L’Osservatore veneto: Numero XXIII

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Livello 1

N° XXIII

A dì 22 aprile 1761.

Citazione/Motto

O imitatores, servum pecus. Horat.

O imitatori, greggia di schiavi!

Livello 2

Metatestualità

Anche qualche cosa che appartenga alle buone arti, può entrare fra le considerazioni dell’Osservatore; e principalmente avrà egli facoltà di parlare intorno alla poesia, che fu sempre una delle più coltivate dalle genti, e forse una delle prime a levar via da’popoli la ruggine della barbarie. Io non dirò che cosa essa sia, nè donde derivi quell’invasazione che si chiama furore poetico; nè parlerò de’vari generi de’componimenti. Tanto n’è stato detto fino al presente, e tanto se ne legge in antichi e moderni libri, che sarebbe un aggiungere acqua al mare chi volesse dirne più oltre. Eleggo una sola particella di essa, intorno alla quale udii più volte a fare romor grande e infinite quistioni, con tante ragioni dall’una parte e dall’altra, che sono un abisso da non uscirne mai. Questa è la imitazione. Vogliono alcuni che si debba imitare autori antichi; altri ci sono i quali affermano che non si debba. I primi dicono ch’egli è bene seguire i vestigi di uomini già divenuti immortali; non potendo errare chi va dietro all’orme di chi prese la diritta via della gloria. Dicono i secondi: “Oh! non abbiamo noi forse vigoria da noi medesimi, senza nuotare co’gonfiotti? Questa è schiavitù.” Adunque che si ha a fare? imitargli o no? Abbiamo da prendere l’esempio altrui, o da lasciarlo stare? Quanto è a me, direi, che essendo stati al mondo certi capi più maschi degli altri e più favoriti da Apollo, questi abbiano ad essere nostro modello e guida nel poetico viaggio. Non nego però, che non ci sieno alcuni i quali errino grandemente nel modo dell’imitazione, riducendola per lo più alla scelta delle parole e al collocamento di quelle; nel che veramente egli è impossibile che non perdano il nervo, per così dire, dell’intelletto, logorandolo nella meditazione di picciole cose, quando dovrebbono adoperarlo in quello che fa la sostanza della poesia. La correzione nel linguaggio è necessaria, è una grata armonia con giudizio variata; ma questi sono vestiti; e a che giovano i vestimenti, se non hai corpo da mettervi dentro? I nobili ingegni, che tu cerchi d’imitare, pensarono prima alle ossa, al midollo, alle polpe, poi le fornirono. Se tu se’vero investigatore, non iscucire i loro panni, ma notomizzagli intrinsecamente; apri vene, sottilizza intorno a’nervi, studia quelle ossa massicce; il dolce suono della parola ti si appiccherà frattanto agli orecchi, senzachè tu vi ponga mente, non dubitarne. Imparasti tu a favellare, dicendo fra te: Questo si dice sì e sì; questo vocabolo significa tal cosa? No. Tu non vi badasti punto, e in capo a non so quanti anni trovasti in su la tua lingua un intero vocabolario da spiegare ogni tuo concetto; imparato dalla tua famiglia, dagli amici, dalla tua nazione con la costumanza, con la pratica; e l’hai nel cervello senza sapere in qual modo vi sia entrato. Non temere. Lo stesso avverrà leggendo i libri e meditandovi sopra, senza punto arrestarti qui ad una sillaba, costà ad un modo di favellare. Lascia fare alla tua mente, la quale condotta dalla tua volontà a riflettere intorno alla sostanza dei libri, ti farà in fine questo benefizio di arricchirti dei modi del favellare; nè credere che ti abbisognino lunghe grammatiche o regole, perchè a lungo andare vi entra la correzione e la giustezza insieme con le parole. In breve, l’imitazione della favella è cosa che viene da sè, non istudiata. E ti maraviglierai che insieme ne vengano a poco a poco per la stessa impensata via i più bei fiori della rettorica e le figure, o vogliam dire, veemenze del ragionare? Che pensi tu che sieno coteste figure? Fa’tuo conto che le sieno l’azione di dentro. Siccome di fuori tu non parleresti con forza, senza movere le mani, alzare gli occhi, battere i piedi o altro somigliante atteggiare; così di dentro nascono certi gagliardi atteggiamenti che rinvigoriscono il tuo favellare, e chiamansi figure, le quali ne vengono spontaneamente; e se tu non di’: “Ora alzerò il braccio, ora mi picchierò il petto, o farò altro;” così non dirai: “Eccomi al luogo di una iperbole o di una esclamazione,” o di somiglianti movimenti che ingagliardiscono la tua loquela. Va’, va’, non te ne dar briga; leggi per altro fine, e lascia in ciò fare all’usanza. Altra dee essere l’imitazione de’nobili scrittori; e il tuo ufficio sarà di seguirgli nella imitazione ch’essi avranno fatta di natura. Nacquero al mondo certi capi privilegiati in poesia, i quali videro, come in uno specchio, tutti gli aspetti di natura, e ritrassero con tanta fede e sicurezza i lineamenti di quella nelle loro scritture, che, leggendo, ti par di vedere; tanta e tale si è la somiglianza del vero nei loro versi. Va’ tu alla loro scuola, e nota bene questa grande attività, seguigli a passo a passo, e considera tutte le bellezze di questo genere. Quanto più sono minute, sia maggiore la tua maraviglia, e ti avvezzerai col tempo a far tu medesimo lo stesso cammino; ne potresti credere a mezzo i bei campi che ti si apriranno dinanzi, non tocchi ancora, e quante novità ritroverai non vedute ne udite. Ma se vuoi andare oltre in quest’arte, non fermare il piede ai primi oggetti che ti feriscono gli occhi, nè gareggiare a descrivere un fresco e corrente rivolo, un ombroso boschetto, o il romore di una burrasca. Questi sono i più facili aspetti di natura che primi si affacciano, e dei quali si trovano ritratti in ogni luogo e ad ogni passo. Non ti chieggo imitazione di ciò. Se ti occorrono, sappi farle; ma non le tirare a te con le tanaglie.

