Numero LVIII Gasparo Gozzi Moralische Wochenschriften Klaus-Dieter Ertler Herausgeber Alexandra Fuchs Herausgeber Lena Druml Mitarbeiter Sarah Lang Gerlinde Schneider Martina Scholger Johannes Stigler Gunter Vasold Datenmodellierung Applikationsentwicklung Institut für Romanistik, Universität Graz Zentrum für Informationsmodellierung, Universität Graz Graz 20.05.2019

o:mws-103-499

Gozzi, Gasparo: L’Osservatore veneto. Herausgegeben von Emilio Spagni. Firenze: G. Barbera 1897 [1761], 240-244 L’Osservatore veneto 1 058 1761-08-22 Italien
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N° LVIII

A dì 22 agosto 1761.

Abscende ab janua.

Plaut., Most.

Scòstati dall’uscio.

Infiniti sono coloro che si querelano della contraria fortuna, e dicono di lei mille mali, e l’attaccano ogni giorno con villanie e con rampogne. Il difetto non è di lei, ch’ella fa l’ufficio suo, aggira quella sua immensa ruota sulla quale sono innumerabili polizze che in quel continuo aggiramento cascano dall’alto di qua e di là: e a cui toccano benefiziate, a cui bianche. Una di esse porterà scritto, per esempio: Tu avrai un grasso podere; un’altra: A te fra pochi giorni toccherà una eredità, o ti verranno parecchie migliaia di scudi. All’incontro la contenenza di un’altra sarà: Va’, e stenta in vita tua; ovvero: Quello che tu possiedi, anderà in fumo; o altre sì fatte grazie. E cosa da ridere che nessuno di noi, tenendo la polizza in mano, sa leggere; e desiderando di sapere quel ch’essa contenga, la speranza ce la legge a modo suo, e noi prestandole fede, andiamo in lungo aspettando quello che non vien mai, e intanto ci quereliamo ogni giorno.

Quanto è a me, io credo che il miglior modo per non aver dolore sia il goderci di quel poco che abbiamo alle mani, e non bramare di più. In fine non si tratta di altro che di passare il tempo di giorno in giorno, e cercar di fuggire le punture de’pensieri. Chi fosse in un luogo solitario, dove non sono compagnie, e trovasi appena chi sappia parlare o rispondere, quasi quasi darei ragione a chi si lascia vincere alla malinconia; perchè quando un pensiero si è fatto signore del cervello, e vi si conficca dentro a guisa di chiodo, non è possibile che l’uomo da sè solo ne lo possa sconficcare. Ma s’egli uscirà di casa sua, ritroverà amici o conoscenti, che ragionando ora di questa, ora di quella cosa, lo scuotano; a poco a poco gli si sgombrerà l’intelletto, e gli si alleggerirà il peso del cuore, e tornerà sano e lieto in non molto tempo. Non si può dare un agio migliore, per quelli che abbisognano di tal soccorso, delle botteghe da caffè, le quali vengono da me raccomandate qual ricetta principale per fuggire i pensieri, e accordare di nuovo lo spirito quando esso fosse scordato e stemperato. Io ritrovo in esse veramente tutto quel bene che può l’uomo bramare, quando egli voglia considerarlo attentamente. So che non potrei parlando giungere a mezzo nel dire le lodi di quelle benedette abitazioni della quiete; ma io m’ingegnerò di dirne qualche cosa; tanto che gl’ingegni più speculativi e profondi del mio, seguendo questi primi lineamenti, entrino in meditazioni, e ne cavino quel frutto che possa finalmente giovare all’umana generazione.

