Numero XVI Gasparo Gozzi Moralische Wochenschriften Klaus-Dieter Ertler Herausgeber Alexandra Fuchs Herausgeber Lena Druml Mitarbeiter Sarah Lang Gerlinde Schneider Martina Scholger Johannes Stigler Gunter Vasold Datenmodellierung Applikationsentwicklung Institut für Romanistik, Universität Graz Zentrum für Informationsmodellierung, Universität Graz Graz 20.05.2019

o:mws-099-369

Gozzi, Gasparo: L’Osservatore veneto. Herausgegeben von Emilio Spagni. Firenze: G. Barbera 1897 [1761], 68-72 L’Osservatore veneto 1 016 1761-03-28 Italien
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N° XVI

A dì 28 marzo 1761.

Racconto

Ritrovo negli antichi annali delle Fate, che dolendosi una volta molto agramente gli uomini d’una città della poco prospera fortuna, e querelandosi ognuno che le faccende andassero male, due d’esse Fate vennero in deliberazione di far conoscere a quelle genti con uno evidente esempio, che si lagnavano senza ragione. Per la qual cosa una d’esse, che si chiamava Leonilla, andata a ritrovare una sua sorella, che dimorava in una grotta di Fiesole, ed era nominata la Selvaggia, le favellò in questa forma: “Sorella mia, tu sai benissimo qual sia la nostra condizione, e quello che a noi fu stabilito dal cielo, e ciò è che, dovunque io movo il passo, mi corrono dietro tutte le prosperità della terra, e che appunto mancano pochi anni a scambiarsi la mia fatagione, a capo de’quali io mi dovrò poi tramutare in una serpe, e perdere questa mia cotanto mirabile bellezza. Tu all’incontro, non bella di faccia nè d’atti graziosa, sei dappertutto, dove ti volgi, dalle avversità perseguitata, tanto che ti se’ridotta a vivere in questa spelonca per lo tuo meglio, nella quale col tuo buon consiglio ripari la tua vita contro la nimicizia delle adirate stelle; nè si può dire che l’animo tuo grande sia mai stato vinto dalla contrarietà della tua sorte; sicchè di qua a non molti anni, essendo tu durata con tal costanza, ti dèi scambiare in gentil fanciulla, ed essere la più cheta e fortunata Fata di tutto Fiesole. Ora io ti prego, prima che mutino aspetto le nostre condizioni, che tu ne venga meco alla città, dove possiamo dimostrare agli uomini di quella, quanto si querelino a torto dell’avversità di loro fortuna. Lascia dunque, o carissima Selvaggia, questa tua grotta, e vien meco.” La Selvaggia, senza altro dire, e con un breve assenso di capo, come colei ch’era malinconica, si levò su, e si diede a seguitare Leonilla. In questa forma le giunsero entrambe alla città; ed entrate in casa d’un mercatante che si chiamava Roberto, fìnte certe lettere di favore, gliele presentarono, ond’egli in casa sua le raccolse a grande onore, e ne le ritenne. Avea Roberto due figliuoli, tuttaddue giovani, e di grande ingegno nel traffico, l’uno chiamato Feliciano, e l’altro Giampagolo, i quali con affettuoso amore si amavano vicendevolmente, nè mai era stata fra loro una minima discordia. Tuttaddue posero gli occhi addosso a Leonilla, la quale nel vero era una delle più belle e più compiute creature che mai uscissero di mano alla natura; e aggiungeva alla sua naturale bellezza quello spirito di consolazione, che spargendosi estrinsecamente nella faccia, la rende sì risplendente e lieta, che conforta a mirarla. All’incontro la Selvaggia oltre all’avere un viso intarlato dal vaiuolo, naso rincagnato, e l’essere anche zoppettina da un piede, avea gli occhi sempre torbidacci, e una guardatura malinconica e disgustata di sua fortuna. Di che non è maraviglia se Feliciano e Giampagolo, non si curando punto di lei, erano tuttaddue infocati per l’altra. Per la qual cosa a poco a poco ingelositi, cominciarono prima a motteggiarsi co’bottoni, dipoi a mordersi più apertamente; e finalmente sarebbero venuti a fare peggiore scandalo, e a mettere mano all’armi l’uno contro l’altro, come d’Eteocle e Polinice si racconta, se l’avveduto padre, e molto da loro rispettato, non si fosse tramesso, e non avesse parlato loro in tal guisa:

