La Frusta letteraria di Aristarco Scannabue: Numero IV
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N.° IV
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Roveredo 15 novembre 1763.
Delle viziose maniere del difendere le cause nel foro. Trattato di Giuseppe Aurelio di Gennaro, con una prefazione di Giannantonio Sergio. Napoli 1744, in 4.o
Una delle cose che sovente mi desta meraviglia non meno che stizza nel legger l’opere de’tanti nostri moderni scrittori in prosa, è il vedere come non pochi d’essi sanno talvolta profondamente pensare, ma quasi nessuno sa esprimere i suoi pensieri con uno stile naturale e piano e corrente. Eppure il formarsi un buono stile in prosa è una faccenda di così poco momento, che se gli scrittori nostri non facessero punto di studio intorno alla scelta delle loro espressioni, io son certo che i loro stili riuscirebbero molto migliori che non riescono. Volete una prova, leggitori, che la cosa sarebbe appunto come’io la dico?Ebene 4
Exemplum
Confrontate soltanto lo stile del già nominato Benvenuto
Cellini, che era un uomo ignorantissimo, con lo stile dell’abate Antonio Genovesi, che è
uomo sopra molti milioni d’uomini scienziato. Voi troverete che quello del Cellini è
semplice, chiaro, veloce e animatissimo; e quello del Genovesi intralciato,
languido, stiracchiato e scuro. E perchè questo? Perchè il Cellini pensava unicamente a
dire le cose che aveva in mente, e il Genovesi non solo pensa a dir le cose che ha in
mente, ma pensa anche a dirle piuttosto in questo che in quel modo.
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Exemplum
La natura fu che al Cellini insegnò a mettere il nominativo
innanzi al verbo, e dietro al verbo l’accusativo, o qualunque altro caso gli occorreva
per rendere il suo discorso grammaticale e secondo l’indole del parlar fiorentino, la
qual indole gli metteva poi nello stile tutte le altre parti del discorso nei luoghi
loro, o prima o dopo alcuna di quelle tre principali, senza fargli fare la minima
fatica.
I giovani dunque che si risolvono a farla da scrittori in prosa (chè della prosa io parlo adesso, e non della poesia), si lascino dare questo buon consiglio dal vecchio Aristarco, cioè notino a voler loro le tante bellezze di stile, di cui tanti pretendono che abbondino il Boccaccio, e il Casa, e il Firenzuola, e tant’altri famosi scrittori de’buoni secoli; ma si persuadano che chi si studierà d’imitare alcuno di quelli, e di porre i piedi sulle loro vestigia, riuscirà senza fallo uno scrittore di cattivo stile. Noi dobbiamo da quegli scrittori imparare i vocaboli, e ragunarsene in mente quante migliaja possiamo, colle debite discriminazioni fra i più usati e i meno usati, fra i moderni e gli obsoleti, fra i prosaici e i poetici, e noi dobbiamo da quegli scrittori imparare a distinguere tra le frasi native e le frasi forestiere, e a ben ravvisare quel totale di esse che si chiama indole o genio della lingua toscana. Queste sono le due sole cose (parlo relativamente allo stile) che noi dobbiamo imparare da que’barbuti patrassi. Quando entrambe saranno ben bene imparate, buttiamo via e Boccaccio, e Casa, e Firenzuola, e ogni altro scrittore de’buoni secoli, e scriviamo (come dissi) quel che vien viene, sempre stando saldi a quel negozio del nominativo, del verbo e dell’accusativo o altro caso, senza rigiri artifiziosi, senza nominativi dopo i verbi, senza accusativi dinanzi ai verbi, e sopra tutto senza verbi in punta a’periodi quando la necessità nol chiegga assolutamente; chè, così facendo, lo stile nostro con un poco d’esercizio si farà buono senz’alcuna fatica, e la nostra prosa, ancorchè vôta di pensieri, come quella di tanti scrittori de’buoni secoli, riuscirà tuttavia una prosa molto limpida e netta, e molto dilettevole a leggersi.
Metatextualität
A questi documenti in fatto di stile, che io indirizzo ai
principianti, e non agl’invecchiati scrittori, perchè so che gli scrittori invecchiati
sono tutti inesorabili ed immutabili, come lo sono io stesso, a questi documenti, dico,
so benissimo di aver contrarj molti grandi esempj e molte autorità magistrali e
magistralissime.
Non è però che io mi voglia poi tutto appoggiare su questo ergo, come talora m’appoggio tutto sulla mia gamba di legno. Oh se mi stuzzicate, signori, io sono poi uomo da sfoderare anch’io le mie belle e buone autorità, e i miei altitonanti esempj, quanto chicchessia.
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Exemplum
Già ho detto che Benvenuto Cellini ha scritto un meglio
stile che non alcun altro Italiano; uno stile più schietto e più chiaro, perchè più
secondo l’ordine naturale delle idee, le quali non ne presentano mai il verbo prima del
nominativo, e non ce lo collocano mai in punta a’periodi e a una gran distanza da
quello. Ma se ricusate di stare all’esempio del Cellini, perchè fu uomo rozzo e senza
lettere, e perchè scrisse nel propio dialetto della plebe fiorentina, quasi che il
Boccaccio non avesse fatto anch’egli lo stesso in molti luoghi del suo Decamerone, io vi
dirò che il Machiavelli e il Caro dugent’anni fa, cioè circa dugent’anni fa, e che il
Bellini e il Redi a’tempi miei non imitarono lo stile del Boccaccio, o d’altro scrittore
loro antenato, e che non usarono se non di rado, e a caso anzi che a studio, qualche
trasposizioncella;
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Exemplum
Ma buttandomi d’un salto in Francia, e d’un altro salto in
Inghilterra, vogliamo noi dire che Arnaud, Ablancourt, Pascal, Nicole, Bordaloue,
Vaugelas, Bouhours, Madama di Sevigné, Fénélon, e tant’altri scrittori de’tempi di Luigi
quartodecimo, abbiano preso ad imitare lo stile chi d’uno e chi d’altro scrittore più
antico d’essi? Vogliamo noi dire che i moderni Voltaire, Buffon, Alambert, i due
Rousseaux e tant’altri, sieno iti pedestremente dietro lo stile di alcuno de’loro
predecessori? E fra gl’Inglesi vogliamo noi dire, che Newton, e Locke, e il cavalier
Tempie, e Addison, e Swift, e Pope, e i viventi Johnson, e Warburton, e tant’altri loro
scrittori miei contemporanei abbiano cercato d’imitare nello stile il Visconte di
Verulamio, o Roberto Boyle, o Algernon Sidney, o Harrington, o Wotton, o qualch’altro di
quegli scrittori che scrissero ne’primi secoli della loro lingua, cioè ne’tempi di
Enrico ottavo, d’Elisabetta, di Giacomo primo, di Carlo primo e di Cromwello, che furono
tempi abbondantissimi d’inglesi scrittori? Tutti questi Francesi, tutti questi Inglesi
sì antichi che moderni, tutti hanno uno stile che è proprio di ciascuno di essi, e tutti
dal più al meno sono buoni stili, quantunque nessuno sia stato formato per
imitazione.
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Fremdportrait
Questi due signori Di Gennaro e Sergio sono due persone
molto erudite, sono due non mediocri pensatori, e, quello ch’io stimo assai più, sono
due galantuomini, che come l’abate Genovesi loro compatriota, cercano sinceramente di
giovare al genere umano, e di beneficarlo co’loro scritti, anzi, per quel ch’io sento,
con le loro quotidiane fatiche. Gli è peccato che nè l’uno nè l’altro di essi sappia
scrivere con quella eleganza e proprietà necessaria in coloro che hanno, com’essi, i due
principali caratteristici di chi vuol farla da scrittore, vale a dire desiderio e
capacità d’insegnare agli uomini delle buone cose.
Lo stile del signor Sergio, ammiratore e seguace del Boccaccio e di tutta la schiera degli antichi prosatori e poeti nostri, è uno stile così affettato, così scabro e così insoffribilmente pieno di strane e sforzatissime trasposizioni, che la lettura della sua prefazione è quella che mi ha mostrata la necessità di estendermi alquanto, come ho qui fatto, sui vizj dello stile e sul poco discernimento di chi prende a imitare o il Boccaccio o alcun altro degli antichi prosatori nostri. Ecco come il signor Sergio comincia uno de’paragrafi della sua prefazione.
