L’Osservatore veneto: Numero LXVII

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Livello 1

N° LXVII

A dì 23 settembre 1761.

Citazione/Motto

L’usanza mia non fu mai di dir male.

Berni, Rime Burl.

Livello 2

Livello 3

Metatestualità

Amico carissimo, la satira’è uno di que’componimenti che hanno in sè maggiore difficoltà di tutti gli altri. Una certa malignità che ogni uomo ha nel cuore, può spingerlo facilmente più oltre del dovere, sicchè egli aggravi altrui con la maldicenza. Per la qual cosa volendo voi attendere a questo genere di scrittura, io vi consiglio, fatelo senza rabbia, nè dispetto particolare; ma con un certo buon umore universale, in cui si vegga la sola volontà di scherzare e uno spirito urbano, ma non maligno. In ciò avete due originali da poter imitare. Il primo alcune persone viventi, grate alle compagnie, perchè hanno un certo dono da natura di scoprire il ridicolo ne’difetti, e lo vestono con tal garbo e con sì buona grazia, che talvolta ho veduto a ridere quel medesimo che veniva assalito da loro. Anzi sono così di buona mente, che talora rivoltano contro di sè medesimi le piacevolezze. Il secondo originale degno d’imitazione è Orazio, il quale appunto nelle sue scritture satiriche fu imitatore delle persone da me accennate, e quasi sempre va per la via degli scherzi, e tocca i difetti da quella parte che movono a riso. Questo è anche il modo di far qualche giovamento ne’costumi. La soverchia maldicenza fa dispetto a chi viene da quella colpito; nè mai tralascerà di far male colui che vien rigidamente percosso, ma all’incontro si adirerà, e s’ingegnerà quanto può di rendere il cambio a chi lo ha maltrattato o con le parole o co’fatti. E dirà fra sè: “Chi è costui il quale vuol essere mio maestro e signore di me e delle opere mie? Non ha egli fatto sì e sì? non è egli tale e tal cosa?” E ognuno dirà: “Bene gli sta, che vuole lacerare altrui, se gli è tocco di quello che andava dando al prossimo suo.” All’incontro se il satirico scherzerà con grazia, si acquisterà partigiani che terranno da lui; e se colui il quale si crede ingiuriato, vorrà con la maldicenza difendersi, la collera sua moverà a riso; tanto che conoscerà che il suo migliore è medicare i difetti suoi, e avere per amico il poeta. Sopra tutto guardatevi molto bene non solo dal dir male, ma dallo scherzare ancora intorno alle calamità altrui, non potendosi dare viltà di animo maggiore, e forse maggior crudeltà del ridere dell’altrui sventure. La povertà, per esempio, non è cosa che si debba mettere in canzone, dappoichè essa merita piuttosto la compassione e le lagrime altrui, che di essere motteggiata e derisa: ed è obbligo dell’uomo l’essere buono, giusto ed onesto, ma non ricco; perchè le prime qualità dipendono da lui, l’ultima dalla sorte. Anzi s’egli volesse liberarsi da quest’ultima disgrazia, gli converrebbe forse spogliarsi di tutte le altre qualità che lo rendono uomo degno di stima e di amore. Da un’altra cosa guardatevi come dal fuoco, e ciò è dal tratteggiare le disgrazie del corpo, delle quali non ha colpa veruna chi a suo dispetto le dee sofferire. Che bestialità è quella di schernire un uomo perchè egli è zoppo, guercio o aggravato da qualche malattia? E con tutto ciò io ho veduto alcuni che non sanno fondare in altro le facezie loro. Amico mio, in breve, io desidero, dappoichè volete consagrare la vostra penna a questo genere di verseggiare, che dimostriate altrui di essere mosso da una intrinseca gentilezza e da una voglia di scherzare, accertandovi che in tal guisa, senza biasimo vostro, farete qualche frutto nella correzione de’costumi. Scusatemi se io sono stato lunghetto, e credetemi vostro affezionatissimo L’Osservatore.

Livello 3

Lettera/Lettera al direttore

Metatestualità

Lettera di un Incognito. Voi vi affaticate continuamente il cervello ghiribizzando e trovando invenzioni da scrivere. Io non vi mando trovati, nè invenzioni, ma verità. Fatene quell’uso che vi piace.
Avrete mille volte udito a dire che nelle famiglie sono nate divisioni e romori per cose gravi e d’importanza.