“Figliuoli miei, io sono oggimai vicino al chiudersi di questa vita, ed è già tempo ch’io vi vedessi ammogliati. Le due giovani che dimorano in casa mia, sarebbero il proposito vostro, se non mi fossi avveduto che gareggiando ciascheduno di voi per possedere Leonilla, siete poco meno che venuti a rotta, con indicibile mio dolore; e se voi anderete più avanti con questa pazzia, son certo che nascerà cosa, per la quale io ne morrò disperato. Sicchè io vi prego, carissimi figliuoli, deponete gli odii e lasciate le risse, e traendo queste due fanciulle a sorte, ognuno sia da qui in poi contento di quella che la fortuna gli porge. Io n’ho già favellato all’una e all’altra, ed esse per compiacermi sono contente. La bruttezza di Selvaggia è da tale ingegno, prudenza e bontà compensata, ch’io non so qual di voi sarà il più fortunato.” In breve di ciò s’accordarono, e furono le due fanciulle tratte a sorte. A Feliciano toccò Leonilla, e a Giampagolo Selvaggia. Non si può esprimere quanta fosse la contentezza del primo, nè quale il dolore del secondo. Quegli parea che non si saziasse mai di pascere gli occhi suoi nell’aspetto della bellissima fanciulla; e questi all’incontro avea tant’ira conceputa nel petto, e tanto odiava Selvaggia, che ci sono alcuni i quali affermano che non entrasse mai nel suo letto. Avvenne che di là a qualche anno Roberto si morì, e lasciò una ricchissima eredità a’suoi figliuoli: i quali, essendo fra loro rimasa quella prima ruggine di dispetto, non potendosi più comportare l’un l’altro, e principalmente ardendo Giampagolo di gravissima stizza per la moglie zoppa, divisero le paterne facoltà, e ognuno fu il padrone della sua parte.

Il marito di Leonilla, che da qui in poi sarà da me nominata la Fata della Prosperità, trasportato quasi da un soave incantesimo, non cessava mai di tenere gli occhi fisi nelle buone grazie e nella bellezza della moglie; anzi scordatosi affatto della parsimonia mercantile, incominciò a farle vestiti d’oro e d’argento, e a fornirla con preziose pietre e d’inestimabil valore. Edificò per lei un casino sopra un fiume, fece giardini, conviti, e usò ogni sorta di magnificenza. Non guardava più in faccia i parenti suoi, parendogli d’esser divenuto qualche gran cosa; tutti gli scapestrati giovani, quando volevano, andavano in casa sua e n’uscivano, come se fossero stati i padroni; e sopra tutto avea dato commessione che non fosse mai aperto l’uscio al fratello.

Ma in quel modo appunto che un picciolo rivoletto d’acqua, uscendo di suo letto, per le valli si disperde, se non è dalle rive o dagli argini ritenuto; non altrimenti il corso della prosperità svanisce, se il risparmio e l’economia noi ritiene. Non passarono molti anni che la prodigalità sparse al vento tutte le ricchezze di Feliciano; la negligenza gli sconcertò il traffico, e quanto avea fu soggetto alla furia de’creditori. Ebbe ricorso a coloro ch’erano stati da lui accarezzati, presentati, e con mille solennità e magnificenze trattati; ma gli trovò che non conobbero nemmeno la sua voce, e non si ricordavano d’averlo veduto mai. I parenti, da lui già dispregiati, si fecero anch’essi beffe del fatto suo, e la fata medesima della prosperità, già venuta alla fine della sua fatagione, gli voltò le spalle e si fuggì da lui. Egli le correva dietro, pregandola caldamente che seco si rimanesse; ma che diremo noi che gli paresse, quando egli vide la sua bella e cara Leonilla tramutarsi in un subito in una velenosa serpe, la quale, lasciandogli negli occhi lo spavento del suo orribile aspetto, gli si tolse dinanzi?

