A dì 22 luglio 1761.
Si volse indietro a rimirar lo passo
Che non lasciò giammai persona viva.
Mentre ch’egli andava favellando in tal guisa, non solo io mi consolai dell’aver passato il fiumicello, per poter vedere la bellezza naturale di quel luogo più da vicino; ma mi rallegrai molto più dell’essermi abbattuto a conoscere un umorista, il quale con la singolarità de’suoi pensamenti mi avrebbe per qualche tempo intrattenuto. Onde ne lo ringraziai della buona accoglienza che mi facea, lo commendai della risoluzione ch’egli avea presa; ma non seppi tra me però deliberare affatto s’egli fosse veramente pazzo, come dicevano le genti, o saggio, com’egli si credeva di essere. Di che egli quasi si accorse, e con un benigno riso a me rivolgendosi, mi disse: “Io so bene, o forestiere, che il mio favellare vi avrà posto in sospetto del mio cervello; ma saggio o pazzo ch’io mi sia, di ciò assicuratevi che le mie fantasie non sono di uomo nocivo altrui, ma chete, e di una ragione da non poterne temere.” Intanto io mi scusava quasi ridendo, ed egli mi assicurava di nuovo; ma non cessando noi di andare, quantunque si ragionasse, giungemmo finalmente alla casettina, la quale era tutta incrostata di fuori di nicchi marini e di chiocciole e di sassolini tramezzati di vario colore, donde nasceva quella diversità di veduta che non si sapea che fosse. Dai due lati dell’uscio erano in piedi due statue fatte della stessa materia, ma in un modo diverso da tutte le altre.
Il Pregiudizio! Non vi par egli forse che costui guardi ogni cosa con la collottola? E che si creda di vedere quel che non è e che non vede? Quell’acqua torbida che spilla fuor di que’fori da lui creduti occhi, è quella dottrina e quella pratica ch’egli si forma nel cervello con la combinazione fallace degl’infiniti suoi errori; e que’tanti vasettini rugginosi che la ricevono e la spandono, sono le genti comuni, nelle quali passano gli spropositi, e gli comunicano altrui, sicchè se ne fa una perpetua circuizione e si spandono in ogni luogo.”
“Voi avete ragione,” ripigliai; “e ora, primach’io mi arresti alcun poco, con la buona licenza vostra, a riguardare l’altra statua a sinistra, concedetemi ch’io legga. Ma ch’è ciò? Non ha questa, come l’altra, il suo nome ai piedi?” – “Non lo ha,” diss’egli; “notate la statua.” Era questa tutta composta di chiocciole e pietruzze di tanti colori che formavano un cangiante il quale sfuggiva sì agli occhi, che non era possibile di stabilire qual fosse il color suo principale, imperciocchè bigia, rossigna, nericcia, vermiglia, verdastra, giallognola altrui appariva. “E chi mai,” diss’io, “ha fatto questa statua, la quale non ha in sè cosa che sia stabile? Vedi colorito incerto che ella ha! e non basta, che ora par di vedere ch’ella sia ingrognata, e poco dopo affabile, e appresso furibonda, poi pacifica: io non saprei per quale artifizio la fosse così fatta. Oltre dì che, quale uffizio fa essa? Sgorga dalla bocca sua una grande abbondanza di acqua, la quale da principio fa mostra dì voler beneficare quelle conche e que’bacini che ha intorno a sè, e poi non so come ricade tutta sopra di lei e le rientra pel bellíco, tanto che que’poveri vasi o si trovano sempre asciutti, o con pochissimo umor dentro. Dichiaratemi questo segreto, perchè io vi perderei dentro il capo senza trarne mai una cognizione al mondo.”
