L’Osservatore veneto: Numero XXIV
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N° XXIV
A dì 25 aprile 1761.
Zitat/Motto
Medio lutissimus ibis.
Tenendoti nella via di mezzo,
Ovid., Met.
Tenendoti nella via di mezzo,
n’andrai sicurissimo.
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Metatextualität
È sì noto quel detto, La virtù sta nel mezzo, che il ritoccarlo sarebbe un fastidio a’leggitori, e a me ancora. Quand’io ricevetti la scrittura, che pubblicherò qui sotto, con sopravi le poche parole allegate d’Ovidio, quasi quasi ebbi timore che la fosse una filosofica ciancia intorno all’essere virtuoso, e che l’autor d’essa volesse ripetere quello che tanti altri hanno detto senza frutto. Posto che la virtù, come altri c’insegna, stesse nel mezzo, chi è uomo d’andare cotanto diritto che non metta il piede qua o di là? e chi potrebbe avere un compasso o una riga cotanto aggiustata che gli mostrasse sempre la via del mezzo? Qltre di che, nelle cose che s’hanno a vedere non con gli occhi del corpo, ma con quelli dell’intelletto, dov’è essa cotesta via del mezzo? Chi l’ha a scoprire così appunto? Chi l’ha misurata? messa a corda? posta fra confini certi? S’è veduto alle volte al mondo certe bestialità oltre ogni misura estreme, che secondo l’occasione furono virtù grandi: e all’incontro alcune mezzane azioni, fatte a sesta, che vennero giudicate pusillanimità e miseria. Ma io non ho al presente a ragionare intorno a questo argomento. Il buon uomo che mi manda la scritturella sua, parla d’altro; ed ha occupato il suo ingegno a provare che la convalescenza, come quella ch’è fra la sanità e il male, è lo stato migliore della vita. Quanto è a me, io gli lascio pensare a suo modo; ma avrei caro che fosse al mio, parendomi un bello stato il sentirsi le gambe gagliarde e le braccia vigorose: e vorrei peccare piuttosto in questo estremo, che trovarmi nella via del mezzo da lui commendata: Ma che? Io fo conto che furono alcuni i quali lodarono, la peste, la pazzia, la stizza e le carote, e ch’egli avrà voluto fare il medesimo. Chi gli crede, suo danno.
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Lodi della convalescenza
La presente operetta sarà a conforto de’temperamenti abbattuti e piccioli di forze, che vivono a’nostri giorni, i quali si querelano di loro fragile complessione, e vorrebbono a torto essere da più di quello che sono. Fratelli carissimi, il mondo non ha, come credono alcuni, perduto il suo vigore; nè perchè in questo secolo nascano gli uomini e le donne sparuti e deboli, dobbiamo giudicare che il mondo sia pervenuto a decrepitezza; e che quasi albero piantato in crepature di terra arida, produca a stento i suoi frutti. Se noi meditiamo bene e giustamente, esso è oggidì anzi giunto alla sommità di sua perfezione. Imperciocchè non crediate che la migliore vita dell’uomo sia in robustezza e sanità; lo che è grande errore a pensare. E siccome è miseria grande l’essere infermo sempre, così è mala condizione l’avere salute; essendo l’una cosa e l’altra quelle due estremità le quali c’è vietato da’filosofi che le dobbiamo toccare. Fra due estremi è sempre una via di mezzo; quella dobbiamo seguire. Convalescenza si è via di mezzo tra infermità e salute; adunque convalescenza è la più desiderabile. Io non avrò molta fatica a dimostrare che infermità è male; e credo che ognuno di voi s’accordi. Lasciamo stare la sofferenza che n’ha il corpo, e basti dire che non è più cosa di chi l’ha; ma è tutto altrui, dovendo lo infermo, ad un picciolo cenno del medico, dargli in mano le braccia, o sotto ad un dito la lingua, e lasciarsi vedere o toccare qualunque parte egli voglia. In balía del cerusico sono le carni e le vene, e le parti di dentro divengono possedimento degli speziali; i quali possono a loro volontà mettervi dentro in lattovari, pillole, sughi per la gola, o con un cannellino per segrete parti, quello che vogliono, ti piaccia o non ti piaccia. Per modo che sendo tu infermo, e credendoti d’essere intero, se’mentalmente squartato in più pezzi, de’quali chi n’ha uno in governo, chi un altro. E però vedi quanto sia dura cosa il perdere il possedimento di te medesimo, ed essere condotto a tale, che tu preghi altrui a togliersi le tue parti e a farne quello che vuole. Più difficile sembrerà forse a dire che sanità e robustezza sia gran male.