Quello che di lui fosse, la cronaca nol dice per ora; ma ritorna a raccontare di Giampagolo, il quale avea la Selvaggia presa per moglie, ch’io al presente chiamerò la Fata dell’Avversità. Costei, comecchè agli occhi suoi paresse la più sozza creatura del mondo, e la mirasse con quell’amore con cui si guarderebbe un corpo morto, la non tralasciava però mai d’andargli dietro, dovunque egli fosse; e perdi’egli avesse tutte le cagioni di darsi alla disperazione, gli venne nuova ch’un suo vascello era pericolato in mare, che molte delle sue mercatanzie che navigavano in un altro, erano state prese da’corsali, e finalmente che un mercatante a cui avea affidata una gran somma di danari, era fallito, e fuggitosi in altro paese. Di che il meschinetto non sapendo più che farsi, nè a cui chiedere aiuto in tante e sì continue calamità, ricolti i pochi avanzi che gli erano rimasi degli infortuni suoi, uscì della città, e venne dalla Fata dell’Avversità condotto, per dirupati monti ed oscurissime selve, fino ad una picciola villetta ch’era al piede d’una montagna. Dimorarono quivi l’uno e l’altro gran tempo, dove la Fata per alleviargli in parte le sue fatiche e gli stenti sofferti, parea che avesse migliorato la guardatura; gli clava i migliori e più leali consigli del mondo, procacciando sopra ogni cosa di spiccargli il cuore dall’amor soverchio de’beni della terra; e l’ammaestrava a rispettare gl’Iddii, e a mettere tutta la sua fiducia nella provvidenza e protezione di quelli. A poco a poco fece sì con le sue buone parole, che lo rendette più umano, più umile, più modesto, e gl’insegnò ad aver compassione del suo prossimo, mettendogli nell’animo un vivo desiderio di confortare gli sventurati.

“Sappi,” diceva ella, “che tu non mi conosci bene ancora; ma io sono di mia natura tale, che gl’Iddii non mi mandano altro che a quegli uomini che sono amati da loro; imperciocchè non solamente io col mio costume e con le mie parole gli ammaestro per modo ch’essi divengono migliori per la seconda vita, ma dispongo gli animi loro in guisa che più cari loro riescono que’moderati piaceri che si possono avere nella presente. E non altrimenti che il ragnatelo, di fuori assalito, cerca asilo nella parte più intrinseca della sua tela, l’anima sconsolata nel vedermi e tribolata per mia cagione, raccoglie i suoi sparsi pensieri, e in sè stessa si rifugge per trovarvi felicità.

“Tu non sai quanti grandi uomini io abbia sulla terra allevati, e renduti celebrati e chiari. Tu non sai, ti ridico, ancora ch’io sia; ma dalla mia scuola salirono Socrate e Catone a quella sublimità che gli renderà sempre esempio degli uomini più solenni. La sorella mia, che tu vedesti sì bella e ridente nell’aspetto, molto facilmente tradisce e abbandona i suoi più intimi in preda all’angoscia e alla disperazione. All’incontro io, intendimi bene, non mancherò mai di condurre coloro, i quali vorranno prestare orecchio agli ammaestramenti miei, in que’gratissimi luoghi ne’quali dimorano tranquillità e contentezza.”

Ascoltava Giampagolo le sue parole con maraviglia grandissima, e comecchè la gli paresse uscita di sè, anzi pazza affatto, avrebbe giurato, guardandola in faccia, che quella sua prima bruttezza s’andasse minorando a poco a poco. Sentiva dentro al cuor suo che di giorno in giorno svaniva quel grand’odio che avea contro di lei conceputo. Essa gli ripeteva molto spesso la massima di quel filosofo, che quegli uomini i quali hanno di minori cose bisogno, più s’accostano allo stato degli Dii, i quali non abbisognano di nulla. Stimolavalo di quando in quando a volgere gli occhi a migliaia e migliaia di persone molto più sventu-rate di lui, in iscambio d’arrestarsi a guardare coloro i quali viveano in magnificenze e grandezze; e a chiedere agl’Iddii, in iscambio di ricchezze e fortuna, anima virtuosa, tranquillo stato, vita senza macola, e, in breve, morte di buona speranza ripiena.