Qual è quell’uomo fornito di sì ferreo timpano d’orecchi, che non sel senta rompere da quel crudele ciò nientemeno, onde? chi mai parlando vorrebbe cominciare una sentenza con un ciò nientemeno onde? No, signor Sergio, questo non è modo di dire che si usi in Toscana, e tutto il vostro periodo non è secondo il dettame della natura, nè secondo l’indole della lingua nostra: e uno sfaccendato che cianciasse in un caffè, egualmente che un avvocato che aringasse nel foro, muoverebbe a riso o a stizza gli ascoltanti, cominciando un periodo con ciò nientemeno onde. S’io avessi avuto a dire la stessa cosa, la natura me l’avrebbe fatta dir così.
Quantunque questi due lunghi paragrafi il signor Gennaro gli abbia scritti molto lindamente, e quantunque ne’quattro o cinque paragrafi che sieguono egli abbia esaltato, e con molta ragione, il dolce e saggio e giustissimo governo che nel suo regno di Napoli amministrava il glorioso re di Spagna prima che passasse al presente suo trono, io lo prego tuttavia di osservare che l’uomo savio e dabbene sta ottimamente dappertutto, quando abbia di che vivere agiatamente. L’uomo savio e dabbene vive tranquillo e sicurissimo tanto in Parigi, in Torino, in Copenaghen e in Pietroburgo, quanto in Venezia, in Genova, in Amsterdam e in Varsavia. Le leggi d’ogni monarchia, egualmente che quelle d’ogni repubblica, lo difenderanno tutte dalla violenza e dall’oppressione; e così al contrario l’uomo ribaldo e scellerato sarà molto bene impiccato, o scopato, o mandato in galea, a proporzione de’suoi meriti, quando queste o quelle leggi lo scuoprano ribaldo e scellerato. Gli antichi tiranni di Sicilia e i Neroni e gli Eliogabali di Roma sarà vero che usarono ingiustizie e crudeltà a più d’un galantuomo; ma più d’un galantuomo è stato anche trattato con ingiustizia e con crudeltà nelle due tanto vantate repubbliche d’Atene e di Roma. Checchè avvenisse allora che le tenebre dell’idolatria coprivano tanto le monarchie, quanto le repubbliche, il Cristianesimo ha fatto mutar aspetto alle cose in Europa, e tutte le monarchie d’Europa, e tutte le sue repubbliche cristiane, vuoi ortodosse o vuoi eterodosse, hanno un certo spirito derivato dal Vangelo infuso nelle loro leggi civili, che non v’è più pericolo di vedere rinnovati i crudeli esempj d’ingiustizia e di crudeltà dati qualche volta nelle antiche repubbliche e nelle antiche monarchie. In tutta Europa le leggi sono amministrate da magistrati soggetti anch’essi alle stesse leggi che amministrano, e che sono pronte a punirli anch’essi, quando cercassero dipartirsi dall’esatta amministrazione di quelle; onde tutti rendono giustizia a tutti, e dinanzi ad essi ogni avvocato può sbizzarrirsi coll’eloquenza a suo piacimento, e può liberamente dire qualunque ragione che creda favorevole al suo cliente, senza mai essere obbligato a far ricorso all’adulazione che tutto finge e lusinga, o al silenzio che tutto cuopre e nasconde. La legge scritta, o sia la legge morta, si usa oggidì tanto nelle repubbliche quanto nelle monarchie cristiane, vale a dire in tutta Europa. E il re di Francia, per esempio, o quel di Spagna, o la Czara di Moscovia avrebbero un bel da fare se volessero pigliarsi la briga di giudicare secondo il loro assoluto volere (che è quello che i legali chiaman legge vivente) tutte le cause, o soltanto le principali, de’tanti milioni di sudditi che hanno!
Che poi gli avvocati riescano meglio avvocati nelle repubbliche anzi che nelle monarchie, non so come diavolo si possa provare. È vero che Demostene e Cicerone furono due grandi avvocati in repubblica, ma la difficoltà sta in sapere, se in uno stato monarchico Demostene e Cicerone sarebbero stati due zucche, o due grandi avvocati. L’Ariosto fu un gran poeta epico in un ducato, che era governato monarchicamente; ma Ariosto sarebb’egli stato un poeta da raccolte in Lucca, in Pisa, in Costantinopoli? A che serve parlare di Roma e d’Atene, di Cicerone e di Demostene? Parliamo delle repubbliche e delle monarchie d’oggidì. Vorresti dire, Gennaro mio, che in Parigi, in Torino, in Copenaghen e in Pietroburgo non vi sieno de’buoni avvocati, come in Venezia, in Genova, in Amsterdam e in Varsavia? Gennaro mio, ve n’hanno de’buoni e de’cattivi dappertutto; e tu che sei un buon avvocato nella monarchia di Napoli, anderesti molto in collera se uno di quei buoni avvocati che sono nella repubblica di Genova venisse a dirti ch’egli è miglior avvocato di te?
Ma che importa poi all’odierno mondo, che gli avvocati fioriscano un poco più o un poco meno in un paese? Che importa questo a’tanti contadini, che sono obbligati a reggere l’aratro pe’campi, e a menar la falce ne’prati, onde gli uomini abbiano del pane da mangiare, e i buoi del fieno? Che importa questo ai tanti fabbri e ai tanti falegnami, che sono costretti a martellare e a piallare tutto il santo dì per somministrarci de’chiodi e dell’asse? Che importa questo ai tanti fornaciaj e ai tanti tagliapietre, che hanno ad arrostirsi al fuoco, o a sudar l’ossa per somministrarci i materiali onde fabbricare le nostre abitazioni? Che importa questo a tant’altre migliaja d’artefici, che tutti a gara provvedono la società de’tanti arnesi che le occorrono? Che importa finalmente questo a tanti coltivatori delle tante scienze che poco o nulla han che fare colla legale? Tutti costoro fanno pure le loro faccende, o che gli avvocati sieno un po’più buoni, o un po’più men buoni? Che la professione loro sia trionfale, o non trionfale? E tutti le fanno pure, o che il governo sia repubblicano o sia monarchico? Dove sono dunque i vantaggi d’esser nato piuttosto in Genova che in Milano? piuttosto in Olanda che in Prussia? Bisogna, Gennaro mio bello, ringraziar Dio, che t’ha fatto cristiano piuttosto che turco; piuttosto avvocato in Italia che eunuco in Persia; piuttosto un galantuomo in Napoli che un corsaro in Algieri; piuttosto savio in casa tua, che pazzo nell’altrui. Ecco quello, Gennaro mio, che il vecchio Aristarco ti può dire, dopo d’aver viste tante monarchie e tante repubbliche, sulla rancida e frivola quistione del nascere in repubblica e del nascere in monarchia. Conservati quel galantuomo che sei; fa buon uso de’danari che hai; sta sano finchè puoi; scrivi un meglio stile quando scriverai un altro libro; lascia andare i nocchieri a buon viaggio pel Mediterraneo e per l’Oceano; e non ti perdere in vane speculazioni.
Lo stile del signor Sergio, ammiratore e seguace del Boccaccio e di tutta la schiera degli antichi prosatori e poeti nostri, è uno stile così affettato, così scabro e così insoffribilmente pieno di strane e sforzatissime trasposizioni, che la lettura della sua prefazione è quella che mi ha mostrata la necessità di estendermi alquanto, come ho qui fatto, sui vizj dello stile e sul poco discernimento di chi prende a imitare o il Boccaccio o alcun altro degli antichi prosatori nostri. Ecco come il signor Sergio comincia uno de’paragrafi della sua prefazione.
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Zitat/Motto
« Ciò nientemeno, onde quella oriental gente in maggiore
stima aveasi, era la cognizion dello Stato e della politica, e l’arte del formar leggi
tutte affacenti a render sicuri e tranquilli gli uomini ».
Qual è quell’uomo fornito di sì ferreo timpano d’orecchi, che non sel senta rompere da quel crudele ciò nientemeno, onde? chi mai parlando vorrebbe cominciare una sentenza con un ciò nientemeno onde? No, signor Sergio, questo non è modo di dire che si usi in Toscana, e tutto il vostro periodo non è secondo il dettame della natura, nè secondo l’indole della lingua nostra: e uno sfaccendato che cianciasse in un caffè, egualmente che un avvocato che aringasse nel foro, muoverebbe a riso o a stizza gli ascoltanti, cominciando un periodo con ciò nientemeno onde. S’io avessi avuto a dire la stessa cosa, la natura me l’avrebbe fatta dir così.
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Zitat/Motto
« Ma quello che rese ancora più stimati quegli
Orientali, fu la cognizione dello Stato e della politica, e l’arte di formare di
quelle leggi che rendono sicuri e tranquilli gli uomini ». E così dicendo si sarebbe
lasciato fuora quell’affettato affacenti, e quel barbaro ciò nientemeno onde.