Di tutte le virtù degli uomini è certamente più pregevole l’ospitalità, la quale fra gli antichi ricevette sempre grandissime lodi; e ci sono di esse molti e molto nobili esempi. Pare che a que’tempi fosse più bisognevole che a’nostri; perchè mettendosi alcuno a fare qualche lungo viaggio, e non essendovi allora quell’aperta corrispondenza fra nazione e nazione, che la domestichezza de’costumi e il più morbido vivere hanno introdotto, avea ogni uomo, uscito della sua patria, gran bisogno dell’altro; e quegli che facea favore a’viaggiatori, non solo veniva stimato uomo dabbene, ma chi ricevea grazia da lui, ne facea memoria in un taccuino, e ritornato a casa sua, ricordava il ricevuto benefizio a’suoi; per modo che, se di là a cencinquant’anni i discendenti del benefattore venivano per accidente alla casa del beneficato, ritrovavano fra’posteri di lui quella stessa accoglienza ch’egli avea in sua vita in altro paese ritrovata. Oggidì è cessata questa occorrenza. Quasi in ogni parte del mondo si trovano pubblici alberghi, dove chi va, o bene o male ne avrà da mangiare e da posarsi la notte; e va a suo viaggio senza sturbare chicchessia, e ritorna a casa sua senza altre obbligazioni, fuor quelle ch’egli avrà avute agli ostieri migliori. Quantunque però la virtù dell’ospitalità ora non abbisogni largamente come nei tempi antichi, essa è bella nel proprio paese; e chi la usa, è degno di grandissima lode. La vera scuola dov’essa al presente fiorisce, io ritrovo veramente essere le botteghe de’caffè, le quali sì aprono a tutti coloro che, fuggendo le molestie della casa e i pensieri delle faccende, trovano quivi di che ristorarsi. Nè voglio che mi si dica che vi si spendono denari; perchè in fine la spesa è sì picciola, che la borsa non ne va perciò in rovina, quando non s’incontrasse in chi volesse bere e mangiar sempre: ma se l’uomo sarà moderato, conoscerà benissimo quanti sono i vantaggi che gli vengono offerti da quella liberale abitazione.

In primo luogo, quando avrà egli avuto con cinque soldi tanti agi, quanti quivi gliene vengono apparecchiati dalla bontà e clemenza de’caffettieri? In prima essi con ingegnosa e amorevole diligenza studiano che l’architettura della bottega sia grata all’occhio quanto più possa; tanto che, appressandoti ad alcuna di esse, non ti pare di veder bottega, ma piuttosto un delizioso spettacolo da teatro con molte belle vedute che ti si affacciano con tanta ricreazione del cuore, che non vorresti vedere altro. In un luogo sono adoperati i migliori pittori che ti rappresentano giardini, uccellagioni, cadute di acqua; in un altro diligentissimi intagliatori in legno si sono affaticati in bellissimi fregi tutti dorati, nel mezzo dei quali vengono collocati lucidi specchi che, mentre tu stai a sedere, ti mostrano e fanno conoscere le genti che passano per via; e senza tuo disagio, quasi sdraiato se vuoi, ti stai a godere il bulicame di chi va e di chi viene. Quanto è a’sedili, dove gli troverai tu migliori? Non vedi tu come di qua ti aprono le braccia sedie soffici, di là lunghi canapè, in un altro luogo, se non vuoi tanta grandezza, agiatissime panche? Potresti essere poi meglio servito in casa tua, quando anche avessi camerieri, staffieri, lacchè e ogni genere di famigli? Ad ogni tuo cenno ci è chi ti fa bollire il caffè, il cioccolatte, chi ti appresenta acqua, chi le ceste de’berlingozzi, con tanta destrezza e ubbidienza, che ti par essere in quel punto quel che tu vuoi; e in fine avrai speso poco più che cinque soldi. Nè io ho sentito mai alcuno che si quereli, se tu vi stessi dallo spuntar del giorno fino alle quattro ore della notte; anzi mi è tocco di vedere qualche umore malinconico a sfogarsi quivi senza dire due parole, le belle sei e otto ore continue, ora chiedendo di che bere, ora di che mangiare, o fumando tabacco, e strignendosi nelle spalle quando veniva domandato di qual cosa. All’incontro ho veduto anche di quelli che non tacevano mai, e da una parola detta da alcuno prendevano argomento di un’improvvisa e lunga diceria; e questi anche erano benissimo accolti. Oltre alla bontà dell’accettare liberalmente, e far passare il tempo senza che altri se ne avvegga, non si può dire che la ospitalità usata da’caffettieri sia disutile. Non avrà un uomo dabbene praticato una bottega da caffè sei mesi, che uscirà di là nel mondo con quella dottrina alla quale avrà avuto l’animo più inclinato. La geografia è la prima disciplina, della quale si farà profondo conoscitore, e ad un tempo la storia. Prenderà informazione dei costumi di tutti i popoli e di tutte le nazioni del mondo, dell’arte della guerra; assedi, battaglie, marce, ritirate; e sopra tutto renderà atta la lingua ad articolare con facilità ogni cosa, con l’uso del ripetere spesso cognomi di lontani paesi, e nomi pieni di consonanti, che danno grandissimo travaglio alla strozza e schiantano dalle radici l’ugola a chi non gli avrà prima uditi e ripetuti più volte in una bottega di caffè, dove verrà universalmente compatito, quando anche per un tempo gli mozzasse o azzoppasse.

