Cita bibliográfica: Gasparo Gozzi (Ed.): "Numero LIX", en: L’Osservatore veneto, Vol.1\059 (1761-08-26), pp. 244-248, editado en: Ertler, Klaus-Dieter / Fuchs, Alexandra (Ed.): Los "Spectators" en el contexto internacional. Edición digital, Graz 2011- . hdl.handle.net/11471/513.20.444 [consultado el: ].


Nivel 1►

N° LIX

A dì 26 agosto 1761.

Cita/Lema► Lasso! non di diamante, ma d’un vetro
Veggio di man cadermi ogni speranza,
E tutt’i miei pensier romper nel mezzo.

Petrarca. ◀Cita/Lema

Nivel 2► Danno gli uomini di lettere, e principalmente coloro che si chiamano poeti, tante lodi agli studi loro, e si stimano da tanto, che, quando favellano d’ogni altra condizione di genti, pare che le sputino. Appena si degnano di credere che possa chiamarsi vivo un uomo che non faccia versi; e quando egli non sa mettere in rima tutto quello che ode o che vede, fanno quel conto di lui, che del terzo piè che non hanno. Metatextualidad► Fui per avventura anch’io di quest’opinione, fino a tanto che mi capitò alle mani un antico dialogo scritto a penna, non so di quale autore, che occuperà una gran parte di questo foglio, e forse tutto. Nè perchè sia lunghetto, mi tratterrò dallo stamparlo, parendomi che non dimeriti d’esser veduto. ◀Metatextualidad

Nivel 3►

Dialogo.

Caronte e Mercurio.

Nivel 4► Diálogo► Caronte. Pur sia lodato chi ti mandò una volta! Vedi quanti spiriti riempiono questa riva, e come si calcano l’un l’altro, perch’io gli tra-[245]gitti di là. Sono due giorni e due notti che ci piovono; nè io ho voluto accettarne ancora alcuno nella mia barca.

Mercurio. Pensa che ci sono inviato a bella posta per intendere quello che si faccia quaggiù, e come vada questa faccenda de’poeti, i quali si tengono dappiù che tutte l’altre persone vivute al mondo. Tu hai fatto molto bene intanto a lasciare ognuno di qua dalla palude, perchè se tra costoro ci fosse mescolato alcuno che avesse di là versificato, non ravvivasse lo strepito negli Elisi. Approda, ch’io entri, e lasciagli rammaricarsi quanto vogliono. Tu vedrai bel giuoco. Io ho comandamento da Giove di scambiargli in gazze e merli, sicchè se vogliono cantare di qua, come fecero al mondo, facciano almeno sempre un verso, e non ardiscano di tentare quel che non sanno. Da’pure de’remi in acqua, ch’io ci sono.

Caronte. Tu vedi ch’io fo l’uffizio mio; ma per ora non è bisogno di remi. Ho alzato la vela, e andiamo soavemente senza mia fatica. Fo mio conto di sedere qui al timone, e di cianciar teco in questo viaggio.

Mercurio. Anzi io l’avrò molto caro. Ma poichè abbiamo a favellare, diciamo qualche cosa che importi al fatto nostro. A questi dì si sono udite in cielo molte querele venute dagli Elisi; ma essendo l’Olimpo molto alto e discosto di qua, non credo che sia pervenuto agli orecchi nostri mezzo di quello che fu detto. Aggiungi, che le lamentazioni erano fatte in greco, in latino e in italiano, e si mescolavano l’una con l’altra, onde appena appena si potè intenderne il significato. E se non fossero state spinte da certe voci sottili e alterate, come si fa quando gli animi sono travagliati, non avremmo nemmeno saputo che fossero lamenti. Ma fra questo e alcuni versi che ci parvero d’Omero e di Dante, i quali ci vengono spesso cantati alla mensa da Apollo, e sono perciò notissimi a tutti gli Dei, ci avvedemmo ch’era nata qualche zuffa tra’poeti. Prima però ch’io scenda, egli è bene che ne venga avvisato da te; perch’io sappia reggermi con cautela e secondo l’intenzione di Giove.