Livello 4

Racconto generale

Ma nella famiglia mia è nato uno scompiglio da un principio che non vi sarà forse mai pervenuto agli orecchi. Sono molti anni che fra tre fratelli, chè tanti appunto siamo, nacque un uguale umore verso gli uccelli, e principalmente a’rosignuoli. La casa nostra risonava non altrimenti del canto di questi uccelli, che un boschetto sopra un fiume. Le camere, la sala e la cucina erano tutte ripiene di pendenti gabbie, sotto alle quali stava ognuno di noi con gli occhi attenti e con gli orecchi tesi per udire qual meglio di essi gorgheggiasse, nè mai si faceva altro ragionamento fra noi, che della maggiore o minor attività di quelli nel canto. Ognuno de’fratelli avea la sua porzione, e ognuno l’esaltava quanto più potea contro l’altra. L’allevargli era ridotto a dottrina e a scienza. Non vi posso dire tutte le regole e gli statuti formati da noi per guidar bene la famigliuola de’nostri uccelletti. Chi crederebbe che da tale innocenza fosse nato il diavolo della discordia fra noi? Più volte si suscitarono le disputazioni, perchè uno di noi volea che il rosignuolo suo fosse migliore dell’altro; ed è vero che fummo vicini ad accapigliarci più volte; ma finalmente un caso fu il termine della nostra pace, nè trovammo più il rimedio di rappattumarci insieme. Camminando due di noi per via, ci venne incontro un amico, e si rallegrò meco dell’avere udito sotto alla casa mia un rosignuolo a cantare così soavemente, che si arrestò sotto alla finestra un terzo di ora per ascoltare. Il fratello mio, con una sfacciataggine fuor di ogni misura, affermò ch’egli era il suo; io non potei aver pazienza, e gli dissi villania; tanto che l’amico ebbe una gran faccenda a quietarci. La sera raccontammo la nostra quistione al terzo fratello, acciocchè egli ne fosse giudice: ma egli, ridendoci in faccia, volle sostenere che nè l’uno nè l’altro de’nostri avea l’attività di arrestare genti sotto alle finestre, ma che tal virtù era solamente del suo, e che noi eravamo due pazzi. Non vi posso dire come si riscaldasse la nostra quistione; fummo vicini a venire alle mani; tanto che per non fare scandali deliberammo di vivere ognuno di noi da sè, e ci dividemmo il giorno dietro.

Metatestualità

Se volete dar la relazione di questo caso, fatelo; ma vi prego anche a significare nello stesso tempo che veramente i miei due fratelli si sono ingannati, e che il rosignuolo il quale cantò, fu il mio; di che spero che si avvedranno nella primavera ventura.

Livello 3

La Berretta. Favola. Non disse mai Euripide maggior bestialità, che quando egli desiderò che gli uomini avessero una finestra nel petto, acciocchè ognuno potesse vedere quello che hanno di dentro. Io credo che si faccia con esso loro vita migliore affidandosi a’buoni visi e alle buone parole, che a sapere come la pensano.