Sentiamo due o tre altri periodi, e facciamo loro un po’di commento.
Poco bel vocabolo, e mal collocato è quell’unquemai, e cattiva l’immagine
dell’agitata vaghezza che si spinse.
Cattiva la metafora di nutrirsi di valore; e il valore più conto è
insopportabile. L’addiettivo conto si soffre ancora qualche volta in poesia in onore
del Petrarca che l’ha usato, ma in prosa, torno a dirlo, è insopportabile.
Qui ci vorrebbe una chiosa lunga un mezzo miglio per rischiarare il bujo
pensiero del signor Sergio, che ha voluto dire una bella cosa, e non l’ha saputa dire.
Credo che la perfezione consista nell’unità, com’egli m’assicura, e che l’unità sia un punto di pregio; ma cosa poi intend’egli per unità e per punto di pregio? Bisogna essere indovino per indovinare di questi indovinelli.
In questa metafora o allegoria si confonde il sapor del frutto con le frondi
della pianta che lo produce, onde per la discordanza del sapore e delle frondi, che
andavano contrapposte al frutto, e non al sapor del frutto, la metafora o l’allegoria
riesce viziosa, stiracchiata e buja. Bisognava dire che l’eloquenza in Atene era una
pianta carica di frutti, ma che traspiantata altrove non produsse più che frondi;
oppure che i frutti prodotti dalla pianta dell’eloquenza in Atene erano di sano e
gentil sapore, ma che traspiantata altrove, que’frutti degenerarono, ed acquistarono
un sapore aspro e malsano.
La prima parte di questo periodo sarebbe stata buona, se non si guastava con
quella ispezieltà; la seconda parte è stiracchiatamente espressa, nè trovo molta
armonia nel terminare la prima pausa di un periodo con un vocabolo accentato in à,
ispezieltà, e la seconda pausa con un altro vocabolo accentato in ò, sollevò.
Sentiamo due o tre altri periodi, e facciamo loro un po’di commento.
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Zitat/Motto
« Una più agitata vaghezza di libertà altrove non si
spinse unquemai ».
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Zitat/Motto
« Dalla di cui manifesta professione teneansi lontani
gli oratori i quali aspirando ad alta gloria, nutrivansi d’altro più conto valore e
più distinto ».
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Zitat/Motto
«Le scienze e l’arti, se incominciano a discostarsi
dalla perfezione, che nell’unità, cioè in un certo punto di pregio consiste,
precipitosamente rovinano ».
Credo che la perfezione consista nell’unità, com’egli m’assicura, e che l’unità sia un punto di pregio; ma cosa poi intend’egli per unità e per punto di pregio? Bisogna essere indovino per indovinare di questi indovinelli.
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Zitat/Motto
« Avendo l’eloquenza cominciato a trapiantarsi da Atene per allignare altrove, vi perdè ogni sapor gentile e sano, e
crebbe in infelici frondi di forme straniere ».
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Zitat/Motto
« Ma l’innalzamento principale delle buone lettere in
Italia era riserbato a Francesco Petrarca con ispezieltà, che con altri valorosi
spiriti nel decimoquarto secolo giacenti e afflitte dalla rozzezza le sollevò ».
Metatextualität
Non paja strano ad alcuno che il vecchio
Aristarco discenda a fare di coteste minute osservazioni, nè alcuno le creda poco
proporzionate alla dignità d’uno scrittore, i di cui mustacchi sono poco meno che
imbianchiti dagli anni, perchè la faccenda dello stile non è mai da un precettore
abbastanza inculcata, essendo veramente questa la prima e più necessaria qualità di
chiunque si vuole accingere a fare il nobilissimo mestiero di giovare alla società
co’suoi libri, giusta la savia non meno
e il mio buon maestro Diogene Mastigoforo, di veneranda memoria, soleva dire con
un tuono di voce risoluto, che « il tempo mangia tutti i libri scritti con cattivo
stile, ancorchè pieni della più importante e più squisita dottrina ».
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Zitat/Motto
che acuta riflessione di Boileau, che « un pensiero
plebeo e comune, quando è espresso con esattezza e proprietà, piace più generalmente
che non un sentimento nuovo e nobile espresso con poca proprietà ed esattezza »:
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Fremdportrait
Se lo stile del signor Sergio è cattivo per un verso,
quello del signor Gennaro (lasciamo fuora quel di) è cattivo per l’altro. Il Sergio si
è guastato lo stile a forza di studiare il Boccaccio e i cinquecentisti, e il Gennaro
se l’è guastato a forza di leggere gli autori del seicento, come a dire la Stratonica
di Luca Assarino, la Dionea, e gli Scherzi Geniali del Loredano, e più di
tutti quel mio caro Calloandro di Ambrogio Marini, parte di cui io diedi in Asnagar
capitale della provincia di Kakaner nel regno del Mogol tradotto in mogollese a quel
mio grand’amico Krab Kul Kan Kon. Allo stile di que’secentisti si assomiglia lo stile
tronfio e romoroso del signor Gennaro, con queste due bellezze di più, che è tutto
sconvolto e trasposto, e che è sparso qui e qua di rancidi vocaboli cavati dal
Boccaccio, e altri prosatori e poeti antichi, come altezzoso, nonpertanto, scevero,
vemente, vemenza, replicazione, smagato, piggiorare, piggiore, esemplo e simili.
In somma non dirò nulla di cento, o dugento, o trecento altri secentisti
paragoni tra grandi e piccoli, che il signor Gennaro ha cacciati ne’due o tre primi
capi di questo suo trattato, onde servano di modello a un avvocato che tratta la causa
di un pover’uomo nel foro; onde possa, imitandolo, mostrarsi eloquente; e onde possa
evitare il pericolo di essere annoverato tra quelli che difendono cause con viziose maniere.
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Exemplum
Egli abbonda poi di altitonanti paragoni, e ad ogni
passo s’incontra « un nocchiero audace che senza ferma e corredata nave, senza i ben
preparati ajuti di sarte, di vele e timone, alla furiosa discrezion de’venti e
dell’onde incautamente abbandonasi »; e s’incontra « un secondo nocchiero perito,
che con mente ed arte regge le vele in un agitato e fortunoso mare; e per nemici che
sieno i venti, tumide e spumanti l’onde, bruna l’aria e minacciosa, campa il legno
dal furor della tempesta e si trova nel porto il sicuro e sospirato ricovero »; e
poi s’incontra « un terzo nocchiero che senza sapere il costante corso delle stelle,
il vario spirar de’venti, la natura delle stagioni e la situazion de’mari e
de’paesi, si gitta audacemente nell’onde, e pensa valicar
temerariamente l’Oceano »; e s’incontra finalmente « un quarto nocchiero con la
bussola, che ne’vasti ed agitati mari, e sotto il tetro aspetto del cielo irato,
regola e governa e con sicurezza al porto conduce i più risicosi viaggi de’naviganti
». Questi quattro nocchieri s’incontrano tutti quattro prima di giunger al fine del
capo secondo di questo trattato, composto di soli dieci capi tutti assai brevi.
Quei nocchieri sono poi accompagnati da « un pavido fanciullo, che la prima volta che nuoti, poco discostasi dalle vicine arene, e quasi mezzo si tuffa nell’onde, e mezzo sul lido ancor si rattiene » (per far la rima con le vicine arene); e quel fanciullo è accompagnato da « un viandante che in giungere a nuovo stranio paese, tanto impiega di parole quanto ne richiegga la necessità, e non si avanza a spiegarsi prima di ben conoscer l’indole o ’l costume degli abitatori ».
Non dirò nulla della « semenza nella terra rinchiusa, che non darà mai fuora robusto arbore di speciose frutta ornato, se piccolo o scarso umore lo innaffi. Ve ne abbisognano de’copiosi e spessi (cioè degli umori), talchè squarciandosi il seno, si dilatino le ristrette sue fibre, e rompendo il carcere del terreno istesso, sorga all’aperto, contrasti cogli anni nemici, e sprezzi la ferocia de’turbini e delle tempeste ». E non dirò nulla « del valoroso Achille, il quale, trovandosi colle donzelle di Sciro in mentito abito e a lor somigliante (vedi l’Achille in Sciro del Metastasio), altro non scelse tra i femminili arredi, che la sola spada in essi tramischiata e confusa, come quella che appagava il suo genio guerriero, e serviva ai gran disegni del suo impaziente e trattenuto valore ».
