L’Osservatore veneto: Numero XLVI

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N° XLVI

A dì 11 luglio 1761.

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Metatextualité

A proseguire quello che tralasciai nel passato foglio della rappresentazione di Fortuna e Prudenza, dico che mi parea che tutt’i cittadini con suoni e festeggiamenti fossero intorno alla prima; la quale, come detto è, si stava a godere la danza delle genti in sua compagnia condotte.

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Rêve

Uscì finalmente della città un bellissimo carro tirato non da cavalli, da buoi o da altri animali da noi conosciuti o a quell’uffizio avvezzati, ma da certi nuovi uccellacci, dipinti di vario colore e di più qualità di piume, i quali non solo si mostravano atti a tirare il cocchio in ogni luogo per terra, ma coi piè fatti a foggia di pala, come quei delle oche, manifestavansi atti a trarlo pel mare; e con certe alacce si vedea benissimo che poteano condurlo fino per li campi dell’aria, o dov’essi avessero voluto. Anzi poteano andare a sua posta, dappoi che non cavezzine o freno gli reggeva, ma solamente una donna, sedendo in sul carro, gli stimolava con una sferza, non curandosi punto che si arrestassero mai; ma solamente che andassero continuamente volea, e a scavezzacollo, da per tutto. Ben venga la mia carissima compagna, gridò allora Fortuna; e a questa voce si arrestarono gli uccellacci, sferzandogli tuttavia la donna del cocchio, la quale mostrava dispiacere che non andassero avanti. Nè si maravigli alcuno ch’ella non si curasse di Fortuna, nè di altro, perchè ell’era la Pazzia, la quale andava a balzi e a salti trionfando sopra quel carro. Ma Fortuna, ch’è sempre stata sua grandissima amica, accostatasi a lei, e affettuosamente abbracciandola, salì sul carro con essa; e postole un braccio amichevolmente intorno ai fianchi, lasciò fare agli uccelli quel che voleano; ed essi di nuovo alla città si rivolsero, cantando intorno ad esso carro tutto quel popolo, e palesando nelle canzoni grandissima allegrezza che Fortuna prendesse nella città loro l’albergo. Entrato in tal guisa ognuno, si chiusero le porte, e la scena rimase vota e senza romore. Ma dall’altro lato, dov’io dissi ch’era la montagna, si udirono in prima ad uscire gravissimi lamenti; e a poco a poco si apriva un gran masso, donde uscì una femmina vecchia di anni, e con la pelle tutta aggrinzata, in compagnia di molti che la seguivano; i quali al vestito che portavano indosso, e alle lunghe e folte barbe che loro coprivano il viso, conobbi ch’erano filosofi, nei lunghi studi e nelle mature considerazioni consumati. Cantarono anch’essi una canzone, ma non come le prime lieta e festevole, anzi lugubre e flemmatica, nella quale chiamavano loro Dea e scorta la femmina che andava innanzi, e chiudevano tutte le strofe con questi due versi: D’ogni bella virtù, d’ogni scïenza E sale e guida sei, diva Prudenza. Io non potei però fare a meno che non ridessi a vedere come camminava colei venendo innanzi, e come ne venivano dietro a quella i suoi compagni. Avea un bastoncello in mano, e uno ne avevano tutti i seguaci suoi, e con essi andavano attastando il terreno prima di movere il passo. Nel principio io credea che tutti fossero ciechi; ma ben tosto mi uscì tal sospetto del capo, quando non solamente alle parole ch’ella disse, conobbi che la non era cieca, ma che penetrava con l’acutissima sua vista nelle più profonde viscere della terra. Alzava ella dunque il piede, dopo di avere attastato col bastone, e già parea che volesse fare un passo, quando posato il piede colà donde l’avea prima levato, diceva: No: mal sicuro è questo luogo, due palmi sotto al terreno scorre un’impetuosa acqua; chi sa, che mentre io fo questo passo, la non isbocchi e siami addosso improvvisa, ch’io non me ne possa poi a tempo guardare? Sarebbe forse questa la prima volta che sgorgarono acque le quali non si vedeano? Voltasi dunque da un’altra parte, parendo che il passo fosse sicuro, si movea un poco e veniva avanti, predicando sempre a’seguaci suoi che si movessero con mille rispetti, accennando loro che di qua vedea un picciolo verme a tutti gli altri invisibili per l’aria, e che si dovesse causarlo, di là scopriva cento braccia sotto la terra non so quale zolfo che potea accendersi: e tanto metteva ogni suo passo sulle bilance, che la penò un gran tempo a venire avanti: seguendola i filosofi suoi, con le stesse osservazioni, a uno a uno, i quali si credeano di avere acquistate dalla sua acutissime viste, e aveano i più pazzi sospetti del mondo. A me pare una bella invenzione dell’autore a vedere quella varietà; che poco prima Fortuna fosse salita con tanta sicurezza sopra un carro tirato da tanti uccellacci che andavano secondo che venivano tocchi dal capriccio; e che costei all’incontro non si fidasse delle sue proprie gambe e di un bastone, camminando sopra il terreno sodo, e senza cagion di timore veruno. Io non so, diceva tra me, se cotesti filosofi ch’io colà veggo, facessero meglio a seguire Fortuna e Pazzia che se ne vanno a sciolta briglia, o cotesta sì avveduta lor guida, la quale pare che abbia le gambe e i piedi di piombo. Ma sia che vuole, attendasi il fine della faccenda, e vediamo a che ne riesca. Intanto Prudenza arrestatasi non molto lontana dalla città, che chiusa era, incominciò a tener fissi gli occhi nelle mura, e parea che di tempo in tempo da quelli le uscissero le lagrime. Nè io sapea perciò donde derivasse il suo dolore; quando tutta sdegnosa incominciò a favellare: Io non so, diceva, o miei fidati compagni, se voi penetrando con gli occhi vostri dentro a quelle muraglie, vedete gli scherzi di Fortuna fra cotesto popolo, il quale certamente caderà in estrema rovina, se soverchiamente fede le presta. Non vedete voi com’ella da vilissimo stato innalza non so quai tristi, i quali senza veruna educazione o studio trovandosi nella novella altezza, calpestano senza rispetto i migliori; e all’incontro i