Chi non volesse salire tant’alto con le dottrine, potrebbe prevalersi di altre notizie che vi si acquistano, di vestiti o di abbigliamenti di uo-mini o di donne; s’egli anche volesse fare un corso di morale, può farlo. Non ci è il più bel modo di studiarla, che il sentire a notare i difetti altrui. Questa fu la norma tenuta dal padre di Orazio nell’ammaestrare il proprio figliuolo; e questa è appunto quella medesima che quivi si tiene, sapendosi molto bene che senza gli esempi le massime sono una cosa morta. E perchè gli esempi tratti dalle storie antiche non hanno molta efficacia, e suonano più vivi agli orecchi nostri i nomi presenti che i passati, non si usano nomi greci o latini, ma ricordansi Bartolommei, Filippi, Ambrogi, che hanno suono nostrale e producono migliore e più subito effetto. Egli è il vero che nelle storie che vengono raccontate di questo o di quello, pare che ne scapiti la buona fama di alcuno; ma questo si può comportare, quando ci entra il buon desiderio e il fine di ammaestrare gl’ignoranti nella morale, i quali poscia usciti di là ripetono la lezione di luogo in luogo, e non si può dire a bastanza il benefizio che fanno con le loro benedette lingue. Il qual benefizio cresce in doppio, se la storia entra per caso in qualche buon intelletto che abbia la facoltà di creare e d’inventare qualche bella circostanza adattata al caso; molti de’quali io conosco che sono una manna a questo proposito. Allora sì che si può dire che la morale giungerà presto al suo colmo, sicchè fra poco tempo non le mancherà più nulla; essendo bene diverso il parlare con temperanza e moderazione (qualità che hanno dell’agghiacciato), e il darvi dentro, come suol dirsi, a braccia quadre, con maniera disprezzata, e che mostri il fervore e tutta la buona condizione dell’animo dond’è uscita. Ma io veggo che mi dilungo alquanto dal proposito mio, il quale fu di lodare le botteghe di caffè, e raccomandarle altrui qual ricetta principale per dimenticarsi le percosse della fortuna, fuggire la malinconia, e addottrinarsi in molte cose che non si apprendono ad altre scuole, o s’imparano con soverchia lentezza. L’argomento è di molta importanza; io ne ho tocche alcune circostanze, le quali, se mai mi concederà la sorte che possa farlo, verranno da me in particolare trattato distese.

Signor Osservatore.

Ne’passati vostri fogli ho letto una comparazione dell’ingegno delle femmine con quello di Omero, e della varietà dell’Iliade somigliante a quella delle donne per rendersi grate. Vorrei che faceste qualche paragone anche dell’Odissea dello stesso scrittore. Potrebb’essere che questo argomento vi desse nuova materia e cagione di qualche invenzion nuova. Scusatemi del disturbo, e sono tutto di voi.

Signor mio.

Vi ringrazio caramente del vostro suggerimento, e potrebb’essere ch’io ne facessi uso. Almen che sia, ne potrei avere un’utilità, che per ischerzare ritornerei a leggere un’altra volta quell’autore a grandissima ragione stimato un capo più che umano. Cotesti antichi, massime quando sono di quelli capaci, come fu appunto Omero, hanno una certa fecondità che la comunicano altrui, e sono una spezie di gonfiatoi che riempiono i cervelli che praticano con esso loro. Quel grandeggiare in ogni cosa, quel vestir tutto con immagini poetiche e voli, trasporta sì l’anima de’leggitori, che si entra in paesi d’incantesimo, e si appiccano adosso certe maraviglie le quali non si trovano ne’paesi usuali e comuni. Ma io sono però uno strano umore, che quando entro a parlare di antichi non la finirei mai. E infine qual pro penso io di fare? Nulla. Que’poveri uomini si sono affaticati per rendere immortale la patria loro, e sè medesimo ognuno; hanno fatto sentire al mondo la vera dolcezza delle labbra di Apollo, hanno vinta la oscurità e la nebbia di tanti secoli venendo fino a noi: quando le scienze stettero per qualche tempo atterrate e abbattute sotto la obblivione, furono essi che con la forza loro, anche dopo morte, le hanno rialzate da terra, ripulite, rendute belle e vistose agli occhi degli uomini; e noi siamo loro cotanto ingrati, che non vogliamo sapere alla virtù di quelli nè grado nè grazia. Anzi se alcuno fa professione di amargli e di avergli cari, è giudicato una statua, e gli vengono fatti i visacci dietro. Suo danno. Si ha a correre a seconda. Basta. Amico mio, chiunque voi vi siate, procurerò di compiacervi. L’argomento che mi vien dato da voi, è bello e buono e degno di essere trattato. Intanto appagatevi di queste poche righe, e vogliatemi bene. Addio. Tutto vostro

L’Osservatore.