Quei nocchieri sono poi accompagnati da « un pavido fanciullo, che la prima volta che nuoti, poco discostasi dalle vicine arene, e quasi mezzo si tuffa nell’onde, e mezzo sul lido ancor si rattiene » (per far la rima con le vicine arene); e quel fanciullo è accompagnato da « un viandante che in giungere a nuovo stranio paese, tanto impiega di parole quanto ne richiegga la necessità, e non si avanza a spiegarsi prima di ben conoscer l’indole o ’l costume degli abitatori ».
Non dirò nulla della « semenza nella terra rinchiusa, che non darà mai fuora robusto arbore di speciose frutta ornato, se piccolo o scarso umore lo innaffi. Ve ne abbisognano de’copiosi e spessi (cioè degli umori), talchè squarciandosi il seno, si dilatino le ristrette sue fibre, e rompendo il carcere del terreno istesso, sorga all’aperto, contrasti cogli anni nemici, e sprezzi la ferocia de’turbini e delle tempeste ». E non dirò nulla « del valoroso Achille, il quale, trovandosi colle donzelle di Sciro in mentito abito e a lor somigliante (vedi l’Achille in Sciro del Metastasio), altro non scelse tra i femminili arredi, che la sola spada in essi tramischiata e confusa, come quella che appagava il suo genio guerriero, e serviva ai gran disegni del suo impaziente e trattenuto valore ».
Ebene 5
Exemplum
Il bello poi è, che il signor Gennaro raccomanda agli
avvocati, cioè a quelli che professano la famosa e trionfal professione di avvocato,
di non usare « vocaboli antichi ». « Voi non sapete, dic’egli, qual brutta figura
facciano quegl’infelici nel comparire ai nostri dì col cappuccio o col sajo di
messer Dante, del quale alcuni modi di parlare oggidì totalmente infradiciati,
debbonsi, come certi avanzi d’antichità, mirar solamente con venerazione, ma non toccarli, non avvalersene. Eppure costoro credono, quando parlan
così, di fare artifiziosamente lampeggiar ne’loro aringhi una finezza di lingua
recata, com’altri graziosamente disse, fin di colà lontanissimo, ove il Cipolla andò
peregrinando, in Truffia e in Buffia, e infino in India Pastinaca, dove volano i
pennati; perciò, soggiung’egli, conviene star molto attenti a tessere il discorso
con que’vocaboli che pajono da sè venuti sulle labbra; non industriosamente e a
Bistento chiamati » (Bistento il vocabolario dice V. A. vocabolo antico, eppure qui
è venuto da sè sulle labbra del signor Gennaro) « a esprimer quel concetto che si
vuole; talchè si persuadano i prudenti ascoltatori, che così, e non altrimenti,
l’avrebbero essi medesimi espresso ». In questo modo questo precettore rompe i
precetti che dà altrui nel tempo medesimo che li pronunzia, o, per dir meglio, che
li scrive.
Metatextualität
Credo che questi pochi e brevi esempj basteranno al
leggitore perchè rimanga persuaso che questo avvocato autore scrive uno stile da
Stratonica, da Calloandro, da Dianea e da Scherzi Geniali, come già dissi.
Tocchiamo ora qualche cosa della sustanza del suo trattato, ed ecco qui una delle sue opinioni registrata nella Introduzione.
Tocchiamo ora qualche cosa della sustanza del suo trattato, ed ecco qui una delle sue opinioni registrata nella Introduzione.
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Fremdportrait
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Zitat/Motto
« Questa facoltà (parlando dell’avvocazione), questa
facoltà, sì splendida e gloriosa, per dimostrar nel proprio aspetto suo
la signoria, che per mezzo dell’eloquenza, sua fida compagna e ministra, vanta sul
cuore e sulla volontà altrui, non ebbe giammai campo e teatro proporzionato al suo
disegno e valore, quanto quello su cui distese i suoi confini, e trionfò la libertà,
come presso le due celebrate nazioni, greca e latina; e, secondo che crede
Aristotile, in Sicilia ancora, discacciati ed estinti in quell’isola i tiranni. Essa
non vuol serva la mente nel pensare, non vuol serva la lingua nell’esporre ciò che
ha pensato. Dee combattere, assalire, vincere e pugnare (che differenza fa egli da
combattere a pugnare?), far uso della fortezza e del coraggio; non temere, non
avvilirsi. Or come mai può ciò ottenersi e sperare, ove di operar sia costretta con
ritegno e con soggezione? Entra allora a far meschina ed infelice comparsa o
l’adulazione che tutto finge e lusinga, o il silenzio che tutto cuopre e nasconde: e
geme ben anche allora fra ceppi e fra catene tradita la verità, e la giustizia
vilipesa ».
« Di qui è, che nel quistionarsi tra politici chi sia più fortunato, se chi nasce in repubblica, o sotto il dominio d’un monarca, quantunque si contino dall’una e dall’altra parte varj benefizj e riscontri; in quanto però all’arti liberali, e all’eloquenza con ispezialità, son parecchi di parere che, generalmente parlando, giovi più nascere in repubblica, che pensi solo alla conservazione dello Stato col riposo della pace e con la cultura degli studj: laddove le monarchie si affaticano allo ingrandimento della potenza con le forze della guerra, e col continuato esercizio dell’armi. Oltre ciò nella repubblica domina assolutamente la legge scritta, che val quanto dire la legge morta, non già vivente, come nelle monarchie: e per tal cagione ha sempre in quella luogo la giustizia e non l’arbitrio; ed ivi comandando tutti, ciascuno è suddito dello stesso suo comando e in qualità privata deve obbedire: ond’è che il servire in nulla distinguesi dal sovrastare ».
« Di qui è, che nel quistionarsi tra politici chi sia più fortunato, se chi nasce in repubblica, o sotto il dominio d’un monarca, quantunque si contino dall’una e dall’altra parte varj benefizj e riscontri; in quanto però all’arti liberali, e all’eloquenza con ispezialità, son parecchi di parere che, generalmente parlando, giovi più nascere in repubblica, che pensi solo alla conservazione dello Stato col riposo della pace e con la cultura degli studj: laddove le monarchie si affaticano allo ingrandimento della potenza con le forze della guerra, e col continuato esercizio dell’armi. Oltre ciò nella repubblica domina assolutamente la legge scritta, che val quanto dire la legge morta, non già vivente, come nelle monarchie: e per tal cagione ha sempre in quella luogo la giustizia e non l’arbitrio; ed ivi comandando tutti, ciascuno è suddito dello stesso suo comando e in qualità privata deve obbedire: ond’è che il servire in nulla distinguesi dal sovrastare ».
Quantunque questi due lunghi paragrafi il signor Gennaro gli abbia scritti molto lindamente, e quantunque ne’quattro o cinque paragrafi che sieguono egli abbia esaltato, e con molta ragione, il dolce e saggio e giustissimo governo che nel suo regno di Napoli amministrava il glorioso re di Spagna prima che passasse al presente suo trono, io lo prego tuttavia di osservare che l’uomo savio e dabbene sta ottimamente dappertutto, quando abbia di che vivere agiatamente. L’uomo savio e dabbene vive tranquillo e sicurissimo tanto in Parigi, in Torino, in Copenaghen e in Pietroburgo, quanto in Venezia, in Genova, in Amsterdam e in Varsavia. Le leggi d’ogni monarchia, egualmente che quelle d’ogni repubblica, lo difenderanno tutte dalla violenza e dall’oppressione; e così al contrario l’uomo ribaldo e scellerato sarà molto bene impiccato, o scopato, o mandato in galea, a proporzione de’suoi meriti, quando queste o quelle leggi lo scuoprano ribaldo e scellerato. Gli antichi tiranni di Sicilia e i Neroni e gli Eliogabali di Roma sarà vero che usarono ingiustizie e crudeltà a più d’un galantuomo; ma più d’un galantuomo è stato anche trattato con ingiustizia e con crudeltà nelle due tanto vantate repubbliche d’Atene e di Roma. Checchè avvenisse allora che le tenebre dell’idolatria coprivano tanto le monarchie, quanto le repubbliche, il Cristianesimo ha fatto mutar aspetto alle cose in Europa, e tutte le monarchie d’Europa, e tutte le sue repubbliche cristiane, vuoi ortodosse o vuoi eterodosse, hanno un certo spirito derivato dal Vangelo infuso nelle loro leggi civili, che non v’è più pericolo di vedere rinnovati i crudeli esempj d’ingiustizia e di crudeltà dati qualche volta nelle antiche repubbliche e nelle antiche monarchie. In tutta Europa le leggi sono amministrate da magistrati soggetti anch’essi alle stesse leggi che amministrano, e che sono pronte a punirli anch’essi, quando cercassero dipartirsi dall’esatta amministrazione di quelle; onde tutti rendono giustizia a tutti, e dinanzi ad essi ogni avvocato può sbizzarrirsi coll’eloquenza a suo piacimento, e può liberamente dire qualunque ragione che creda favorevole al suo cliente, senza mai essere obbligato a far ricorso all’adulazione che tutto finge e lusinga, o al silenzio che tutto cuopre e nasconde. La legge scritta, o sia la legge morta, si usa oggidì tanto nelle repubbliche quanto nelle monarchie cristiane, vale a dire in tutta Europa. E il re di Francia, per esempio, o quel di Spagna, o la Czara di Moscovia avrebbero un bel da fare se volessero pigliarsi la briga di giudicare secondo il loro assoluto volere (che è quello che i legali chiaman legge vivente) tutte le cause, o soltanto le principali, de’tanti milioni di sudditi che hanno!