Livello 4

Fabula

Narrano le antiche leggende delle fate, che fu già una certa Flebosilla la quale, secondo l’usanza della fatagione, non so quanto tempo era donna, e non so quanto altro bestia, ora di una generazione e ora di un’altra. Avvenne dunque che, essendo ella stata scambiata da Demogorgone in topo, e avendo per lungo tempo fuggite le trappole e le ugne dell’animale suo sfidato nemico, pervenne dopo una grandissima fatica a quell’ultimo giorno in cui dovea aver termine la sua condannagione, e tramutarsi in Flebosilla, com’ella era stata più volte. Io non so se fosse l’allegrezza o altro che le togliesse il cervello; quel dì la non istette guardinga secondo la usanza sua, ma scorrendo più baldanzosamente qua e colà che non soleva, ed essendole, senza ch’ella punto se ne avvedesse, teso l’agguato da una gatta, la gli diede d’improvviso nelle ugne, e poco mancò che non rimanesse morta dalla furia della sua avversaria. Volle la sua ventura che la fu in quel punto veduta da un uomo al quale, non so se per capriccio o per altro, venne voglia di difendere il topo, e con voce e con atti spaventata la gatta, la fece fuggire; sicchè la povera fata mezza morta di paura si rimbucò, e non uscì fuori della sua tana fino al giorno vegnente, in cui deposta la pelle del vilissimo animaluzzo, era già divenuta femmina, anzi fata quale solea essere prima. È noto a ciascheduno che le fate sono una generazione di donne le quali hanno gratitudine verso coloro che le hanno beneficate; onde la prima cosa che le venne in mente, fu l’obbligo ch’ella avea a quel valentuomo che il giorno innanzi le avea salvato la vita. Per la qual cosa andatagli incontra, gli disse: “Uomo dabbene, tu hai a sapere ch’io ho teco una grande obbligazione, imperciocchè non sapendolo tu, ieri, per bontà del tuo cuore, mi salvasti la vita; di che io debbo con qualche atto di gratitudine dimostrarti l’animo mio, e farti vedere che non hai servito ad un’ingrata. E però sappi che tu puoi chiedermi qual grazia tu vuoi, essendo in mia podestà il farti quella grazia che tu mi domandi.” Il valentuomo mezzo sbigottito, come quegli che non sapea chi ella fosse, quasi quasi non sapea che domandarle, stimando che la fosse una pazza; ma pur poich’egli intese ch’ella gli facea nuove instanze, e gli disse chi ella era, le chiese per sommo favore ch’ella gli aprisse agli occhi il cuore di tutti gli uomini, tanto che avesse potuto vedere quello che di dentro vi covasse. “Sia come tu vuoi,” gli rispose Flebosilla, “benchè tu chieda un grande impaccio. Te’, prendi questa berretta: ella è fatata per modo che, quando tu l’avrai in capo, non vi sarà alcuno che ti dica altro che quello ch’egli avrà in cuore; e senza punto avvedersene, anzi credendosi di dire quello ch’egli vorrà, ti dirà quello che gli cova nell’animo.” I ringraziamenti del valentuomo furono molti e grandi; la fata si licenziò da lui, ed egli si pose la berretta. “Ora,” diss’egli, “io voglio un tratto sapere quello che pensa del fatto mio un certo dottore di legge, nelle cui mani sono le faccende mie, e fra le altre un litigio di grande importanza, dal quale egli mi ha più volte promesso che sarò sbrigato in breve tempo, e io non ne ho mai veduta la fine. Andiamo.” Va; picchia all’uscio del dottore, gli è aperto, lo incontra. Il dottore lo prende per la mano con atto di amicizia, e con molte riverenze lo accetta; ma le parole sonavano in questa guisa: “Voi siete il più grasso tordo che mi capiti alle mani. Fino a qui vi ho pelato quanto ho potuto; ma non siamo ancora a mezzo. Sedete.” – “Buono!” dice fra sè quegli della berretta, “io comincio a comprendere come io sto nelle mani del mio dottorello;” e poi, voltosi a lui, gli domanda: “A che ne siamo della nostra faccenda? Usciremo d’impaccio in breve?” – “In breve?” risponde il dottore: “credete voi ch’io sia pazzo? In breve ne potreste uscire, quando io volessi; ma natura insegna che ognuno debba piuttosto tener conto de’fatti suoi, che degli altrui. Non sapete voi che quando voi foste sbrigato, voi non mi ungereste più le mani? Dappoichè ha voluto la fortuna che i fatti vostri sieno intralciati, non sarò io già quello che gli sbrighi, no; anzi farò ogni opera mia acciocchè sieno allacciati e annodati sempre più.” Udendo il cliente queste parole, ebbe tanta collera, che cominciò a tremare a nervo a nervo, e gli battevano i denti per modo che quasi se li ruppe; ma non volendo scoprire il suo segreto, voltò via, e andò a ritrovare il suo avversario, e cominciò a parlare di accomodamento. Ma quegli dicea: “Volentieri, io l’ho ben caro; ma dappoichè tu sei stato il primo a venire a parlarmi di accordo, vedendo che lo fai per paura, voglio che ti costi gli occhi del capo; lascia fare a me.” L’uomo della berretta fu per impazzare udendo tanta iniquità; e partitosi anche di là con gran collera, si volse per andare a casa sua e per narrare alla moglie e a’figliuoli quello che gli era avvenuto, chiedendo loro consiglio di quanto egli avesse a fare. Era per la collera pallido e sì smunto, che parea infermo. Sale la scala; la moglie lo vede, e prendendogli la mano in atto di domandargli per compassione quello che avesse, che lo vedea così alterato, le sue parole sonavano in questa forma: “Lodato sia il cielo. Io comincio pur a sperare quello che ho tante volte desiderato di cuore. Vedi cera che hai da essere fra pochi giorni in sepoltura. Egli è assai lungo tempo che penso alle mie seconde nozze, e costui parea un acciaio da non dover mai morire. Olà, o Lucia, scaldagli il letto, ch’io spero ch’egli vi abbia ad entrare per l’ultima volta.” Mentre ch’ella favellava in tal guisa e il pover uomo era fuori di sè per lo dolore, eccoti che gli vengono innanzi i figliuoli, i quali cominciano a ragionare liberamente fra loro dell’eredità che debbono fare, e a godersi a mente la ventura fortuna. Sbigottito, corre giù per le scale, va a ritrovare amici, parenti e conoscenti, e ritrova ogni genere di persone ad un modo. Chi gl’insidia la roba, chi la riputazione, e ognuno glielo dice in faccia. Non trova più una consolazione, non un momento di bene. Chi lo chiama fastidioso, chi sciocco, chi bestia. Non dormiva più la notte, non mangiava più il giorno, gli parea di essere divenuto una fiera de’boschi. Finalmente non sapendo più che farsi, lanciata via da sè la berretta fatata in un fiume: “Va’al diavolo,” le disse; “tu sei la cagione della mia tristezza e di ogni mio male. Io avea buona vita con la moglie, co’figliuoli e con tutti gli altri, e gli credetti miei amici; maladetta berretta, tu mi hai fatto troppo vedere. Chi vuol istar bene nel mondo, dee appagarsi delle apparenze.”