N° LVIII A dì 22 agosto 1761. Abscende ab janua. Plaut., Most. Scòstati dall’uscio. Infiniti sono coloro che si querelano della contraria fortuna, e dicono di lei mille mali, e l’attaccano ogni giorno con villanie e con rampogne. Il difetto non è di lei, ch’ella fa l’ufficio suo, aggira quella sua immensa ruota sulla quale sono innumerabili polizze che in quel continuo aggiramento cascano dall’alto di qua e di là: e a cui toccano benefiziate, a cui bianche. Una di esse porterà scritto, per esempio: Tu avrai un grasso podere; un’altra: A te fra pochi giorni toccherà una eredità, o ti verranno parecchie migliaia di scudi. All’incontro la contenenza di un’altra sarà: Va’, e stenta in vita tua; ovvero: Quello che tu possiedi, anderà in fumo; o altre sì fatte grazie. E cosa da ridere che nessuno di noi, tenendo la polizza in mano, sa leggere; e desiderando di sapere quel ch’essa contenga, la speranza ce la legge a modo suo, e noi prestandole fede, andiamo in lungo aspettando quello che non vien mai, e intanto ci quereliamo ogni giorno. Quanto è a me, io credo che il miglior modo per non aver dolore sia il goderci di quel poco che abbiamo alle mani, e non bramare di più. In fine non si tratta di altro che di passare il tempo di giorno in giorno, e cercar di fuggire le punture de’pensieri. Chi fosse in un luogo solitario, dove non sono compagnie, e trovasi appena chi sappia parlare o rispondere, quasi quasi darei ragione a chi si lascia vincere alla malinconia; perchè quando un pensiero si è fatto signore del cervello, e vi si conficca dentro a guisa di chiodo, non è possibile che l’uomo da sè solo ne lo possa sconficcare. Ma s’egli uscirà di casa sua, ritroverà amici o conoscenti, che ragionando ora di questa, ora di quella cosa, lo scuotano; a poco a poco gli si sgombrerà l’intelletto, e gli si alleggerirà il peso del cuore, e tornerà sano e lieto in non molto tempo. Non si può dare un agio migliore, per quelli che abbisognano di tal soccorso, delle botteghe da caffè, le quali vengono da me raccomandate qual ricetta principale per fuggire i pensieri, e accordare di nuovo lo spirito quando esso fosse scordato e stemperato. Io ritrovo in esse veramente tutto quel bene che può l’uomo bramare, quando egli voglia considerarlo attentamente. So che non potrei parlando giungere a mezzo nel dire le lodi di quelle benedette abitazioni della quiete; ma io m’ingegnerò di dirne qualche cosa; tanto che gl’ingegni più speculativi e profondi del mio, seguendo questi primi lineamenti, entrino in meditazioni, e ne cavino quel frutto che possa finalmente giovare all’umana generazione. Di tutte le virtù degli uomini è certamente più pregevole l’ospitalità, la quale fra gli antichi ricevette sempre grandissime lodi; e ci sono di esse molti e molto nobili esempi. Pare che a que’tempi fosse più bisognevole che a’nostri; perchè mettendosi alcuno a fare qualche lungo viaggio, e non essendovi allora quell’aperta corrispondenza fra nazione e nazione, che la domestichezza de’costumi e il più morbido vivere hanno introdotto, avea ogni uomo, uscito della sua patria, gran bisogno dell’altro; e quegli che facea favore a’viaggiatori, non solo veniva stimato uomo dabbene, ma chi ricevea grazia da lui, ne facea memoria in un taccuino, e ritornato a casa sua, ricordava il ricevuto benefizio a’suoi; per modo che, se di là a cencinquant’anni i discendenti del benefattore venivano per accidente alla casa del beneficato, ritrovavano fra’posteri di lui quella stessa accoglienza ch’egli avea in sua vita in altro paese ritrovata. Oggidì è cessata questa occorrenza. Quasi in ogni parte del mondo si trovano pubblici alberghi, dove chi va, o bene o male ne avrà da mangiare e da posarsi la notte; e va a suo viaggio senza sturbare chicchessia, e ritorna a casa sua senza altre obbligazioni, fuor quelle ch’egli avrà avute agli ostieri migliori. Quantunque però la virtù dell’ospitalità ora non abbisogni largamente come nei tempi antichi, essa è bella nel proprio paese; e chi la usa, è degno di grandissima lode. La vera scuola dov’essa al presente