Che poi gli avvocati riescano meglio avvocati nelle repubbliche anzi che nelle monarchie, non so come diavolo si possa provare. È vero che Demostene e Cicerone furono due grandi avvocati in repubblica, ma la difficoltà sta in sapere, se in uno stato monarchico Demostene e Cicerone sarebbero stati due zucche, o due grandi avvocati. L’Ariosto fu un gran poeta epico in un ducato, che era governato monarchicamente; ma Ariosto sarebb’egli stato un poeta da raccolte in Lucca, in Pisa, in Costantinopoli? A che serve parlare di Roma e d’Atene, di Cicerone e di Demostene? Parliamo delle repubbliche e delle monarchie d’oggidì. Vorresti dire, Gennaro mio, che in Parigi, in Torino, in Copenaghen e in Pietroburgo non vi sieno de’buoni avvocati, come in Venezia, in Genova, in Amsterdam e in Varsavia? Gennaro mio, ve n’hanno de’buoni e de’cattivi dappertutto; e tu che sei un buon avvocato nella monarchia di Napoli, anderesti molto in collera se uno di quei buoni avvocati che sono nella repubblica di Genova venisse a dirti ch’egli è miglior avvocato di te?
Ma che importa poi all’odierno mondo, che gli avvocati fioriscano un poco più o un poco meno in un paese? Che importa questo a’tanti contadini, che sono obbligati a reggere l’aratro pe’campi, e a menar la falce ne’prati, onde gli uomini abbiano del pane da mangiare, e i buoi del fieno? Che importa questo ai tanti fabbri e ai tanti falegnami, che sono costretti a martellare e a piallare tutto il santo dì per somministrarci de’chiodi e dell’asse? Che importa questo ai tanti fornaciaj e ai tanti tagliapietre, che hanno ad arrostirsi al fuoco, o a sudar l’ossa per somministrarci i materiali onde fabbricare le nostre abitazioni? Che importa questo a tant’altre migliaja d’artefici, che tutti a gara provvedono la società de’tanti arnesi che le occorrono? Che importa finalmente questo a tanti coltivatori delle tante scienze che poco o nulla han che fare colla legale? Tutti costoro fanno pure le loro faccende, o che gli avvocati sieno un po’più buoni, o un po’più men buoni? Che la professione loro sia trionfale, o non trionfale? E tutti le fanno pure, o che il governo sia repubblicano o sia monarchico? Dove sono dunque i vantaggi d’esser nato piuttosto in Genova che in Milano? piuttosto in Olanda che in Prussia? Bisogna, Gennaro mio bello, ringraziar Dio, che t’ha fatto cristiano piuttosto che turco; piuttosto avvocato in Italia che eunuco in Persia; piuttosto un galantuomo in Napoli che un corsaro in Algieri; piuttosto savio in casa tua, che pazzo nell’altrui. Ecco quello, Gennaro mio, che il vecchio Aristarco ti può dire, dopo d’aver viste tante monarchie e tante repubbliche, sulla rancida e frivola quistione del nascere in repubblica e del nascere in monarchia. Conservati quel galantuomo che sei; fa buon uso de’danari che hai; sta sano finchè puoi; scrivi un meglio stile quando scriverai un altro libro; lascia andare i nocchieri a buon viaggio pel Mediterraneo e per l’Oceano; e non ti perdere in vane speculazioni.
Metatextualität
Ora mo che ho spacciato il signor avvocato
Giuseppe Aurelio di Gennaro, diciamo anche quattro parole al signor avvocato
Giannantonio Sergio sulla Prefazione che ha posta in fronte al trattato dell’amico.
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Fremdportrait
Questa prefazione è una specie di storia
cronologicamente fatta dell’avvocatura, che comincia dagli antichi Egizj, e termina
co’moderni Napoletani. L’Autore comincia questa storia con dirci che nell’antico
Egitto, e prima dell’entrata in esso degli Ebrei, vi furono
Io sono persuaso che il signor Sergio non abbia inventato questo bel pezzo d’erudizione, ma che l’abbia veramente trovato tale e quale in qualche antico scritto o egizio, o ebraico, o almeno greco, e che l’abbia quindi tradotto in italiano, e ficcatolo in questa prefazione sua. Non posso però essere persuaso che le cause si trattassero in questo semplice modo nell’antico Egitto, i di cui abitanti erano tanto estremamente numerosi, che potettero avere molte scienze, anzi pur tante da insegnarne sino agli Ebrei ed ai Greci; e che potettero anzi fabbricare più di venti piramidi ancora tutte esistenti al dì d’oggi, alte quasi tutte quanto i nostri più alti campanili, e tanto appunto larghe nella loro base, quanta è la loro altezza. In un popolo, che per queste due ragioni delle tante sue scienze e delle tante sue piramidi doveva essere composto d’assai e d’assai milioni d’individui, dovevano nascere delle liti intralciatissime per molte e varie combinazioni d’interessi, onde liti da non discutersi così in su due piedi con due scritture per parte fatte dagl’interessati, i quali poi molte volte potevano essere mercanti forestieri venuti a farsi far ragione da paesi lontani, dove la lingua egizia non si sapeva; nè tutti que’milioni d’individui, malgrado la bontà delle leggi, e malgrado l’onestà di tutti i magistrati, nemine excepto, potevano poi esser tutti galantuomini, e tutti pronti a dire né più nè meno del vero; e tutti sapere l’arte di scrivere, e l’arte di esporre con chiarezza, con precisione e con forza tutte le ragioni occorrenti a far buone le loro dimande e querele, i loro rifiuti e difese: e le loro vedove, e i loro pupilli, e tutta la loro ignorante plebe doveva pur necessariamente aver ricorso in caso di lite a qualche avvocato, o spezie d’avvocato per difendere i suoi averi, o per ottenerli. Nè occorre dire, per salvare l’istorico assurdo, come dice il signor Sergio, che le leggi degli Egizj erano per novero (cioè per numero) poche, per intelligenza sbrigate, rigidissime per esecuzione. Questo può esser il caso nella gran popolazione di Costantinopoli, dove non si studiano scienze e dove non si fanno erger piramidi; ma questo non poteva essere il caso degli Egizj che scienze studiavano, e piramidi ergevano, perchè dove vi sono molte scienze e molte arti, vi sono anche molti furbi e molti oziosi; quando non mi si voglia sostenere che il mondo non è stato a un dipresso sempre lo stesso, e che la natura degli uomini e delle cose è stata cambiata dall’andar de’secoli. E dove v’erano molti oziosi e molti furbi, vi dovevano anch’essere più leggi che non ne possono contenere otto papiri. Gli stati d’una repubblica di San Marino, o quelli d’un margravio di Baden, che contengono poche migliaja di abitatori, con otto papiri di chiare e rigide leggi possono essere benissimo governati; ma in un paese come era l’antico Egitto, cioè un paese popolato da milioni e milioni di abitanti, o fosse governato repubblicanamente, o monarchicamente, questo non era possibile per quelle tante ragioni che tutti gli avvocati sanno, o che dovrebbono sapere, e che si possono anche presto indovinare da chiunque sa, senza essere avvocato, andare col cervello più là che non va il suo naso. Forse l’amore, la gelosia, l’interesse, l’ira, l’orgoglio, l’invidia, e tant’altre passioni non regnavano in Egitto, come regnano dappertutto? Forse i mercanti non fraudavano i mercanti? forse i padroni non maltrattavano i servidori? forse i servidori non rubavano ai padroni? forse i potenti non cercavano opprimere i deboli ? forse le mogli e le sorelle e le figliuole degli Egizj eran tutte tante monachelle? forse gli sciocchi non commettevano de’falli che i saggi dovevano poi rettificare? A che ciancio? eh che il signor Sergio poteva risparmiarsi la fatica di dirci che in Egitto non v’eran avvocati, o qualche cosa d’equivalente, e che le parti trattavano le loro liti con due sole scritture per ciascuna, e che le leggi di quel vasto popolo erano contenute da solo otto papiri! Queste sono fole che si trovano sui libri antichi; ed è un gran buonuomo chi, credendole, le registra gravemente sui libri moderni.