Vedendo essa che ogni dì più tranquillo diveniva e migliore, comecchè nè l’aspetto suo potesse inspirargli amore, nè la sua compagnia divenirgli grata giammai, gli disse finalmente un giorno queste parole: “Giampagolo mio, siccome il fuoco vale ad affinare l’oro, tu dèi sapere che gl’Iddii hanno data a me, che sono la Fata dell’Avversità, facoltà d’affinare la virtù negli animi umani. Avendo io al presente compiuto in te questo ufficio, altro non mi rimane a fare, fuorchè andar lontana da te, a compiere quello che sarà di me stabilito dal cielo. Il fratel tuo Feliciano, a cui toccò per sorte d’ammogliarsi con la sorella mia, che la Fata era della Prosperità, con tua tanta invidia e dolore, dopo d’avere per isperienza conosciuto, quanto egli abbia nella sua elezione errato, venne finalmente dalla morte sciolto da un’infelicissima vita. Grande avventura ebbe veramente Giampagolo, a cui toccò d’avere in compagnia l’Avversità; e s’egli si ricorderà, come dee, talvolta di lei, io son certa ch’egli farà onoratissima vita e una morte felice.”

Non sì tosto ebb’ella terminate queste parole, che gli sparve dagli occhi come ombra; ma quantunque in quel punto le fattezze dì lei non paressero a Giampagolo insofferibili, e anzi vedesse una certa malinconica bellezza; tuttavia, come colui che non avea mai potuto sentire una menoma favilluzza d’amore per lei, non ebbe punto dispiacere ch’ella partisse, nè voglia di suo ritorno. Ma comecchè avesse molto caro di non vederlasi più a’fianchi, non gli uscirono però mai di mente i consigli ricevuti da lei, e gli si legò al cuore come un tesoro, e seguendogli sempre, divenne finalmente felice.

Di lì a poco fu in istato di rinnovare il suo traffico: ritornato alla patria, ed avendo in breve tempo acquistato quanto gli fu sufficiente per avere gli effettivi agi e beni della vita, comperò un buon poderetto alla città vicino, e quivi si stava il più del tempo in grandissima pace. Spendeva i giorni suoi nel piantare, nel coltivare un giardinetto, nel risparmiare senza spilorceria, tenendo a freno le non moderate passioni, e in somma mettendo in pratica in ogni suo atto la dottrina insegnatagli dalla Selvaggia. Sopra tutto provava un’indicibile contentezza quando entrava in una specie di celletta, o piuttosto romitoro, ch’era in fondo al suo giardinetto, in una selvetta di folti alberi, e circondato le muraglie di fiorite piante. Da vicino vi scorreva un ruscelletto di fresche acque, che uscivano da una collinetta vicina; e sulla fronte vi fece scolpire un’iscrizione che diceva a un dipresso in questa forma:

In questa celletta da’fiori copertaabitano verità, libertà, contentezza, virtù.O voi, che sdegnate quest’umile dimora,ditemi qual grande e nobile palagiovi può dar meglio?

Morì Giampagolo in età molto avanzata, onorato e pianto da tutt’i migliori.