fiorisce, io ritrovo veramente essere le botteghe de’caffè, le quali sì aprono a tutti coloro che, fuggendo le molestie della casa e i pensieri delle faccende, trovano quivi di che ristorarsi. Nè voglio che mi si dica che vi si spendono denari; perchè in fine la spesa è sì picciola, che la borsa non ne va perciò in rovina, quando non s’incontrasse in chi volesse bere e mangiar sempre: ma se l’uomo sarà moderato, conoscerà benissimo quanti sono i vantaggi che gli vengono offerti da quella liberale abitazione. In primo luogo, quando avrà egli avuto con cinque soldi tanti agi, quanti quivi gliene vengono apparecchiati dalla bontà e clemenza de’caffettieri? In prima essi con ingegnosa e amorevole diligenza studiano che l’architettura della bottega sia grata all’occhio quanto più possa; tanto che, appressandoti ad alcuna di esse, non ti pare di veder bottega, ma piuttosto un delizioso spettacolo da teatro con molte belle vedute che ti si affacciano con tanta ricreazione del cuore, che non vorresti vedere altro. In un luogo sono adoperati i migliori pittori che ti rappresentano giardini, uccellagioni, cadute di acqua; in un altro diligentissimi intagliatori in legno si sono affaticati in bellissimi fregi tutti dorati, nel mezzo dei quali vengono collocati lucidi specchi che, mentre tu stai a sedere, ti mostrano e fanno conoscere le genti che passano per via; e senza tuo disagio, quasi sdraiato se vuoi, ti stai a godere il bulicame di chi va e di chi viene. Quanto è a’sedili, dove gli troverai tu migliori? Non vedi tu come di qua ti aprono le braccia sedie soffici, di là lunghi canapè, in un altro luogo, se non vuoi tanta grandezza, agiatissime panche? Potresti essere poi meglio servito in casa tua, quando anche avessi camerieri, staffieri, lacchè e ogni genere di famigli? Ad ogni tuo cenno ci è chi ti fa bollire il caffè, il cioccolatte, chi ti appresenta acqua, chi le ceste de’berlingozzi, con tanta destrezza e ubbidienza, che ti par essere in quel punto quel che tu vuoi; e in fine avrai speso poco più che cinque soldi. Nè io ho sentito mai alcuno che si quereli, se tu vi stessi dallo spuntar del giorno fino alle quattro ore della notte; anzi mi è tocco di vedere qualche umore malinconico a sfogarsi quivi senza dire due parole, le belle sei e otto ore continue, ora chiedendo di che bere, ora di che mangiare, o fumando tabacco, e strignendosi nelle spalle quando veniva domandato di qual cosa. All’incontro ho veduto anche di quelli che non tacevano mai, e da una parola detta da alcuno prendevano argomento di un’improvvisa e lunga diceria; e questi anche erano benissimo accolti. Oltre alla bontà dell’accettare liberalmente, e far passare il tempo senza che altri se ne avvegga, non si può dire che la ospitalità usata da’caffettieri sia disutile. Non avrà un uomo dabbene praticato una bottega da caffè sei mesi, che uscirà di là nel mondo con quella dottrina alla quale avrà avuto l’animo più inclinato. La geografia è la prima disciplina, della quale si farà profondo conoscitore, e ad un tempo la storia. Prenderà informazione dei costumi di tutti i popoli e di tutte le nazioni del mondo, dell’arte della guerra; assedi, battaglie, marce, ritirate; e sopra tutto renderà atta la lingua ad articolare con facilità ogni cosa, con l’uso del ripetere spesso cognomi di lontani paesi, e nomi pieni di consonanti, che danno grandissimo travaglio alla strozza e schiantano dalle radici l’ugola a chi non gli avrà prima uditi e ripetuti più volte in una bottega di caffè, dove verrà universalmente compatito, quando anche per un tempo gli mozzasse o azzoppasse. Chi non volesse salire tant’alto con le dottrine, potrebbe prevalersi di altre notizie che vi si acquistano, di vestiti o di abbigliamenti di uo-mini o di donne; s’egli anche volesse fare un corso di morale, può farlo. Non ci è il più bel modo di studiarla, che il sentire a notare i difetti altrui. Questa fu la norma tenuta dal padre di Orazio nell’ammaestrare il proprio figliuolo; e questa è appunto quella medesima che quivi si tiene, sapendosi molto bene che senza gli esempi