Curante. Volentieri. Tu sai com’egli fu conceduto fra l’ombre de’nostri sotterranei boschetti, che sieno di tutti gli altri poeti maestri e dottori i due che tu hai nominato di sopra. La qual cosa non fu senza ragione. Perchè di tempo in tempo, secondo che or l’uno or l’altro di loro ci venne, si disse a questo modo: Veramente la poesia, quand’essa non fa qualche utilità a quei popoli, fra’quali è adoperata, si può dire ch’essa non sia altro che un’articolazione sonora, la quale se ne va coll’aria o svanisce al suo nascimento. Ma questo buon uomo di Omero, con quelle sue ingegnose invenzioni, fu il primo ad aprire tutti i cervelli della Grecia, ravvolti, innanzi ch’egli venisse al mondo, nelle tenebre dell’ignoranza. Costui parve che a guisa di lampo aprisse con la sua luce la via delle scienze nella Grecia; onde egli di quanti verranno quaggiù sarà da qui in poi il principale. Il medesimo fu stabilito di Dante, il quale, venuto al mondo in un secolo travagliato dall’arme e dalle fazioni e pieno d’un’asinità che tutto l’oscurava, colla sola forza del suo mirabile intelletto invogliò dopo di sè i più begl’ingegni italiani a darsi alle scienze, aprendo loro il cammino col suo nobilissimo poema, il quale parve sì nuovo e di tanta capacità e grandezza, che venne giudicato divino, comecchè egli per modestia, o per altri rispetti, con umilissimo titolo, Commedia lo nominasse. Egli è vero [246] che appresso a questi due vennero collocati molti altri Greci, Latini e Italiani; ma sono un picciolo drappelletto, fra’quali Virgilio e Orazio riconoscono per loro signore anch’essi Omero, e il Petrarca saluta qual suo maestro Dante, confessando questi ultimi d’aver bensì condotto ad una certa grazia e bellezza la lingua loro, ma d’essere stati di gran lunga inferiori nella capacità dell’ingegno, i primi due d’Omero, e l’ultimo di Dante, e specialmente di non avere beneficato il mondo con la dottrina loro, come aveano fatto i due primi, l’uno in Grecia e l’altro nell’Italia.

Mercurio. Dappoichè sono così d’accordo fra loro cotesti grandi uomini, perchè dunque è nato romore? e chi è che abbia voluto aver maggioranza fra essi?

Caronte. Sono da quasi due secoli che ci piovono certi umori nuovi, i quali vogliono che la poesia sia quello che vogliono, e postasi dietro alle spalle ogni buona regola, aprono la bocca, e stridono; e poichè hanno bene assordato il mondo con le loro canzoni scordate, se ne vengono quaggiù tutti pieni di boria; e mentre che dolcissimi poeti cantano con un’armonia che rapisce a sè tutte l’ombre, costoro, senza punto badare che guastano la musica, si danno a far trilli e dimenamenti di gola così fuori di tuono, ch’io ho veduto a quello stridere cadere a terra balorde le Arpie, per caso passate ivi sopra; e tutte l’ombre degli Elisi mettersi agli orecchi le mani, giurando che tanto era loro lo stare in que’boschetti, quanto fra l’anime disperate, se durava più a lungo quella gargagliata.

Mercurio. Io non so quello che si facciano quaggiù Radamanto e Minosso, che non hanno posto rimedio a questo disordine il primo giorno.

Caronte. Buono! Di’pure che, all’udire voci così strane e scordate, uscirono tuttaddue, che parevano spiritati, e domandato la cagione di ciò, e udito qual era, fecero incontanente una legge, che non ci fosse poeta quaggiù venuto di fresco dal mondo, il quale avesse ardimento i cantare con gli altri, se egli prima non avea imparato il modo di far versi da que’poeti che ho nominati di sopra, o almeno da alcuni che fossero da loro medesimi ad ammaestrare sostituiti.

Mercurio. Questa fu una saggia legge, e dovrebbe aver fatto buon effetto.

Caronte. Anzi di’, ch’essa ha fatto peggio di prima. Perchè i poeti nuovi in iscambio d’andare alla scuola, secondo lo statuto, incominciarono a cantare da sè, dicendo che nessuna clausola della legge lo vietava; e uscirono, come suol dirsi, pel rotto della cuffia. Sicchè furono forzati Radamanto e Minosso, se non vollero che tutte l’anime diventassero sorde, a fare una legge nuova, colla quale imposero che non aprissero mai bocca nè soli nè accompagnati, se non aveano licenza, da’maestri.

Mercurio. Avessero così fatto al primo, che non ne sarebbe nato scandalo.