N° XVI A dì 28 marzo 1761. Racconto Ritrovo negli antichi annali delle Fate, che dolendosi una volta molto agramente gli uomini d’una città della poco prospera fortuna, e querelandosi ognuno che le faccende andassero male, due d’esse Fate vennero in deliberazione di far conoscere a quelle genti con uno evidente esempio, che si lagnavano senza ragione. Per la qual cosa una d’esse, che si chiamava Leonilla, andata a ritrovare una sua sorella, che dimorava in una grotta di Fiesole, ed era nominata la Selvaggia, le favellò in questa forma: “Sorella mia, tu sai benissimo qual sia la nostra condizione, e quello che a noi fu stabilito dal cielo, e ciò è che, dovunque io movo il passo, mi corrono dietro tutte le prosperità della terra, e che appunto mancano pochi anni a scambiarsi la mia fatagione, a capo de’quali io mi dovrò poi tramutare in una serpe, e perdere questa mia cotanto mirabile bellezza. Tu all’incontro, non bella di faccia nè d’atti graziosa, sei dappertutto, dove ti volgi, dalle avversità perseguitata, tanto che ti se’ridotta a vivere in questa spelonca per lo tuo meglio, nella quale col tuo buon consiglio ripari la tua vita contro la nimicizia delle adirate stelle; nè si può dire che l’animo tuo grande sia mai stato vinto dalla contrarietà della tua sorte; sicchè di qua a non molti anni, essendo tu durata con tal costanza, ti dèi scambiare in gentil fanciulla, ed essere la più cheta e fortunata Fata di tutto Fiesole. Ora io ti prego, prima che mutino aspetto le nostre condizioni, che tu ne venga meco alla città, dove possiamo dimostrare agli uomini di quella, quanto si querelino a torto dell’avversità di loro fortuna. Lascia dunque, o carissima Selvaggia, questa tua grotta, e vien meco.” La Selvaggia, senza altro dire, e con un breve assenso di capo, come colei ch’era malinconica, si levò su, e si diede a seguitare Leonilla. In questa forma le giunsero entrambe alla città; ed entrate in casa d’un mercatante che si chiamava Roberto, fìnte certe lettere di favore, gliele presentarono, ond’egli in casa sua le raccolse a grande onore, e ne le ritenne. Avea Roberto due figliuoli, tuttaddue giovani, e di grande ingegno nel traffico, l’uno chiamato Feliciano, e l’altro Giampagolo, i quali con affettuoso amore si amavano vicendevolmente, nè mai era stata fra loro una minima discordia. Tuttaddue posero gli occhi addosso a Leonilla, la quale nel vero era una delle più belle e più compiute creature che mai uscissero di mano alla natura; e aggiungeva alla sua naturale bellezza quello spirito di consolazione, che spargendosi estrinsecamente nella faccia, la rende sì risplendente e lieta, che conforta a mirarla. All’incontro la Selvaggia oltre all’avere un viso intarlato dal vaiuolo, naso rincagnato, e l’essere anche zoppettina da un piede, avea gli occhi sempre torbidacci, e una guardatura malinconica e disgustata di sua fortuna. Di che non è maraviglia se Feliciano e Giampagolo, non si curando punto di lei, erano tuttaddue infocati per l’altra. Per la qual cosa a poco a poco ingelositi, cominciarono prima a motteggiarsi co’bottoni, dipoi a mordersi più apertamente; e finalmente sarebbero venuti a fare peggiore scandalo, e a mettere mano all’armi l’uno contro l’altro, come d’Eteocle e Polinice si racconta, se l’avveduto padre, e molto da loro rispettato, non si fosse tramesso, e non avesse parlato loro in tal guisa: “Figliuoli miei, io sono oggimai vicino al chiudersi di questa vita, ed è già tempo ch’io vi vedessi ammogliati. Le due giovani che dimorano in casa mia, sarebbero il proposito vostro, se non mi fossi avveduto che gareggiando ciascheduno di voi per possedere Leonilla, siete poco meno che venuti a rotta, con indicibile mio dolore; e se voi anderete più avanti con questa pazzia, son certo che nascerà cosa, per la quale io ne morrò disperato. Sicchè io vi prego, carissimi figliuoli, deponete gli odii e lasciate le risse, e traendo queste due fanciulle a sorte, ognuno sia da qui in poi contento di quella che la fortuna gli porge. Io n’ho già favellato all’una e all’altra, ed esse per compiacermi sono contente. La bruttezza di Selvaggia è da tale ingegno, prudenza e bontà compensata, ch’io non so qual di voi sarà il più fortunato.” In breve di ciò s’accordarono, e furono le due fanciulle tratte a sorte. A Feliciano toccò Leonilla, e a Giampagolo Selvaggia. Non si può esprimere quanta fosse la contentezza del primo, nè quale il dolore del secondo. Quegli parea che non si saziasse mai di pascere gli occhi suoi nell’aspetto della bellissima fanciulla; e questi all’incontro