La qual cosa non mi potrai tu però negare, se consideri a che ti conduce. Ma prima io dico che non si può dire che sia nè bene nè male quello di che il suo posseditore non si avvede punto. E vedi che tu sarai sano e gagliardo, che se alcuno non ti domandasse di tempo in tempo come stai, e non t’arrecasse a mente con la sua richiesta il tuo stato, non ti sarebbe caduto in animo d’esaminare se tu stessi bene o male; e ciò solamente, perchè sanità non è in effetto un bene che si faccia sentire, quali sarebbero l’allegrezza del bere con sete, quella del grattarsi, quella dello starnutire, dopo un pezzetto che non avessi potuto, o altre sì fatte, che sono beni efficaci ed evidenti ad ogni uomo. Ma picciola cosa sarebbe a dire che la sanità non sia un bene. Essa è male e disagio. Se noi abbiamo un bene al mondo, esso ci deriva dalla tranquillità; e chi più n’ha, sta meglio. Vedi se uomo sano ha mai pace. Di’ch’egli sia artista e lavoratore, o uomo che viva di suo avere; eleggilo qual tu vuoi. S’egli è della prima condizione, pensa che, secondo l’arte sua, egli avrà a menar le braccia dallo spuntare del giorno fino alla notte, e col sudore delle viscere a guadagnare. S’egli è benestante, o ch’egli ha a rivedere come i fattori hanno usato lo inchiostro, o egli avrà a essere con avvocati per un litigio, o si stempererà il cervello a misurare l’entrata con l’uscita; oltre agli obblighi delle visitazioni, delle cerimonie; sicch’egli avrà ad affacchinarsi in mille faccende, perch’egli è sano. E se non lo fa, n’acquista nome d’infingardo, di spensierato, di mal creato, o peggio; tanto che la sanità non è infine altro, fuorchè consumazione del cervello, e cammino verso l’ammalare. Malattia dunque e sanità, a definirle, sono due stati dell’uomo, ne’quali egli non è più cosa sua, ma d’altrui; lo che è gran male; e chi si trova nel mezzo fra questi due estremi, può chiamarsi beato. Questo desideratissimo mezzo ha nome Convalescenza; e veramente grandissima ventura ha colui che in esso si trova. Egli non ha più altro in cuore, fuorchè la consolazione dell’essere uscito dell’infermità, e un dolcissimo inganno della mente che gli fa sperare di dover essere fra poco robusto e sano. Dico dolcissimo inganno, perch’egli stima la salute essere un bene; ma s’essa non è tale in effetto, io non nego però che non sia un bene la lusinga dell’averla a possedere, finchè si stima cosa buona. Oltre a questo, non vede altro che lieti visi, e di persone che si congratulano seco; si sta per lo più a letto a sedere; non ha più obbligo di sberrettarsi per cerimonia; gli è conceduto liberamente tutto quello che nelle compagnie negano a’sani gli statuti della creanza. Sono sbanditi della sua stanza i ragionamenti degli affari; la cucina sua è dilicata, e in disparte dalla comunità; è sobria, come la raccomandano i filosofi, e gli uomini dabbene.
In breve, lo stato suo è quella tranquillità che fu sì lungamente cercata da’più sottili ingegni del mondo; e si può dire che sia entrato a fare vita contemplativa, la quale quanto sia più nobile e più libera dell’attiva, lo sa ognuno che suda nell’opere e nelle occupazioni. E che la convalescenza sia cosa buona, oltre a quanto ho detto, me lo fanno credere i molti trovati che sono stati fatti da’medici per richiamare gli uomini ad essa dallo stato di salute. Tra i quali sono molto notabili il purgare i corpi, e il cavar loro sangue la primavera, o l’autunno, quando non si sentono veruna magagna; la qual cosa altro non vuol dire, se non che l’arte imitatrice ed esaminatrice di natura ha trovato che la convalescenza è molto migliore che la sanità: e coloro che hanno lodato grandemente il vitto pitagorico, lo fecero con questa buona intenzione; perchè l’essere convalescente si è appunto l’essere come la canna d’Esopo, la quale cedendo al gran soffiare del vento e piegandosi, stette salda, e la quercia ne fu sbarbata. Finalmente per conchiudere, com’io dissi nel principio, a conforto de’corpi d’oggidì c’hanno picciola solidità e sostanza, dico che appunto per questo natura è nella maggior sua perfezione, e che ella mostra d’essere ottima a que’piccioli tremiti di muscoli e convulsioncelle che scuotono maschi e femmine senza diversità veruna; e che certi maluzzi usuali ad ogni persona sono d’avergli cari, poich’essi ne certificano d’una convalescenza universale.
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Fabel
Allegorie
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Fremdportrait
Nella caverna di certi inaccessibili monti, de’quali la storia non dice ove si fossero, abitava un tempo la più astuta e più pestifera donna che vedesse mai luce di sole. Era costei chiamata all’usanza d’Oriente con un nome ch’avea significato e sostanza; e tanto importava a dirlo, quanto importerebbe nel nostro linguaggio Povertà; e in effetto la parea sì nuda e povera d’ogni bene, che avreste detto a vederla nell’aspetto, lei essere piuttosto ombra che donna. E che altro si potea dire a vedere occhi incavati, e occhiaie livide intorno intorno, un viso che parea di legno intagliato, due mani lunghe e aride, con tutti i nocchi delle dita apparenti; cenciosa come un accattapane, col collo torto a guisa di bacchettona, e con una voce rantolosa, che limosinava sempre? Era tuttavia costei la più solenne strega che mai facesse malíe, e tenea sotto di sè un popolo innumerabile, a cui avea con molti artifizi insegnato a far danari; e quasi divenuta maestra di scuola, con grandissimo ordine ammaestrava ognuno nella sua perniziosa dottrina;