Caronte. Tanto sarebbe stato. Perchè non potendo essi più cantare, incominciarono a scolpire pe’tronchi degli alberi qua e colà molte di-[247]cerie piene di maldicenza, nelle quali chiamavano i migliori poeti, e principalmente gl’italiani, vecchiumi, cosacce disusate, lingue, e non altro. E alcuni rinfacciavano al povero Dante ch’egli fosse morto povero, e al Petrarca che fosse stato innamorato; tanto che dalla letteratura passavano a censurare i costumi: la qual cosa non essendo lecita nell’altro mondo fra gli uomini dabbene, molto meno è lecita qui, dove gli errori della vita debbono essere dimenticati. Parve allora a Minosso e a Radamanto d’usare altri modi, e con le ammonizioni cercarono di far vedere a cotesti tali, che aveano in una lista notate tutte le loro maccatelle; e che se Dante era stato un povero uomo, anch’essi non erano però stati ricchi; e che il Petrarca, fragile come tutti gli altri uomini, avea amato una sola; la qual cosa in fine avea arrecato molto onore a lui e a lei; ma . . . Non fu possibile che potesse essere terminata l’ammonizione, perch’essi, montati in collera, incominciarono a dire che non erano discesi negli Elisi per andare alla scuola, ma per godersi il frutto e il premio di quell’onore che s’aveano acquistato nel mondo. Sdegnati Radamanto e Minosso nell’udire che que’begli umori s’opponevano alle loro volontà, fecero prima vedere che sulla terra s’erano dati ad intendere d’essere lodati, e che non si parlava più punto di loro, come se non vi fossero stati mai; e già pensavano a qualche solenne gastigo. Quando essi, senza punto guardare a quello che facevano, s’azzuffarono co’loro maestri medesimi, e detto a quelli un monte di villanie, s’avventarono loro addosso con tanto romore e con tante strida, che parea che cadessero gli Elisi. Onde le povere ombre, che poche erano, non sapendo più che altro farsi, cominciarono a chiedere aiuto a Giove; e io, finchè quello fosse mandato, non volli tragittare altre ombre, temendo che fra quelli vi fossero altri poeti che facessero nuovo scalpore e tumulto.

Mercurio. Caronte, tu hai fatto giudiziosamente. Ma già noi siamo a riva, e conviene ch’io vi ponga riparo. Olà! oh! qual romore è questo? Chi v’ha renduti così baldanzosi? Zitto. Non voglio udire nessuno di voi. Parlate ora, se vi dà l’animo, dappoichè la verghetta mia v’ha fatto tutti mutoli. Dante, vieni a me, dimmi tu: Dond’è nata l’origine di questa rissa?

Dante. Vedi, o Mercurio, che anche ammutoliti dalla forza della tua celeste verghetta, non cessano di menar le labbra, e borbottano, proferendo aria in vece di parole.

Mercurio. Lasciagli, lasciagli articolare, e di’.

Dante. Io credo che la cagione sia nota a te, che puoi dall’Olimpo sapere e vedere ogni cosa. Ma poichè me ne domandi, io ti sarò ubbidiente. Tutti costoro si chiamano poeti, e venendo obbligati ad imparare quell’arte che non sanno, perchè non istordiscano gli Elisi, come aveano già fatto gli abitatori del mondo, molti di noi, comandati da’soprastanti nostri cominciammo ad ammaestrargli. Essi ci fecero prima visacci. Ed entrando noi nelle regole della dottrina da noi professata, dicendo che essa era una imitazione di natura, ritratta in versi che sonassero con più tuoni, secondo la cosa imitata, si diedero a cantare a modo loro peggio che prima; e di giorno in giorno riscaldandosi, tentarono finalmente, come tu vedi, d’opprimere colle pugna noi stabiliti per loro maestri.

Mercurio. Colle pugna eh? colle pugna, dove si tratta di lettere? Orbè, poichè così sta la cosa, che tu l’hai anche temperata, lasciando [248] fuori ch’essi hanno usate le satire scritte ne’tronchi, ecco quello ch’io pronunzio per parte di Giove. Un guscio d’albero ciascuno di loro circondi; non fruttifero, non fronzuto. Mescolati fra l’altre piante, che fossero mai uomini non si sappia. Quanti da qui in poi scenderanno quaggiù loro somiglianti, cambiati in gazze e in merli, su’rami de’loro compagni cinguettino e cantino. Caronte, andiamo; tragitta chi attende. I tramutati non sono più tra l’ombre di là. Eccogli in aria che stridono e passano. Io vo a render conto dell’opera mia a Giove. ◀Diálogo ◀Nivel 4 ◀Nivel 3

L’Osservatore.

Metatextualidad► Ho finalmente avuto dal mio pittore parecchi ritratti, i quali verranno da me partecipati al pubblico fra poco tempo. Egli mi promette anche un’opera di sua invenzione, la quale non vuol dirmi che cosa sia, salvo che mi dice essere essa somigliante alla tavola di Cebete Tebano con le sue spiegazioni. Assicurami però ch’essa non contiene cose antiche, come quella, ma moderne, e che potranno essere intese facilmente da ogni uomo. Io non mi stendo di più a ragionare di quello che non so che cosa sia in effetto: ma ne do qualche notizia prima, avendolo egli desiderato. Per quanto però ho potuto ritrarre da certi amici di lui, è questo un quadro molto grande in cui dipinge la morale de’villani, di che gli è venuto voglia leggendo le cose pastorali di Longo. Infine vedremo che sarà, e ne parlerò quando avrò veduto. Per ora non ne parlo altro. Voglia il cielo che l’opere sue possano esser grate al pubblico. ◀Metatextualidad ◀Nivel 2 ◀Nivel 1