avea tant’ira conceputa nel petto, e tanto odiava Selvaggia, che ci sono alcuni i quali affermano che non entrasse mai nel suo letto. Avvenne che di là a qualche anno Roberto si morì, e lasciò una ricchissima eredità a’suoi figliuoli: i quali, essendo fra loro rimasa quella prima ruggine di dispetto, non potendosi più comportare l’un l’altro, e principalmente ardendo Giampagolo di gravissima stizza per la moglie zoppa, divisero le paterne facoltà, e ognuno fu il padrone della sua parte. Il marito di Leonilla, che da qui in poi sarà da me nominata la Fata della Prosperità, trasportato quasi da un soave incantesimo, non cessava mai di tenere gli occhi fisi nelle buone grazie e nella bellezza della moglie; anzi scordatosi affatto della parsimonia mercantile, incominciò a farle vestiti d’oro e d’argento, e a fornirla con preziose pietre e d’inestimabil valore. Edificò per lei un casino sopra un fiume, fece giardini, conviti, e usò ogni sorta di magnificenza. Non guardava più in faccia i parenti suoi, parendogli d’esser divenuto qualche gran cosa; tutti gli scapestrati giovani, quando volevano, andavano in casa sua e n’uscivano, come se fossero stati i padroni; e sopra tutto avea dato commessione che non fosse mai aperto l’uscio al fratello. Ma in quel modo appunto che un picciolo rivoletto d’acqua, uscendo di suo letto, per le valli si disperde, se non è dalle rive o dagli argini ritenuto; non altrimenti il corso della prosperità svanisce, se il risparmio e l’economia noi ritiene. Non passarono molti anni che la prodigalità sparse al vento tutte le ricchezze di Feliciano; la negligenza gli sconcertò il traffico, e quanto avea fu soggetto alla furia de’creditori. Ebbe ricorso a coloro ch’erano stati da lui accarezzati, presentati, e con mille solennità e magnificenze trattati; ma gli trovò che non conobbero nemmeno la sua voce, e non si ricordavano d’averlo veduto mai. I parenti, da lui già dispregiati, si fecero anch’essi beffe del fatto suo, e la fata medesima della prosperità, già venuta alla fine della sua fatagione, gli voltò le spalle e si fuggì da lui. Egli le correva dietro, pregandola caldamente che seco si rimanesse; ma che diremo noi che gli paresse, quando egli vide la sua bella e cara Leonilla tramutarsi in un subito in una velenosa serpe, la quale, lasciandogli negli occhi lo spavento del suo orribile aspetto, gli si tolse dinanzi? Quello che di lui fosse, la cronaca nol dice per ora; ma ritorna a raccontare di Giampagolo, il quale avea la Selvaggia presa per moglie, ch’io al presente chiamerò la Fata dell’Avversità. Costei, comecchè agli occhi suoi paresse la più sozza creatura del mondo, e la mirasse con quell’amore con cui si guarderebbe un corpo morto, la non tralasciava però mai d’andargli dietro, dovunque egli fosse; e perdi’egli avesse tutte le cagioni di darsi alla disperazione, gli venne nuova ch’un suo vascello era pericolato in mare, che molte delle sue mercatanzie che navigavano in un altro, erano state prese da’corsali, e finalmente che un mercatante a cui avea affidata una gran somma di danari, era fallito, e fuggitosi in altro paese. Di che il meschinetto non sapendo più che farsi, nè a cui chiedere aiuto in tante e sì continue calamità, ricolti i pochi avanzi che gli erano rimasi degli infortuni suoi, uscì della città, e venne dalla Fata dell’Avversità condotto, per dirupati monti ed oscurissime selve, fino ad una picciola villetta ch’era al piede d’una montagna. Dimorarono quivi l’uno e l’altro gran tempo, dove la Fata per alleviargli in parte le sue fatiche e gli stenti sofferti, parea che avesse migliorato la guardatura; gli clava i migliori e più leali consigli del mondo, procacciando sopra ogni cosa di spiccargli il cuore dall’amor soverchio de’beni della terra; e l’ammaestrava a rispettare gl’Iddii, e a mettere tutta la sua fiducia nella provvidenza e protezione di quelli. A poco a poco fece sì con le sue buone parole, che lo rendette più umano, più umile, più modesto, e gl’insegnò ad aver compassione del suo prossimo, mettendogli nell’animo un vivo desiderio di confortare gli sventurati. “Sappi,” diceva ella, “che tu non mi conosci bene ancora; ma io sono di mia natura tale, che gl’Iddii non mi mandano altro che a quegli uomini che sono amati da loro; imperciocchè non solamente io col mio costume e con le mie parole gli ammaestro per modo ch’essi divengono migliori per la seconda vita, ma dispongo gli animi loro in guisa che più cari loro riescono que’moderati piaceri che si possono avere nella presente. E non altrimenti che il ragnatelo, di