L’Osservatore veneto: Numero XXXVIII

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N° XXXVIII

A dì 13 giugno 1761.

Zitat/Motto

In pertusum ingerimus dieta dolium. Plaut.

Mettiamo le parole in una botte fessa.

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Metatextualität

Verrà uno, e dirà: Vuoi tu scrivere? Io ho un bello argomento alle mani. Odilo. E mi narra una cosa. Quantunque la non mi piaccia affatto, conviene ch’io faccia buon viso, altrimenti n’avrebbe collera;
ma non giova, perchè poi si sdegnerà, quando non vede ch’io l’abbia scritta. Tanto era ch’io non gli avessi usata quella prima civiltà sulla faccia, e avessi detto pane al pane, come in effetto mi dettava la coscienza, lo sono più presto malaticcio che altro: e tuttavia non mangiando e non bevendo soverchiamente, nè facendo altri disordini di quelli che danno il crollo al temperamento dell’uomo, nè essendo per natura mal condizionato di viscere nè di sangue, non posso indurmi a credere ch’altro mi renda così malsano, fuorchè il fare per civiltà quello che non vorrei, tacere quello che vorrei dire, e parlare di quello che non vorrei, più volte in un giorno, lo non so perchè il contrastare così spesso alla propria volontà non debba fare qualche alterazione nel corpo, come la fanno tutti gli altri disordini. Di qua viene, cred’io, ancora che parlo poco. Non so come facciano alcuni i quali tengono nel cuore e nel capo più cose ad un tratto; e traggono fuori, quasi da una borsa, quello che vogliono. Anzi quello che mi pare più strano, si è che ne cavino quel che non hanno dentro, lo vedrò uno il quale ha una malinconia nel cuore che l’ammazza, e trovasi in compagnia di chi gli narra qualche frascheria e ride; per compiacenza ghigna anch’egli, e risponde al primo con una facezia. In qual parte della borsa avea egli la facezia così pronta, s’egli è pieno di tristezza? Una vedova sarà allo specchio da sè, e mirerà come le quadra bene il bruno arrecatole quel dì per la morte del marito. È piena di sè, contenta del vestito nuovo che le rialza la carnagione, perch’è bianca. La sua appariscenza l’empie tutto l’animo, tutta la testa. Il cameriere le annunzia che vengono persone a visitarla; ed ella, ripiena del primo pensiero, parlerà con la miglior grazia del mondo del suo gran dolore, e mescolerà le parole con le lagrime. In effetto, io credo che la lingua sola, senza l’aiuto del cervello, possa oggidì anch’essa dire quello che occorre; perchè altrimenti io non saprei intendere come si potesse ragionare così diversamente da quello ch’è di dentro. O veramente, contro a quanto n’hanno detto gli speculatori della natura, i pensieri non sono più nell’intelletto, ma volano per l’aria, e ce gli tiriamo respirando ne’polmoni, e gli mandiam fuori. Il che quasi quasi sarei tentato di credere, e forse lo potrei provare. Oh! non sono forse state provate cose che nel principio pareano più strane di questa? Dappoi in qua, per esempio, che fu fatto il mondo, è stato parlato sempre. Le parole non sono altro che tante vesticciuole, come chi dicesse vescichette, che rinchiudono un pensiero. Quando sono uscite dalla lingua, la vescichetta percuote nell’aria: oh! non si potrebbe dire che si rompe, e fa quello scoppio ch’ode ognuno? Il pensiero svestito dove n’andrà? Rimane per l’aria a svolazzare. Immagini ognuno qual turbine di pensieri si dee aggirare intorno a noi, dappoichè si parla al mondo. Io non l’affermerei per certo; ma molte cose mi fanno dubitare che si parli oggidì co’pensieri che vengono dal di fuori. L’una, che non s’ode mai cosa che non sia stata detta; e questo è segno che si parla co’pensieri degli altri. L’altra, che spesso s’odono persone a favellare con tanta confusione, che non si potrebbe dire altro, se non che tirando il fiato ingoiano que’pensieri che vengono, e gli cacciano fuori come ne vanno. Si potrebbe anche dire che di così fatti pensieri sia tanto piena l’aria, che caschino in ogni luogo, e principalmente ne’calamai, dove si ravviluppano nelle spugne, e ne vengono poi tratti fuori dalla punta della penna; poichè anche gli scrittori per lo più fanno come chi favella; e c’è chi scrive quello che altri ha scritto, o detta in modo che non s’intende. So benissimo che mi si potrebbe fare qualche obbiezione; perchè molte ne vanno per l’aria anche di queste, come d’ogni altra materia; ma non diffido però che non ci volino anche le risposte e gli scioglimenti. Potrebbe nascere un dubbio, per esempio, perchè le donne parlino più de’maschi. S’egli fosse vero che i pensieri volassero per l’aria, come io dico, per qual ragione n’avrebbe ad entrare in esse una maggior quantità che negli uomini, quando tirano il fiato per favellare? Rispondo che c’è diversità fra pensieri e pensieri, e che una minor quantità ne dee di necessità entrare di quelli che sono di maggiore importanza, e per conseguenza più grossi (quali son quelli che co’loro più gagliardi polmoni traggono in sè gli uomini) di que’dilicati e fini pensieri che si traggono le femmine in polmoncelli men vigorosi nel ventilare. Per altro l’obbiezione non ha fondamento, e la mia risposta fa piuttosto per dire qualche cosa, che perchè in effetto abbisognasse. Ho udite donne a parlar poco, e uomini molto. Ho sentite femmine a favellare benissimo di cose importanti e gravi, e uomini di minute e di nessuna sostanza: sicchè anche questa opposizione non istà salda al martello. E per maggior prova della mia opinione, ho fatto sperienza che, a questi giorni così piovosi e umidacci, ognuno è malinconico, e appena s’è posto a sedere, che pare addormentato; laddove quando sono i tempi asciutti, e que’bei sereni così vivi, par che ognuno si conforti a chiacchierare; e questo è indizio ch’entra l’aria in corpo respirata più grossa e più tarda; e quanto essa tien più di luogo e più tarda va, tanto men v’entra di pensieri, i quali all’incontro con la serena, agile e sottile, trovano più capacità dentro, e maggior prontezza all’entrata.