Livello 3

Esempio

Domandoti che studi nelle passioni caratterizzate da Omero con quella infinita grandezza; quelle smanie, quei dispetti, quelle turbolenze delle anime nell’Inferno di Dante, quella nobile malinconia del suo Purgatorio, quelle consolazioni del suo Paradiso. Vedi quanti amorosi effetti ti spiega il Petrarca nel suo Canzoniere, e con quanta nobiltà! Egli è quel solo che la nobile natura di amore trasse dalla natura del cuor suo. A pena si può dire quante vie cotesti grandi uomini ti aprano coll’andare innanzi, se tu gli segui.
L’imitazione di natura risplende in essi da tutte le parti. Ogni squarcio è quadro. In ogni linea e tinta scorgi pennello da natura guidato. Se vuoi comprendere i loro studi e le continue riflessioni in questo genere, abbi l’occhio non solamente alle cose più massicce, ma, come già ti dissi, anche alle più minute, e in qual forma abbelliscono tutta la tessitura de’loro versi con migliaia d’immagini prese dalla verità; e volano rapidamente a guisa d’intelletto di uomo che veduto abbia molto mondo, e consideri con la sua profonda mente: là fui o qua, e molte cose pensi. Spècchiati fino nelle gru descritte da Dante, nelle pecorelle ch’escon del chiuso a una, a due, a tre; nell’arzanà dei Veneziani, in quelle candide anime che per la loro sottilità si veggono a guisa di perle messe in bianca fronte; e stabilisci in tuo cuore che ad ogni cosa ponevano mente, ed esaminavano aria, terra, acqua, opere di uomini, naturali effetti, apparenze di tutto. Questa è l’imitazione usata dagli uomini grandi; e in ciò gli dobbiamo imitare. Di chi si ride di loro, ridi; e tieni per certo che in altro modo non si fa libro che oltrepassi con la fama sua l’età dello scrittore.

Livello 3

Lettera/Lettera al direttore

Metatestualità

Signor Osservatore. Le conversazioni che si fanno fra gli uomini, debbono, cred’io, servire di ricreamento all’animo.

