maggiore di quella dell’uomo? Ogni piatto che vi si presenta qui dinanzi, n’è una prova. Quanti innocenti animali non vedete voi qui sagrificati all’ingordigia della sua gola! Che male avea fatto all’uomo quel povero bue colà, che fu sbranato in tanti pezzi? Avea fors’esso fatto altra cosa, fuorchè lavorare la terra, perchè ognuno avesse del pane? E quel povero castrato ch’è insegna della mansuetudine, che vi fec’esso, e qual diritto ha l’uomo sopra di esso, per ficcargli nella gola un coltello, scorticarlo, tagliarlo a squarci, metterlo a bollire? Ma che volete voi peggio del vedere lesso quell’infelice piccione, per la cui morte sarà rimasa vedova un’innocente colomba, ed è stato interrotto un semplicissimo amore? Qual tigre, qual lione può essere comparato all’uomo, il quale per pascere il ventre suo fa macello di tutte le creature viventi. L’Osservatore. Questo signore non pranzerà, se non gli sono arrecate innanzi erbe e minestre, ma non nel brodo, perch’egli avrebbe in orrore tutto quello che può derivare dalla calamità delle bestie. Tutti. Erbe, erbe presto, e minestre acconcie con olio o burro, perchè il filosofo non mangia nè carne nè pesce. Il Filosofo. Non, signori, non vi date questa briga per me. Date qua, date qua. Poichè v’è stato chi ha avuto il cuore di scannare, scorticare a pelare, tanto sarà s’io ne mangio.

Annotazione.

Mai non vidi uomo a diluviare con tanta furia. E non so com’egli si facesse, che macinando a due palmenti, e con la bocca piena che parea che soffiasse, la voce ritrovava ancora l’uscita per fare invettive contro alla crudeltà degli uomini. Egli è bene il vero che mi parve molto più libero nel bere, e si vedea che il vino lo tracannava con buona coscienza, non temendo d’usare veruna crudeltà; tanto che in fine del pranzo avea gli orecchi vermigli come il prosciutto, e cominciava a mozzare la filosofia con una certa lingua grossa che frangeva le parole a mezzo. Ma quello che mi piacque, fu ch’egli vedeva il fondo a tazze che pareano pelaghi, esclamando che la natura era grandemente peggiorata, e lodando que’tempi beati ne’quali i padri nostri si traevano la sete con le

Citation/Devise

Chiare, fresche e dolci acque
del limpido ruscello. Un certo Gregorio che lo vide concio a quella guisa, sapendo che nel vino sta la verità, volle scoprire il carattere di lui, e vedere s’egli era umile, superbo, pazzo, o quello che fosse, e gli parlò così:

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Dialogue

Gregorio. Io vedo che finalmente siete un poco di miglior umore di prima. Vedete voi? Credo che gli uomini sieno piuttosto disprezzati da voi per quello che n’abbiate udito a dire, che per pratica che n’abbiate. Il Filosofo. Per averne udito a dire? Voglio che sappiate che un filosofo giudica da sè, e ch’io giudico gli uomini vani, superbi, tristi ed ingiusti, appunto perchè gli ho conosciuti a fondo. Gregorio. Almanco non dite ingiusti; perchè finalmente quanti qui siamo, conosciamo il merito vero, e ne facciamo la debita stima. Il Filosofo. Quale stima? quale ne fate voi? Se voi sapeste la condizione degli antichi filosofi della Grecia! Oh! quelli sì erano gli oracoli de’loro paesi, e i legislatori delle città. Oggidì la sapienza e la virtù vivono sconosciute e in una profonda dimenticanza; la viltà e l’ignoranza acquistano quel che vogliono. Signore mie, voi non potreste sapere a mezzo quanto sia quel bene che fa un filosofo a tutta la terra. Ma

Citation/Devise

Povera e nuda vai, filosofia.
Io ho preso il mio partito di vivere solo per me stesso, e vada il mondo, come vuole. Gregorio. Leviamoci da tavola; e poichè il signor filosofo vuol vivere a sè medesimo, lasciamogli la sua libertà, come gli abbiamo promesso; e vada a meditare a sua posta. Il Filosofo. Vi sono obbligato; e tanto più, perchè mi va pel cervello una cosa, nella quale ho bisogno d’una profonda meditazione, e della mia sempre cara solitudine.
Annotazione. Così detto, si levarono tutti, e andarono a cianciare, lasciando il filosofo, il quale se n’andò soletto a passeggiare in certi viali, a cui facevano ombra non so quanti castagni salvatici, in fondo de’quali era una casettina verde, con dentrovi un buon sedile, sopra il quale si pose: e andandovi io pian piano, insieme con Cecilia, a vedere quai fossero i suoi ceffi e le sue attitudini nell’atto delle meditazioni, trovammo ch’egli russava saporitamente, e dormiva per modo che non l’avrebbero risvegliato le carra. Ritornammo indietro a render conto a’compagni de’begli avanzamenti ch’avrebbe fatti la filosofia per le nuove scoperte di lui: e si pensò ad un altro passatempo. “Non sono contento di questa bestia,” diceva Gregorio, “s’egli anche non si parte di qua innamorato. A quanto m’è paruto di vedere insino a qui, egli ha adocchiata con dolcissime guardature Cecilia: tocca a lei a compiere la commedia.” – “Non mi mettete alle mani con filosofi,” dice Cecilia, “ch’io non voglio impazzare con cervelli ch’io non conosco.” – “Anzi voi siete eletta,” dicevano tutti, “per far vendetta del genere umano dispregiato da costui:” e finalmente tanto fecero e dissero i compagni, che la giovane fu contenta.

Metatextualité

Io partii intanto dalla villa, e da uno de’compagni mi fu scritta una Novella dell’innamorato filosofo, ch’io serbo ad un altro foglio.