Zitat/Motto

Audio legem esse Thebis, præcipientem artificibus
tum pictoribus, tum figulis, ut imaginum formas
quoad possent optime exprimerent. Iis autem
omnibus, qui deterius aut finxissent, aut pin
xissent, pro pœna mulctam pecuniariam irro
gantem.

Ælian., lib. IV.

Sento a dire che si trovi in Tebe una legge, la
quale obbligava artefici tanto pittori, quanto
facitori d’opera in creta, ad esprimere le im
magini da loro imitate quanto potevano il
meglio. E condannava in danari coloro che
formavano o dipingevano peggio.

La bella disposizione e la grazia in tutte le cose ha un certo che d’attrattivo e di possente, che potrebb’essere detto incantesimo degli animi umani. Noi siamo, per esempio, in una compagnia di femmine, le quali ne’loro visi non avranno un notabile difetto, tanto che si potesse dire: Natura ha mancato negli occhi, nel naso, nella bocca: no, non si può dirlo; e con tutto ciò quel poco più ch’ella avesse posta d’attenzione nell’armonizzar bene tutte le parti, le avrebbe rendute bellissime, di quella perfetta bellezza, che quando si vede, si fa ammirare con una specie di rapimento di mente. Lo stesso avviene in tutte le altre cose naturali e artifiziate. V’ha una certa bellezza ingrosso e comunale, che può essere a bastanza; ma il grado superlativo è quello che signoreggia, e s’acquista celebrità, e viene desiderato. Poniamo che ci fosse, al mondo una città, nella quale tutte le donne per ispecial privilegio di natura avessero in sè la più squisita perfezione della bellezza, e ciò fosse da molti anni, tanto che ne fossero persuase tutte l’altre nazioni: certamente ch’essa città ne sarebbe grandemente famosa, e molti o forse tutti avrebbero voglia di veder le abitatrici di quella, e forse di possederle; e quando le avessero una volta vedute, appena s’appagherebbero più delle proprie. Fino a tanto ch’essa città sia edificata, mi servirò di questo esempio per far comparazione d’altre cose. Sopra ogni altra qualità degli artefici, io vorrei che fosse lodata la diligenza; perchè questa appunto è quella che fa acquistare all’opere quell’ultimo grado di bontà, che le rende superiori a tutte l’altre; e tanto se n’ha maggior vantaggio, quanto più il concetto della bontà di quelle si spargerà di fuori. Fo il mio conto, che se i vasellai di Tebe avessino, per esempio, fatti i boccali goffi e sgangherati, ciò non importava al bere; ma una certa agilità e buona grazia nella misura; certe fìgurette bene imitate, che vi si dipingevano sopra, gli avranno fatti forse divenire alla foggia, e ricercare da tutte l’altre città della Grecia; tanto che le donne ateniesi n’avranno forniti i loro scarabattoli e le pettiniere. Tante belle statue antiche, le quali vengono guardate oggidì quai modelli di perfezione, chi le curerebbe, se non avessero in sè quell’ultima squisitezza che diede loro la diligenza, la quale tanto apparisce in un torso, quanto in ogni altra parte del corpo? In somma questa si può dire la migliore e più utile maestra di tutte l’arti; e dov’ella mette l’ingegno suo, vi sarà celebrità e stima in tutti i secoli; oltre all’essere le cose uscite di sua mano accette nel presente. Ma io veggo per lo più tutto il contrario: e principalmente in quelle arti c’hanno in sè nobiltà, perchè si stimano ispirate dalle Muse. Non voglio dire come io intenda qua e colà a parlare comunemente della pittura, della poesia e dell’eloquenza: nè come venga lodato chi più repentinamente sa guidare a fine un’opera, non chi la fa migliore. Io n’avrei forse il biasimo di maldicente, come so che mi vien dato in più luoghi senza mia colpa; e ragionerei di cose che ho già dette più volte senz’alcun frutto.