migliori abbassati da lei, cercando di acquistare la sua grazia, o diventano tristi, o i tristi vezzeggiano, e sono loro intorno con le adulazioni e, con le carezze? Dappoichè Prudenza ebbe dette queste parole, mostravasi pentita di aver favellato, e quasi temeva che l’aria udita l’avesse, affermando che contro agli uomini fortunati non era mai bene lo sparlare. La stimolavano i filosofi a metter qualche rimedio alla confusione entrata fra que’popoli; ma comecchè ella lodasse il parere, tante erano poi le difficoltà dell’esecuzione, che non sapeva arrischiarsi. Quando dall’uno de’lati della scena si levò un altissimo romore di trombe e di tamburi, che andava fino alle stelle, e si udì a gridare: Alessandro Alessandro, e Cesare Cesare; e poco andò che l’uno e l’altro entrarono a fare spettacolo di sè con bellissima pompa di cavalli e carri armati, co’quali aggiratisi ad un tempo in un’ordinatissima marcia, si fermarono finalmente dinanzi alla Prudenza, e l’assicurarono del soccorso loro contro alla nimica Fortuna. L’uno e l’altro dicevano, sè essere alla Fortuna capitali nemici; e ciò per avere udito che gli uomini attribuivano le loro gloriose imprese all’opera di Fortuna, e non a loro. Noi credevamo, dicevano essi, di acquistarci l’onore di prudentissimi capitani, avendo seguite le tue avvertenze nel dare assalti a città, nel combattere in campagne aperte, e nel ritirarci; e contuttociò udiamo che alcuni dicono, noi essere piuttosto stati dalla Fortuna assecondati, che dalla tua dottrina. Eccoci. Intendiamo ora di combattere questa tua e nostra nemica, e l’armi che intorno ci vedi, sono oggimai qui tutte a tua disposizione. Stavasi pensosa Prudenza, e in pendente fra il sì e il no, se dovea accettare il partito; quando uno de’filosofi, ridendo in faccia ad Alessandro ed a Cesare, disse al primo in tal guisa: È naturale cosa e usata fra gli uomini, che di quello che loro fortunatamente accade, dieno il pregio alla prudenza loro: ma potevi tu mai azzuffarti più sconsideratamente di quello che facesti al passo e sulle rive del Granico, e con tutto ciò ne avesti vittoria? Io so dire che quella impresa sarebbe stata biasimata in Roma, per essere stata fatta contro alle regole della prudenza; come ne fu biasimata quella di Lucullo contro Tigrane, comecchè ne riportasse vittoria con la sconfitta di centomila uomini. E tu, o Cesare, vuoi tu vedere con quanta prudenza venisti alle mani con Pompejus in Farsaglia? Ti avea già Pompejus battuto a Durazzo: avea due numerosi eserciti, un’armata da mare sì grande e gagliarda, che veniva stimata invincibile. L’esercito da terra avea molto maggiori truppe del tuo. La cavalleria di lui di settemila cavalli era il fiore de’cavalieri: tu ne avevi mille. Quarantamila fanti avea egli, tu ventiduemila. Avea egli danari e vettovaglie in abbondanza, la vicinanza del mare, tutti i porti, tutte le piazze con gagliardi presidii, da tutte le parti libero il passo, e tutta le terra da potersi ritrarre in qualunque luogo avesse voluto. All’incontro tutte le città chiudevano a te in faccia le porte, ed eri condotto a tale estremità di ogni cosa, e sì eri sprovveduto, che avevi a levar campo ogni dì per vettovagliare il tuo esercito . . . Zitto, disse allora Prudenza, la quale avea pensato che il filosofo era pazzo a sturbare con la maldicenza due animi che si mostravano suoi amici; zitto, pazzo filosofo, che stando a consumare il tempo nelle meditazioni, non sai punto qual sia quella prudenza che alle azioni si richiede. Accettiamo di buon animo l’aiuto di Alessandro e di Cesare, e facendo con esso loro alleanza, diasi l’assalto . . . o si ha a differire? Pensiamo. Non indugi, ripigliarono i due capitani. Ora è il tempo. Le genti della città sono spensierate, sprovvedute, seguono la loro novella signora, non si curano di altro, che di avere beneficenze e favori da lei. Ecco l’opportunità; non si perda. È vero, risposero tutti ad una voce; e già si dava nelle trombe; appoggiavansi le scale alle muraglie, e si minacciavano dall’una parte e dall’altra morti e macelli, vedendosi una furia così naturale e sì grande, che ne batteva il petto in cuore agli spettatori. Ma mentre che più ardeva la battaglia, eccoti che il cielo appariva tutto luminoso, come quando il sole, discacciate le notturne stelle, vien su dal mare ad illuminar tutto il mondo: e a poco a poco si calò in braccio de’zefiri una nuvola, accompagnata dal suono di dolcissimi strumenti, i quali con la loro grata armonia posero la quiete negli animi de’combattenti. Quando la nuvola fu giunta ad un certo luogo dell’aria, quivi la si sospese e sì aperse, e mostrò dal grembo suo un bellissimo giovane con una verghetta in mano, con le ale a’piedi e in sul cappello; il quale a questi segni fu riconosciuto essere Mercurio, il messaggero di Giove. O mortali, incominciò egli a dire, gratissimo scherzo di Giove, che vi pensate voi di fare al presente? Avrà egli forse mandata qua giù Fortuna e Prudenza perchè le sieno esse le condottiere del mondo, e lo facciano aggirare a sua, volontà o l’una o l’altra? Fortuna accompagnata con la Pazzia in poco tempo lo ridurrebbe a quell’antica confusione in cui si trovava nei primi tempi. E tu, o Prudenza, vigilantissima conoscitrice di tutte le cose, tanto sai e tanto vedi, che introdurresti negli uomini una perpetua ignavia, col timor dell’errare in ogni cosa. La catena che sostiene il mondo, è sulle mani di Giove; e siccome egli ha temperati caldo e freddo con la loro mistura, così egli ha mandato voi tuttaddue, perchè l’una renda gli animi animosi co’suoi favori, e l’altra gli temperi, sicchè non vogliano da Fortuna quel che non possono. Apransi di queste città le porte. Così fu eseguito. Uscì Fortuna, e per comando di Mercurio abbracciò Prudenza, la quale baciò lei, e fecero lega insieme. Mentre che io stava osservando in qual guisa si fossero partiti Alessandro e Cesare, come fosse Mercurio salito al cielo, il sonno mi ruppe la visione, o il sogno che vogliam chiamarlo;