fuori assalito, cerca asilo nella parte più intrinseca della sua tela, l’anima sconsolata nel vedermi e tribolata per mia cagione, raccoglie i suoi sparsi pensieri, e in sè stessa si rifugge per trovarvi felicità. “Tu non sai quanti grandi uomini io abbia sulla terra allevati, e renduti celebrati e chiari. Tu non sai, ti ridico, ancora ch’io sia; ma dalla mia scuola salirono Socrate e Catone a quella sublimità che gli renderà sempre esempio degli uomini più solenni. La sorella mia, che tu vedesti sì bella e ridente nell’aspetto, molto facilmente tradisce e abbandona i suoi più intimi in preda all’angoscia e alla disperazione. All’incontro io, intendimi bene, non mancherò mai di condurre coloro, i quali vorranno prestare orecchio agli ammaestramenti miei, in que’gratissimi luoghi ne’quali dimorano tranquillità e contentezza.” Ascoltava Giampagolo le sue parole con maraviglia grandissima, e comecchè la gli paresse uscita di sè, anzi pazza affatto, avrebbe giurato, guardandola in faccia, che quella sua prima bruttezza s’andasse minorando a poco a poco. Sentiva dentro al cuor suo che di giorno in giorno svaniva quel grand’odio che avea contro di lei conceputo. Essa gli ripeteva molto spesso la massima di quel filosofo, che quegli uomini i quali hanno di minori cose bisogno, più s’accostano allo stato degli Dii, i quali non abbisognano di nulla. Stimolavalo di quando in quando a volgere gli occhi a migliaia e migliaia di persone molto più sventu-rate di lui, in iscambio d’arrestarsi a guardare coloro i quali viveano in magnificenze e grandezze; e a chiedere agl’Iddii, in iscambio di ricchezze e fortuna, anima virtuosa, tranquillo stato, vita senza macola, e, in breve, morte di buona speranza ripiena. Vedendo essa che ogni dì più tranquillo diveniva e migliore, comecchè nè l’aspetto suo potesse inspirargli amore, nè la sua compagnia divenirgli grata giammai, gli disse finalmente un giorno queste parole: “Giampagolo mio, siccome il fuoco vale ad affinare l’oro, tu dèi sapere che gl’Iddii hanno data a me, che sono la Fata dell’Avversità, facoltà d’affinare la virtù negli animi umani. Avendo io al presente compiuto in te questo ufficio, altro non mi rimane a fare, fuorchè andar lontana da te, a compiere quello che sarà di me stabilito dal cielo. Il fratel tuo Feliciano, a cui toccò per sorte d’ammogliarsi con la sorella mia, che la Fata era della Prosperità, con tua tanta invidia e dolore, dopo d’avere per isperienza conosciuto, quanto egli abbia nella sua elezione errato, venne finalmente dalla morte sciolto da un’infelicissima vita. Grande avventura ebbe veramente Giampagolo, a cui toccò d’avere in compagnia l’Avversità; e s’egli si ricorderà, come dee, talvolta di lei, io son certa ch’egli farà onoratissima vita e una morte felice.” Non sì tosto ebb’ella terminate queste parole, che gli sparve dagli occhi come ombra; ma quantunque in quel punto le fattezze dì lei non paressero a Giampagolo insofferibili, e anzi vedesse una certa malinconica bellezza; tuttavia, come colui che non avea mai potuto sentire una menoma favilluzza d’amore per lei, non ebbe punto dispiacere ch’ella partisse, nè voglia di suo ritorno. Ma comecchè avesse molto caro di non vederlasi più a’fianchi, non gli uscirono però mai di mente i consigli ricevuti da lei, e gli si legò al cuore come un tesoro, e seguendogli sempre, divenne finalmente felice. Di lì a poco fu in istato di rinnovare il suo traffico: ritornato alla patria, ed avendo in breve tempo acquistato quanto gli fu sufficiente per avere gli effettivi agi e beni della vita, comperò un buon poderetto alla città vicino, e quivi si stava il più del tempo in grandissima pace. Spendeva i giorni suoi nel piantare, nel coltivare un giardinetto, nel risparmiare senza spilorceria, tenendo a freno le non moderate passioni, e in somma mettendo in pratica in ogni suo atto la dottrina insegnatagli dalla Selvaggia. Sopra tutto provava un’indicibile contentezza quando entrava in una specie di celletta, o piuttosto romitoro, ch’era in fondo al suo giardinetto, in una selvetta di folti alberi, e circondato le muraglie di fiorite piante. Da vicino vi scorreva un ruscelletto di fresche acque, che uscivano da una collinetta vicina; e sulla fronte vi fece scolpire un’iscrizione che diceva a un dipresso in questa forma: In questa celletta da’fiori copertaabitano verità, libertà, contentezza, virtù.O voi, che sdegnate quest’umile dimora,ditemi qual grande e nobile palagiovi può dar meglio? Morì Giampagolo in età molto avanzata, onorato e pianto da tutt’i migliori.