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Brief/Leserbrief

Metatextualität

Signor Osservatore. Dappoichè non avete voluto mai leggermi segretamente quella Novella allegorica che mi diceste d’aver tratta non so di che luogo, ce tutto l’obbligo e la parola che vi legava, vi cito pubblicamente a stamparla ne’vostri fogli. Sia ciò per castigo dell’aver mancato. Addio.
Mio Signore.

Metatextualität

Orsù, comparisco alla vostra citazione, ed eccovi la Novella. Spiacemi solamente che in essa entri Giove, almeno nel principio, essendo egli entrato poco fa anche nel Crivello della Fortuna. Tuttavia, non volendo esser io più rinfacciato, la do allo stampatore.

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La Ragione e Amore

Novella Allegorica.

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Allegorie

Era, per la malignità invecchiata negli animi umani, fuggita la Ragione dal mondo, e salita all’altissimo Olimpo a querelarsi della stirpe de’mortali dinanzi a Giove. Ma la querimonia sua maggiore la facea contra l’iniquo figliuolo di Venere, lo scapestrato Cupido, il quale non contento delle nobili vittorie riportate nel cielo, era disceso sulla terra, e avea messo ogni cosa a scompiglio e a romore. “Costui,” diceva ella, “non sì tosto i teneri fanciulli maschi e femmine hanno acquistato facoltà di sciogliere la lingua, ch’egli con le sue maliziose parole a poco a poco entra loro nel cuore, per modo che in que’primi loro anni, i quali erano una volta tutti semplicità ed innocenza, divengono, a guisa di volpicelle, maligni, arroganti, ed acquistano tanta protervia, che a me non basta più la forza di reggerli secondo l’uffizio che da te mi fu dato. Tu sai che, prima della venuta di lui sulla terra, io avea sì scompartite l’opere degli uomini e delle donne, che gli uni non si tramettevano mai nelle faccende dell’altre, nè queste di quelli. Io avea fatto conoscere che la femmina dovea con una gentile ubbidienza rendersi grata ad un uomo, e che questi all’incontro dovea per gratitudine di sì dolce cortesia essere suo buon amico e compagno. Stimavansi insieme un vicendevole soccorso l’uno dell’altro; e tanta era la concordia e l’armonia di loro stato, che non si sentivano mai lamentazioni nè dispetti. Mise tutto a romore e sossopra l’importuno Cupido. Gareggiano al presente uomini e femmine in ogni cosa, per modo che dal fare i figliuoli, e da una certa poca diversità di vestito in fuori, appena conosceresti gli uni dall’altre. Io non posso più proferire parola, nè dire: In altri tempi non si faceva a questo modo; perchè ne vengo chiamata co’vergognosi vocaboli di rantacosa, d’antichità, e con altre simili villanie. Sicchè per lo mio meglio ho deliberato di partirmi di là, e ritornarmene in cielo a domandarti un asilo quassù, perchè fra quelle bestiacce io non ritroverei più quiete.” – “Bella guardiana e custode delle genti avea io mandato nel mondo,” rispose Giove, “la quale a’disordini de’popoli non ha saputo ritrovare rimedio migliore che il fuggir da loro, e lasciare il campo aperto a quel capestro d’usare tutte le capestrerie ch’egli vorrà sulla terra!” – “E perchè mai,” rispondeva la Ragione, “lasciaste voi penetrare, fra gli uomini quella peste?” – “ Perchè,“ ripigliava Giove, “c’infestava sempre quassù; e non volendo io che cotesta inquietudine sturbasse continuamente l’Olimpo, gli diedi bando di qua, e lo lasciai andare dov’egli volle.” – “Se voi (e sia detto con licenza della Maestà Vostra),” disse la Ragione, “l’avete scacciato di qua, per non poterlo comportare, io non potendolo sofferire di là, nè avendo autorità nè forza di sbandirlo, me ne sono venuta via. io medesima.” Arrossì Giove nell’udire la libera e ragionevole risposta di colei, e fu