Metatextualité

ed io, parendomi che, secondo anche sogno, avesse in sè qualche midollo di morale, presi la penna, e lo stesi in fretta, acciocchè non mi uscisse della memoria.

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Lettre/Lettre au directeur

Metatextualité

Signor Osservatore. Due righe vi vengono scritte: “Si bramano da voi versi sciolti;” e voi cortesemente rispondete: “Sarete serviti.” Altre due: “Si desiderano de’vostri sogni;” e voi con buon garbo: “Signor sì; vi saranno de’sogni al servigio vostro.” Avete ben avuta la bontà di stampare anche l’ultimo mio biglietto, ma non fui altrimenti graziato di due vostre parole di risposta; e pure avanzava tanto dell’ultima pagina del foglio che potevate farlo. Si potrebbe mai dare che mi conosceste e che qualche naturale vostra avversione contro di me v’inducesse ad avermi così poco riguardo? Ad ogni modo io non so d’avervi mai fatta veruna offesa, ma perdonatemi, vo’vedendo che voi volete farne alcuna a me. Orsù via, ditemi un’altra volta: “Non voglio rispondervi;” ed io abbasserò il capo; ed avendovi in considerazione come pur v’ho, mi darò a credere che questo sia per onor mio. Poss’io domandarvi di meno? Poss’io fare di più per voi? Voglio essere a vostro dispetto sempre vostro buon amico N. N.