Ad alcuni altri pezzi dell’immensa erudizione del signor Sergio potrei altresì fare la chiosa che ho fatta a questo degli Egizj, e potrei provargli che male de’Francesi, e peggio degl’Inglesi ha detto, quando disse che « gli uni non sono da comparare coi nostri prosatori, e che gli altri poco amici dimostransi del buon divisamento, e di una saggia e spiritosa elocuzione ». Potrei dirgli che il Patru sarebbe meglio leggerlo bene per imparare da esso ad esser eloquente senza verbosità; che Littleton e Coke sarebbe meglio procacciarseli e studiarli per imparare da essi ad esser dotto senza impostura; e in somma gli potrei dire con le sue stesse stessissime parole:
Ma oltre che ho già buttata forse troppa parte di questo numero sul libro del
suo collega, e su questa sua prefazione, ho anche paura ch’egli non mi venga addosso
con questa sua spaventosissima teatrale declamazione: « Lungi dal volger
questo volume (cioè questo trattato del signor Di Gennaro con questa prefazione in
fronte), lungi dal volger questo volume certi spiriti alteri e feroci, che persuasi
del sognato lor merito (com’è il caso d’Aristarco Scannabue) coll’infame miserabil
credito del dir male d’ognuno (come fa quel tristo d’Aristarco Scannabue) immaginano
innalzar la propria fama sulle altrui rovine ».
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Zitat/Motto
« di molte scienze, come a dire la geometria,
l’aritmetica, l’astronomia, la medicina, la natural filosofia, la teologia, e sopra
tutto la cognizion dello Stato e della politica, e l’arte del formar leggi »; ma che
ciò nientemeno onde non vi erano avvocati, e che a’litiganti non era permesso di far
altro nelle lor cause, che « scrivere le lor dimande e querele, a cui
dall’avversario rispondeasi distintamente, ed indi in iscritto ancora ripigliava il
primo, ed in iscritto pure dall’altro si replicava. Dopo di che, presentate da
amendue le loro scritture, i giudici posatamente n’esaminavano la ragione, e
pronunziavasi la sentenza colla solennità del rivolgere il presidente, o sia il
principe del Consesso, verso colui a favor del quale erasi deciso, un’immagine, che
gemmata ei tenea pendente dal collo, e che appellavasi la verità ».
Io sono persuaso che il signor Sergio non abbia inventato questo bel pezzo d’erudizione, ma che l’abbia veramente trovato tale e quale in qualche antico scritto o egizio, o ebraico, o almeno greco, e che l’abbia quindi tradotto in italiano, e ficcatolo in questa prefazione sua. Non posso però essere persuaso che le cause si trattassero in questo semplice modo nell’antico Egitto, i di cui abitanti erano tanto estremamente numerosi, che potettero avere molte scienze, anzi pur tante da insegnarne sino agli Ebrei ed ai Greci; e che potettero anzi fabbricare più di venti piramidi ancora tutte esistenti al dì d’oggi, alte quasi tutte quanto i nostri più alti campanili, e tanto appunto larghe nella loro base, quanta è la loro altezza. In un popolo, che per queste due ragioni delle tante sue scienze e delle tante sue piramidi doveva essere composto d’assai e d’assai milioni d’individui, dovevano nascere delle liti intralciatissime per molte e varie combinazioni d’interessi, onde liti da non discutersi così in su due piedi con due scritture per parte fatte dagl’interessati, i quali poi molte volte potevano essere mercanti forestieri venuti a farsi far ragione da paesi lontani, dove la lingua egizia non si sapeva; nè tutti que’milioni d’individui, malgrado la bontà delle leggi, e malgrado l’onestà di tutti i magistrati, nemine excepto, potevano poi esser tutti galantuomini, e tutti pronti a dire né più nè meno del vero; e tutti sapere l’arte di scrivere, e l’arte di esporre con chiarezza, con precisione e con forza tutte le ragioni occorrenti a far buone le loro dimande e querele, i loro rifiuti e difese: e le loro vedove, e i loro pupilli, e tutta la loro ignorante plebe doveva pur necessariamente aver ricorso in caso di lite a qualche avvocato, o spezie d’avvocato per difendere i suoi averi, o per ottenerli. Nè occorre dire, per salvare l’istorico assurdo, come dice il signor Sergio, che le leggi degli Egizj erano per novero (cioè per numero) poche, per intelligenza sbrigate, rigidissime per esecuzione. Questo può esser il caso nella gran popolazione di Costantinopoli, dove non si studiano scienze e dove non si fanno erger piramidi; ma questo non poteva essere il caso degli Egizj che scienze studiavano, e piramidi ergevano, perchè dove vi sono molte scienze e molte arti, vi sono anche molti furbi e molti oziosi; quando non mi si voglia sostenere che il mondo non è stato a un dipresso sempre lo stesso, e che la natura degli uomini e delle cose è stata cambiata dall’andar de’secoli. E dove v’erano molti oziosi e molti furbi, vi dovevano anch’essere più leggi che non ne possono contenere otto papiri. Gli stati d’una repubblica di San Marino, o quelli d’un margravio di Baden, che contengono poche migliaja di abitatori, con otto papiri di chiare e rigide leggi possono essere benissimo governati; ma in un paese come era l’antico Egitto, cioè un paese popolato da milioni e milioni di abitanti, o fosse governato repubblicanamente, o monarchicamente, questo non era possibile per quelle tante ragioni che tutti gli avvocati sanno, o che dovrebbono sapere, e che si possono anche presto indovinare da chiunque sa, senza essere avvocato, andare col cervello più là che non va il suo naso. Forse l’amore, la gelosia, l’interesse, l’ira, l’orgoglio, l’invidia, e tant’altre passioni non regnavano in Egitto, come regnano dappertutto? Forse i mercanti non fraudavano i mercanti? forse i padroni non maltrattavano i servidori? forse i servidori non rubavano ai padroni? forse i potenti non cercavano opprimere i deboli ? forse le mogli e le sorelle e le figliuole degli Egizj eran tutte tante monachelle? forse gli sciocchi non commettevano de’falli che i saggi dovevano poi rettificare? A che ciancio? eh che il signor Sergio poteva risparmiarsi la fatica di dirci che in Egitto non v’eran avvocati, o qualche cosa d’equivalente, e che le parti trattavano le loro liti con due sole scritture per ciascuna, e che le leggi di quel vasto popolo erano contenute da solo otto papiri! Queste sono fole che si trovano sui libri antichi; ed è un gran buonuomo chi, credendole, le registra gravemente sui libri moderni.
Ad alcuni altri pezzi dell’immensa erudizione del signor Sergio potrei altresì fare la chiosa che ho fatta a questo degli Egizj, e potrei provargli che male de’Francesi, e peggio degl’Inglesi ha detto, quando disse che « gli uni non sono da comparare coi nostri prosatori, e che gli altri poco amici dimostransi del buon divisamento, e di una saggia e spiritosa elocuzione ». Potrei dirgli che il Patru sarebbe meglio leggerlo bene per imparare da esso ad esser eloquente senza verbosità; che Littleton e Coke sarebbe meglio procacciarseli e studiarli per imparare da essi ad esser dotto senza impostura; e in somma gli potrei dire con le sue stesse stessissime parole:
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Zitat/Motto
« A che mai giovano cotante fatiche e cotante affamate
ricerche sovra certi oggetti fra le tenebre dell’antichità chiusi e sepolti, se non
per divenire anzi misterioso che dotto, e inutile a sè e agli altri con un torbido
misto d’incerte notizie? ».
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De’Discorsi toscani del dottor Antonio Cocchi medico ed antiquario cesareo, parte prima. In Firenze 1761, in 4.o
Metatextualität
I cinque discorsi del dottor Cocchi contenuti in questo
primo tomo sono preceduti da una dedicatoria a una dama inglese; dall’elogio di lui,
composto non so da chi; da un cataloghetto intitolato Distribuzione de’libri della
pubblica libreria Magliabechiana; da una lettera del dottor Tozzetti intorno la Sezione
del cadavere del Cocchi; e dall’indice dell’opere di questo fu medico ed antiquario
cesareo, sì edite che inedite.