Livello 4

Esempio

Non si usa più, come faceano gli Antichi, a riconfortare lo spirito, con ragionamenti di cose gravi, lo so; e sarebbe anticaglia il ricordare quel passeggiar parlando di cose filosofiche, o il fare conviti con ragionamenti solidi, mescolati di tempo in tempo con balli, canti e altre piacevolezze. Il mondo si tramuta; e noi che siamo in esso aggirati da questa ruota universale, siamo costretti a seguirla, andando attorno con gli aggiramenti suoi. Chi avesse oggidì a fìngere un dialogo, non avrebbe più del verisimile il trattare argomenti grandi, dappoichè non si può credere che in una barchetta o in una casettina vengano que’pensieri massicci che nascevano fra lunghi filari di alberi, in ampi portici, o in altri luoghi che aveano grandezza e magnificenza.
Si sono impiccioliti gli animi nostri, e di picciolette cose si prendono diletto, appagandosi di poco. Ma sieno essi quali si vogliano, è degna delle vostre osservazioni la materia del conversare. Più volte mi sono ingannato a credere che nelle compagnie si passi il tempo lietamente. Spesso mi sono abbattuto ad un luogo dove il silenzio si usava in iscambio di parole; e passarono da due o tre ore fra monosillabi e lo sbadigliare: finalmente ognuno andò a’fatti suoi, e gli parve di essersi ricreato. Mi è avvenuto all’incontro di ritrovarmi in altri luoghi dove nessuno avea la pazienza di tacere un attimo, e non vi erano nè proposte nè risposte, ma tutto una voce; e le canne di varie gole, fatte quasi una canna sola, faceano un romore come di acqua ch’esca di una chiavica, con mille atteggiamenti di festa e di allegrezza, che io non intesi mai donde nascesse. Vidi altrove, con gravità grandissima, mettersi alquanti a sedere, e prese le carte da giuoco alle mani, combattere accaniti e senza rifiatare, fino a tanto che l’una metà cominciò a ridere e l’altra metà a starsi ingrognata; la qual cosa non mi parve che avesse punto in sè quella concordia che si richiede nelle compagnie per ristorarsi l’animo affaticato dalle faccende. Di qua si ride sempre di uno che postilla a dritto e a torto i fatti altrui: colà si lanciano tratti e facezie contro un uomo che dovrebb’essere compassionato come Giobbe. In breve, e’ci sarebbe di bisogno qualche materia da passare il tempo. Tutt’i buoni argomenti si sono o dimenticati o perduti.

Livello 4

Esempio

Ricordomi ch’io fui un dì a pranzo da un signore, il quale oggidì non è più al mondo, e vi si cominciò a ragionare di cose che non si pubblicano in istampa, perchè l’erano di quelle che non ne dicono gli speziali. Domandato da un certo onest’uomo all’orecchio, perch’egli lasciasse alla mensa sua ragionare di così fatte sozzure: “Oh!” rispos’egli, “amico mio, tu non sai quanto io mi sia affaticato più volte a ritrovare altri argomenti da ragionarvi sopra, e nello stesso tempo da mantenere la concordia fra’miei convitati. Ma che vuoi tu? se io tento di ragionare di scienze o di buone arti, e’ si credono che io voglia fare il dottore; e in effetto non sanno aprir bocca. Se io ho voluto mettere in campo qualche opinione da parlarvi pro e contra, sono entrati in tanta furia, senza saper quello che si dicessero, che furono vicini a scagliarsi qualche cosa nella faccia. Eccomi obbligato a lasciar correre un ragionamento e una materia della quale uomini e donne, giovani e vecchi sono intelligenti e d’accordo.”

Livello 3

A Fronimo Salvatico. Non avendo ne’passati giorni notizia veruna del fatto vostro, mi sentii stimolato a scrivervi. La risposta ch’ebbi da voi, mi arrecò parte consolazione, parte rincrescimento. Ebbi conforto nell’udire che seguite ad amarmi; sconforto della vostra non buona salute. Spero che questa fiorirà fra poco, e ritornerete di buon umore. Quando ciò avverrà, mi saranno sempre care le vostre scritture. Intanto non cessate di tenermi per cosa tutta vostra, perchè io mi pregio di ciò, quanto della miglior fortuna che mi possa accadere.
Ritratto Decimoquarto.

Livello 3

Racconto generale

Vengono Quintilia e Ricciardo a visitare un infermo. Al primo entrare chiedono di suo stato. Udito che pessimo è, inarcano le ciglia e si attristano. L’uno e l’altra siedono in faccia ad mio specchio. Quintìlia di tempo in tempo chiede che dicano i medici, quali medicine si usino; sospira, torce il collo, nelle spalle si stringe, ma gli occhi non leva mai dallo specchio, e quasi a caso alza la mano ad un fiore che le adorna il petto, e meglio l’adatta. Ricciardo compiange parenti, protesta di essere amico, fa una vocina flebile, ma nello specchio le sue attitudini acconcia quasi spensierato. Entra il medico. Lo siegue la famiglia alla stanza dell’infermo. Quintìlia e Ricciardo non hanno cuore che basti loro per vederlo. Rimasi soli, ragiona ella di un ventaglio che si è dimenticata di andare a prendere alla bottega; ed egli l’accerta che non sarà chiusa ancora, purchè si faccia tosto. Quanto mai si arresterà il medico nella stanza? Cominciano a temere d’indugio. Si sbigottiscono, si travagliano. “Andiamo,” dice Ricciardo. “No,” rispond’ella, “noi richiede la decenza.” Esce la famiglia con le lagrime agli occhi. Rende conto il medico dell’ammalato. A pena ha terminato, che Quintilia e Ricciardo con un Dio vi consoli vanno in fretta pel ventaglio, parlando insieme del soverchio indugio in quella casa.