le massime sono una cosa morta. E perchè gli esempi tratti dalle storie antiche non hanno molta efficacia, e suonano più vivi agli orecchi nostri i nomi presenti che i passati, non si usano nomi greci o latini, ma ricordansi Bartolommei, Filippi, Ambrogi, che hanno suono nostrale e producono migliore e più subito effetto. Egli è il vero che nelle storie che vengono raccontate di questo o di quello, pare che ne scapiti la buona fama di alcuno; ma questo si può comportare, quando ci entra il buon desiderio e il fine di ammaestrare gl’ignoranti nella morale, i quali poscia usciti di là ripetono la lezione di luogo in luogo, e non si può dire a bastanza il benefizio che fanno con le loro benedette lingue. Il qual benefizio cresce in doppio, se la storia entra per caso in qualche buon intelletto che abbia la facoltà di creare e d’inventare qualche bella circostanza adattata al caso; molti de’quali io conosco che sono una manna a questo proposito. Allora sì che si può dire che la morale giungerà presto al suo colmo, sicchè fra poco tempo non le mancherà più nulla; essendo bene diverso il parlare con temperanza e moderazione (qualità che hanno dell’agghiacciato), e il darvi dentro, come suol dirsi, a braccia quadre, con maniera disprezzata, e che mostri il fervore e tutta la buona condizione dell’animo dond’è uscita. Ma io veggo che mi dilungo alquanto dal proposito mio, il quale fu di lodare le botteghe di caffè, e raccomandarle altrui qual ricetta principale per dimenticarsi le percosse della fortuna, fuggire la malinconia, e addottrinarsi in molte cose che non si apprendono ad altre scuole, o s’imparano con soverchia lentezza. L’argomento è di molta importanza; io ne ho tocche alcune circostanze, le quali, se mai mi concederà la sorte che possa farlo, verranno da me in particolare trattato distese. Signor Osservatore. Ne’passati vostri fogli ho letto una comparazione dell’ingegno delle femmine con quello di Omero, e della varietà dell’Iliade somigliante a quella delle donne per rendersi grate. Vorrei che faceste qualche paragone anche dell’Odissea dello stesso scrittore. Potrebb’essere che questo argomento vi desse nuova materia e cagione di qualche invenzion nuova. Scusatemi del disturbo, e sono tutto di voi. Signor mio. Vi ringrazio caramente del vostro suggerimento, e potrebb’essere ch’io ne facessi uso. Almen che sia, ne potrei avere un’utilità, che per ischerzare ritornerei a leggere un’altra volta quell’autore a grandissima ragione stimato un capo più che umano. Cotesti antichi, massime quando sono di quelli capaci, come fu appunto Omero, hanno una certa fecondità che la comunicano altrui, e sono una spezie di gonfiatoi che riempiono i cervelli che praticano con esso loro. Quel grandeggiare in ogni cosa, quel vestir tutto con immagini poetiche e voli, trasporta sì l’anima de’leggitori, che si entra in paesi d’incantesimo, e si appiccano adosso certe maraviglie le quali non si trovano ne’paesi usuali e comuni. Ma io sono però uno strano umore, che quando entro a parlare di antichi non la finirei mai. E infine qual pro penso io di fare? Nulla. Que’poveri uomini si sono affaticati per rendere immortale la patria loro, e sè medesimo ognuno; hanno fatto sentire al mondo la vera dolcezza delle labbra di Apollo, hanno vinta la oscurità e la nebbia di tanti secoli venendo fino a noi: quando le scienze stettero per qualche tempo atterrate e abbattute sotto la obblivione, furono essi che con la forza loro, anche dopo morte, le hanno rialzate da terra, ripulite, rendute belle e vistose agli occhi degli uomini; e noi siamo loro cotanto ingrati, che non vogliamo sapere alla virtù di quelli nè grado nè grazia. Anzi se alcuno fa professione di amargli e di avergli cari, è giudicato una statua, e gli vengono fatti i visacci dietro. Suo danno. Si ha a correre a seconda. Basta. Amico mio, chiunque voi vi siate, procurerò di compiacervi. L’argomento che mi vien dato da voi, è bello e buono e degno di essere trattato. Intanto appagatevi di queste poche righe, e vogliatemi bene. Addio. Tutto vostro L’Osservatore.