Facciamo qualche parola d’ognuna di queste cose, e passeremo poi a dire il più succintamente che ne sarà possibile quello che pensiamo d’ognuno di essi discorsi.
Facciamo qualche parola d’ognuna di queste cose, e passeremo poi a dire il più succintamente che ne sarà possibile quello che pensiamo d’ognuno di essi discorsi.
La dedicatoria è proprio una dedicatoria fatta all’italiana, vale a dire poverissima e asciutta. Pare che non vi voglia un cervello estremamente grande per fare qualche galante complimento, e per dare qualche leggiadra lode ad una dama inglese bella, savia e dotta, come dicesi che sia quella, a cui lo stampatore dedica queste opere del Cocchi; eppure quel letterato che l’ha scritta per quello stampatore, non ha saputo allontanarsi da que’miseri luoghi comuni che tutti i nostri dedicanti leccapiedi sogliono tutti d’accordo toccare nelle loro dedicatorie: come a dire la chiarezza del sangue, la sublimità del rango (rango è un moderno vocabolaccio da dedicatorie) e lo splendore delle ricchezze. Quelle ricchezze i nostri dedicanti non le scordano mai, quasi per porre in mente a’signori dedicati che chi dedica ne aspetta un miccino; pecca vilissima e da gnatone, che non sa come il possedere ricchezze ereditarie non può essere in modo alcuno argomento di lode, perchè non v’è virtù alcuna nello ereditare delle ricchezze da’nostri maggiori: ond’io raccomando a tutti i signori doviziosi di non dar mai nulla a que’goffi che lodano d’una cosa che non risulta punto in loro lode, come è questa, e come sono anche le altre due; cioè la chiarezza del sangue, e la sublimità del rango, che tutti sono doni di fortuna. Non è poi neppure un troppo bel complimento il dire a My Lady che è d’un virtuoso carattere. Una dama virtuosa si ha a chiamare una dama virtuosa, e non di virtuoso carattere solamente, quasi che fosse soltanto virtuosa così all’ingrosso, e non affatto affatto. La dedicatoria ne dice poi che My Lady sa di latino e di greco, e che ha studiato la matematica, la fisica e la metafisica; e sopra questi punti pare che un gentil dedicante avrebbe un campo assai vasto da correre una bella carriera; ma su queste doti che sono personali a My Lady, e che per conseguenza riflettono molto onore sopr’essa, il dedicante passa via con leggerezza, contentandosi di farne solo un po’di cenno, per venire a registrare un cattivo sonetto in lode di Sua Eccellenza (che equivale al Ladiship inglese), nel qual sonetto, fra l’altre galanterie slogate, si dice che « l’Italia ha rese l’usate grazie al suo volto, e lo scintillare al bel guardo soave che accese tanti cuori », come se questa dama non avesse avuta bellezza di volto e sguardo amoroso se non dopo che è venuta in Italia; complimento grossolano, e che dice tutto alla rovescia di quel che dovrebbe, perchè se My Lady è bella di volto, e se ha occhi scintillanti qui, è impossibile che non avesse anche queste due qualità prima di venir qui.
Se la dedicatoria è una filastrocca scritta sconsideratamente, l’elogio fatto al Cocchi non è neppure un capo d’opera, comechè cominci con queste strepitose parole:
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Fremdportrait
Antonio Cocchi fu un uomo incomparabile. Quest’uomo
incomparabile, dice l’elogio, sapeva ogni cosa, era leale, era gentile, era benefico,
ed era anche faceto; e sopra tutto non pregiava le ricchezze. Eppure il Cocchi nel
terzo discorso di questo stesso libro chiama le ricchezze di tutti gli altri beni
produttrici; eppure il Cocchi in molti luoghi dell’opere sue si è lagnato molto
affannosamente della moderna scarsezza de’mecenati; eppure il Cocchi in un altro suo
libro intitolato De’bagni di Pisa ha scritto un paragrafo, che, smentendo l’elogio, lo
manifesta molto più ammiratore della roba, che non di qualunque altra cosa. Queste sono
le sue notabili parole: « Ei (cioè Girolamo Mercuriale) si guadagnò forse più
d’ogn’altro fisico de’suoi tempi fama ed onori, e quel che più importa bellissime
ricchezze». Si dice finalmente nell’elogio che il Cocchi non era adulatore, cosa che io
credo molto fermamente, perchè i suoi libri hanno per lo più in fronte le loro
dedicatorie, proprio dedicatorie, e perchè egli era sicuramente letterato e italiano,
anzi pur fiorentino, o mugellano, che tanto vale.
La distribuzione de’libri magliabechiani è cosa da nulla, ed è qui stampata con l’unico fine d’ingrandire il tomo d’una pagina di più.
La Lettera intorno la sezione del cadavere del Cocchi è stampata anch’essa per accrescere la mole del libro.
Nell’indice dell’opere scritte dal Cocchi si sarebbe potuto scordare quell’insulsa lettera in lode della Enriade di Voltaire insieme con la dedicatoria e la prefazione alla vita di Benvenuto Cellini, che sono tutte tre meschinissime opere d’inchiostro da far andar in collera quel terribile orefice se fosse vivo, contro chi appiccò a quella sua bella vita due così povere cose.
Metatextualität
Parliamo ora de’cinque Discorsi.
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Fremdportrait
Discorso primo. Di anatomia.
Questo discorso contiene principalmente una storia de’cattivi anatomici dal principio del mondo sino a’nostri dì. Una tale storia mi fa ricordare di quell’altro antiquario che voleva ristampare tutte quelle antiche carte geografiche, nelle quali ogni paese è notato fuori del suo luogo,Ebene 5
Zitat/Motto
« per uso (diceva messer lo antiquario) di
que’che amassero di essere esattamente informati di tutti gli spropositi commessi
dagli antichi geografi ».
Discorso secondo. Sopra l’uso esterno appresso agli antichi dell’acqua fredda.
Questo discorso minaccia una lunga tantafera d’antichità inutili; ma è titolo che piacevolmente inganna, e il discorso informa il leggitore de’molti beni che si otterrebbono se, vincendo la natural ripugnanza, avessimo il coraggio di tuffarci spesso nell’acqua fredda.Ebene 5
Exemplum
Se il Cocchi fosse vivo, gli vorrei dire che io ho
veduto co’miei proprj occhi in Londra il suo amico Visconte di Charlemont guerito di
quell’orribile reumatismo che acquistò in Italia, e che lo tenne qualche anno come
inchiodato sur una seggiola tutto gobbo, e tutto rannicchiato, e tutto pieno di
pungentissimi dolori, e di quel male fu guerito col farsi prima immergere ogni
mattina in un bagno domestico molto caldo per pochi minuti; e poi sprofondare
immediate in un altro bagno, la di cui acqua era resa con l’arte assai più gelida che
non lo è naturalmente.
Discorso terzo. Sopra l’istoria naturale.