“Questa statua,” rispose egli, “che non ha nome, è in effetto l’Ambizione; ma poichè ella, secondo que’desiderii da’quali è tocca, si maschera, e diviene ora una cosa ora un’altra, l’artista non l’ha nominata. I vari suoi colori ed aspetti significano que’diversi personaggi che sono da lei, quasi in ispettacolo scenico, rappresentati, perchè ora fraude e talvolta bravura e tale altra un’altra cosa diventa, secondo che lo stimolo della sua voglia la punge. Quell’acqua ch’ella fa mostra di dare altrui, e che in pro suo si rivolta, è quella cortesia la quale ella usa altrui, che ritorna in suo benefizio; di che, come vedete, poco si saziano le conche che aspettano l’umore da lei. L’una e l’altra di queste due statue si rimangono fuori dell’uscio, quasi per segno che nè pregiudizi volgari nè ambizione debbano intorbidare la mia dimora, nella quale è oggimai tempo ch’entriamo.” La descrizione di tutto quello ch’io dentro vidi, sarebbe una prolissità soverchia. Non vi era cosa che non annunziasse quiete e buon sapore di vita. Vi si vedea uno squisito ordine, una pulitezza in ogni cosa che attraeva a sè l’animo. Molte
Così dicendo, entrammo in uno stanzino dov’erano non molti libri; ma, per quanto lessi le polizze che aveano sulla schiena, de’migliori che sieno pubblicati; fra’quali i più erano greci e latini. “Non vi maravigliate,” diss’egli, “se la mia libreria non giunge più là che i quattrocento volumi. Io gli ho voluti leggere dall’un capo all’altro, e non gli ho ancora bene intesi tutti, sicchè mi converrà rileggerne una parte. La vita mia non mi può bastare a leggerne di più; perchè fra il dormire e qualche altra occupazione necessaria, tutti quelli che avessi di più, mi sarebbero superflui: oltre di che, quello ch’è detto in quattrocento libri principali, è detto in tutti gli altri, salvo le parole e qualche poco d’invenzione, che fanno apparire novità in sul vecchio, come i sarti ne’vestiti rifatti.” Io volea prenderne alcuno in mano, ma egli me lo vietò, dicendo: “Queste non sono cose da farle di passaggio, ma con qualche meditazione; e perciò lasciamo per ora stare i libri, ed entrate in un’altra cameretta qui vicina.”
Feci a modo suo, e ritrovai che quivi erano vestite tutte le muraglie di pitture, le quali rappresentavano quei diletti che ministra la villa a’suoi abitatori. Perchè dall’un lato si vedevano uomini arare i terreni, e parea di udire i boattieri con quella loro mattutina e rozza canzone animare sè medesimi e i buoi al lavoro; e colà segatori e mietitori di grani, fra’quali non si era dimenticato il pittore di fare andar loro dietro a passo a passo le villanelle spigolando: e da un altro lato vedevansi i vendemmiatori che carreggiavano le uve, e poco appresso alcuni altri che le pigiavano ne’tini, colle gambe tinte fino alle cosce, e spruzzati il viso e la faccia di quel liquore ch’è letizia e conforto degli uomini, e in breve, quivi erano tutti i simulacri e le apparenze delle cose villerecce. “Io non so quello che a voi paia,” diceva egli, “di questi miei fornimenti. Ma l’intenzion mia è stata quella di far onore ad una setta di genti che con le sue fatiche e co’sudori della sua faccia è sostegno principale di tutti gli altri. Quanti voi qui vedete, sono ritratti al naturale de’miei poveri villanelli, a’quali io ho obbligo del pane ch’io mangio, del vino ch’io beo, e di tutti gli altri agi della mia vita. In un quaderno di alquanti fogli ho registrati i nomi loro, corrispondenti alle figure, quadro per quadro, acciocchè rimangano, per quanto io posso, immortali. Mentre ch’io vivea fra’capricci del mondo, in cui mi sono avvolto per parecchi anni, era questo stanzino ripieno di ritratti di molte belle e vezzose donne, le quali con lo stimolarmi ad assecondare i loro infiniti capricci mi aveano a poco a poco fatto perdere l’intelletto e la roba mia. Io non le ho però mai dispregiate, nè le dispregio; ma i ritratti loro gli ho avviati alla mia famiglia alla città, con un altro quaderno, in cui, senza però dire il nome di alcuna