Poco o nulla v’è da imparare da questo discorso, non contenendo alcuna cosa che non sia nota ad ogni novizio in letteratura. Il Cocchi dice qui, che le scoperte fatte ne’nostri secoli della polarità della calamita, della polvere da schioppo, della circolazione del sangue, della generazione degl’insetti e della gravità dell’aria ne hanno giovato assai assai; cosa che nessuno vorrà negare, quando si conceda che alcuna di tali scoperte ne ha anche recati de’danni non mediocri. Io non ho poi quell’alta opinione delle accademie letterarie che il Cocchi mostra d’avere in questo discorso, e faccio poco caso della supposta possanza delle abilità congiunte, com’egli le chiama, d’un largo numero di studiosi. Nessuna delle suddette scoperte fu fatta dalle abilità accademicamente congiunte di molti; e i Greci e i Latini non avevano accademie letterarie. Le nostre accademie servono assai più a moltiplicare l’adulazione fra gli uomini e la servile dipendenza della gente studiosa e povera dalla gente ricca ed ignorante, che non a moltiplicare e ad accrescere le arti e le scienze. Che gran bene hanno fatto all’Italia quelle tante accademie di cui è piena da tant’anni? Ci hann’esse resi superiori in sapere agl’Inglesi, che non n’hanno che una sola, o a’Francesi che ne han poche? Noi ne abbiamo avute a un tratto poco meno di dugento di poesia solamente, e alcune di esse numerose di centinaja di membri, senza poter vedere in tanto numero un solo poeta degno di affibbiar le scarpe a Dante, al Petrarca, al Pulci, al Bojardo, all’Ariosto, al Berni, al Tasso e ad alcuni altri che non furono membri d’alcuna accademia. Il Galileo, il Borelli, il Malpighi, il Redi, il Bellini, il Manfredi, e questo stesso dottor Antonio Cocchi hann’eglino imparata filosofia in accademie filosofiche? Queste sono le principali ragioni che nel primo foglio di questa Frusta m’hanno fatto parlare alquanto irriverentemente dell’Arcadia. Gli uomini savj le pesino queste ragioni, e son certo le troveranno traboccanti. Per riuscire un uomo insigne bisogna nascere prima di tutto con una buona testa: questa è la condizione, sine qua non. Poi bisogna nascere in così fortunate circostanze da potere studiare. E per terzo bisogna studiare disperatamente, e fare come faceva Erasmo, che cavalcando da’Paesi Bassi in Italia compose così a cavallo il suo famoso libro Delle lodi della Pazzia.Metatextualität
In conseguenza di queste mie massime, mi vaglio
di questa congiuntura per far sapere a certi miei signori corrispondenti, che mi
esortano in vano ad unirmi con qualch’altro per tirar innanzi questa mia Frusta sul
supposto, che essendo in due o in tre a scriverla, e dividendoci insieme gli
argomenti, potrà riuscire di maggior utile e di maggior diletto alla
società, a beneficio di cui è scritta. Se fossimo in tre, in quattro, o in cinque a
scriverla, io son d’opinione che riuscirebbe un’arlecchinata; onde que’miei
corrispondenti si contentino che Aristarco sia solo a scriverla, e chi trova cattivi i
primi numeri non legga più altro, perchè tutti saranno a un modo.
Discorso quarto, contenente l’elogio di Pietro Antonio Micheli fondatore della Società Botanica fiorentina.
La lettura di questo elogio non dispiacerà a nessuno. Il Micheli era un uomo valentissimo nel suo mestiero di botanico, e mio molto amorevole, come lo è il Linneo di Stocholm, il Jussieu di Parigi e il Miller di Londra. Nella raccolta delle piante, o nell’orto secco, per dirla botanicamente, lasciato dal Micheli alla sua morte vi debbon essere, se non sono ite perdute, molte piante asiatiche ed africane ch’io gli recai da quelle contrade, e fra le altre la famosa rosa di Capo di Buona Speranza, bianchissima e di soavissimo odore; e se quel galantuomo avesse accettata l’offerta ch’io gli feci un tratto, sarebbe stato in persona meco a ricogliere tutti i piccoli vegetabili di Borneo, di Siam, di Cambaja, e di tutte quelle orientali regioni.Discorso quinto.
De’vermi cucubirtini dell’uomo.
L’autore non
ne dice altro in questo brevissimo discorso, se non che i vermi cucurbitini furono da
alcuni medici creduti un solo verme, ma che sono molti vermi legati insieme, e che il
buon vino e il rosolio, ed altre bevande generose sono la morte di tali vermi. Dunque,
dico io, nè don Petronio, nè Aristarco non saranno mai travagliati da’vermi
cucurbitini.Ecco il primo tomo del Cocchi esaminato quanto basta. Un altro dì staccierò il tomo secondo, e tutte l’altre opere sue a misura che mi capiteranno alle mani. Intanto non mi resta da aggiunger altro sul proposito di questo medico ed antiquario, se non che il suo stile è chiaro e nitido sufficientemente, ma floscio e lento anzi che nervoso e veloce. I Fiorentini, che non sono in generale modesti panegiristi, quando parlano degli uomini e delle cose loro, non si chiameranno forse ben soddisfatti di quel poco che dico di questo lor uomo e delle produzioni sue; ma chi non la gusta la sputi, ch’io non posso sempre star a detta di gente, la quale registra fra i supremi lumi dell’umano sapere un cianciero e secco e pedantesco Salvini, un superficiale ed affettato Magalotti, uno sterile e frondoso Gori, un insipidissimo – Zitto; non vo’dir altro.
Supplemento
Metatextualität
L’aver detto nel primo numero di questa Frusta, che se
alcuno volesse comunicare ad Aristarco Scannabue qualche letteraria notizia, lo potrà
fare scrivendogli sotto coperta al sig. Antonio Savioli in Venezia, Franco, mi ha già
procurato tanti corrispondenti, che la metà basterebbe: tanto più che nessun d’essi si è
voluto conformare a quello che se gli è detto, e che invece di notizie letterarie tutti
mi scrivono altre cose. Tuttavia benignamente perdonando loro per questa sola volta lo
sbaglio in grazia di quelle sbracate lodi che mi danno, risponderò qui ad alcune delle
signorie loro.
A que’tanti scolari di varie università, che mi domandano consiglio intorno alla pubblicazione che stanno meditando delle loro rime, rispondo che ho esaminati bene i saggi che di quelle m’hanno mandati, e che sempre mal volontieri mi metto nel rischio di disgustare i miei benevoli.
A que’tanti scolari di varie università, che mi domandano consiglio intorno alla pubblicazione che stanno meditando delle loro rime, rispondo che ho esaminati bene i saggi che di quelle m’hanno mandati, e che sempre mal volontieri mi metto nel rischio di disgustare i miei benevoli.
A Filofebo, che mi manda quelle dodici ottave sulla morte della sua bella, dico che in un poemetto di settanta ottave circa, o in un’epistola in versi Martelliani di trecento versi almeno, mi descriva le qualità che debbe aver un uomo per essere poeta, e poi lo risolverò se deve preferire la gloria poetica a quel testamento che quel suo zio minaccia di rifare quando venga a sapere ch’egli faccia più versi. Mi dica anche quanti anni ha quel zio. Delle dodici ottave rifaccia solo la penultima, che ha il quinto e il sesto verso un poco stentati.
Prego quel Lucchese del sonetto che comincia, Belle suore di Pindo, a dirmi schiettamente se quel signor Pindo mio signore è uomo che possa dare una buona dote a quelle sue sorelle, perchè oggidì la bellezza senza la dote non trova facilmente de’mariti alle fanciulle.
A quel signore, che si sottoscrive Laconico, e che mi taccia di soverchia prolissità in alcune delle mie critiche, rispondo che tutti quelli da me criticati sono della sua opinione.
Ad Isabella che mi chiede in dono il più brutto scimmiotto ch’io m’abbia, per consolarsi della perdita d’un amante gobbo e infedele, rispondo che avrà lo scimmiotto quest’altra settimana.
A quel poeta (oh questi poeti mi tormentano!) che si lagna del danno che ho recato al librajo che stampò a sue spese il suo libro da me criticato, rispondo che rifaccia i danni a quel librajo, consigliandolo a ristampare romanzi dell’abate Chiari, la Bella Maghelona, e la storia dei due fedeli amanti Paris e Vienna. Così si ricatterà di tal perdita.
A quella dama bolognese, che mi ha mandato il primo atto della sua tragedia, e che mi chiede se la giudico degna della stampa, dirò con rispetto uguale alla sua gentilezza ma col mio solito candore, ch’io non soglio esser corrivo nell’incoraggiar dame a scrivere tragedie.
Vorrei sapere se quel prete, che vuole stampare la sua commedia della Moglie Innamorata, è confessore. Se lo è, non la stampi.
A quello che vorrebbe sapere se l’oda di Sathim Mum Gabner è di mia invenzione, o realmente tradotta dall’arabo, dico che la sua curiosità è indiscreta.
A’due poeti (quanti poeti!) che mi mandano le loro traduzioni in versi di quell’oda di Sathim, dico che entrambe sono ancora troppo al di sotto dell’originale arabo. La traduzione di quello che si sottoscrive viva Imeneo, è in un metro poco armonioso e pazzo, e, credo, rubato a una canzone del Frugoni; e nella sua quarta strofe s’allontana troppo dal pensiero di Sathim.
L’autore della Dissertazione sull’Ossatura de’Cavalli, caso che la stampi, ne mandi molte copie in Germania, e spezialmente a Norimberga, perchè quantunque egli l’abbia scritta in italiano, pure lo stile è tedesco di quel vero di Norimberga.
A tutti quelli che raccomandano i loro libri già stampati alla mia carità, rispondo che non bisogna farsi replicare le cose due volte.
Ed ecco spacciata una parte de’miei corrispondenti, che tutti in avvenire mi faranno una grazia speciale se saranno un po’più brevi nelle loro lettere.
N. B. Non ho aperte quelle lettere che alcuni m’hanno scritto senza francarle.