L’Osservatore veneto: Numero X

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Livello 1

N° X

A dì 7 marzo 1761.

Citazione/Motto

In judicandos alios homo frustra laborat,
sæpius errat, et leviter peccat. Thom. A Kemp.

Nel dar giudizio d’altrui, l’uomo invano
s’affatica, spesso s’inganna, ed erra facilmente.

Livello 2

Non ho bene in mente, quale antico poeta dicesse ch’era gravissimo danno che il cuore degli uomini non fosse coperto da un cristallo, acciocchè ognuno potesse veder chiaramente quello che vi germogliava dentro, e non fosse ciascheduno obbligato a credere alla lingua; la quale è un’astutaccia e una maschera che fa apparire di fuori non solo quello che non è di dentro, ma spesso tutto il contrario. Costei ha ancora chi l’aiuta; e si sono accordati con essa il cervello, gli occhi, l’aria del viso e altri atti estrinseci, i quali principalmente cospirano seco in un’amichevole compagnia a far apparire quello che non è. Il cervellaccio cattivo e guasto forma pensieri che non hanno punto che far col cuore, gli manda alla lingua, essa gli veste di parole; gli occhi e gli atti l’assecondano in tutto: tanto che l’uomo che ascolta, rimane alla trappola, e crede quello che non è in effetto. Se per avventura non volesse credere, ma penetrare con la sua perspicacia in quello ch’è celato, e’ne viene chiamato ad una voce maligno, tristo, profeta salvatico, strologo di fava; e oltra i rimproveri e i rabbuffi ch’egli riceve dal comune, ha questo di peggio, che gli convien vivere solitario come un gufo, odiato dalle persone, parte perchè scopre le loro magagne daddovero, e parte perchè alle volte va più là di quello che dovrebbe, e s’inganna: e finalmente s’egli non è buono da fare le maschere, come tutti gli altri, può andare a sotterrarsi vivo. Queste sono certe poche riflessioni ch’io faceva da me a me poche sere fa intorno alla natura degli uomini in generale, mentre ch’io era a letto; e come si fa, a poco a poco le mi cominciarono a svanire nel capo, sicchè ora mi trovai in tal pensiero, ora no, e finalmente m’addormentai, ed entrai così dormendo in un farnetico o sogno, che sembra un racconto delle Fate, o una delle favole narrate dalle vecchierelle al fuoco, piuttosto che altro. Ma parendomi che se ne possa trarre qualche sostanza morale, lo pubblicherò, massime sapendo ad ogni modo che anche il sognare è parte della vita, e che talvolta avviene che le cose fatte in sogno da un uomo vagliono molto meglio di quanto egli avrà fatto in tutto il corso del suo vivere desto. Chi sa che un giorno non s’abbia a sapere ch’io sia stato al mondo più per quello che avrò sognato, che per quanto avrò operato in effetto?

Livello 3

Sogno

Sogno Sbattuto da un crudelissimo soffiare di venti contrari, e dall’onde qua e colà condotto senza punto sapere a qual parte approdar dovessi, pareami ch’io piangessi amaramente i miei casi in una nave mezzo sdrucita, in cui era salito da me solo, e postomi in mare, per fuggir dalle mani di certe genti che m’aveano inseguito con le sguainate spade dietro alle spalle. Vedendo quivi la mia vita giunta all’estremo, m’era rivolto con tutto l’animo al cielo, e a lui solo raccomandava la mia salvezza; quando abbonacciatosi tutto ad un tempo il mare di sotto, e chetatisi tutti i maligni venti, un solo prospero ne rimase fra gli altri, il quale soavemente spirando, e ferendo diritto le vele, in breve ora mi sospinse ad un porto. Quivi, non so io come, la nave in cui era portato, e la quale poco prima era stata quasi inghiottita dall’acque, divenuta una ferma e verde isoletta, e da tutti i lati ampiamente allargandosi, si fece un’abitazione di molti uomini e femmine, tutti d’un’aria cotanto modesta, e sì d’atti misurati e composti, che avresti detto tutto il paese essere stato educato dalla divina Minerva. Mentre ch’io tutto attonito e quasi uscito fuori di me, rimirava quella sì nuova e disusata generazione di genti, eccoti che uscito fra loro un sacerdote, fece a tutti cenno che di là si partissero, e venutomi incontra, in questa guisa mi disse: “Salve, o forestiero. Non senza volere delle stelle tu se’qui giunto certamente. Lungo tempo è ch’era la tua venuta aspettata; imperciocchè mancato a quest’isola chi la reggea prima da molti anni in qua, dappoi ch’egli si morì, niun altro forestiero è qui capitato, e sappi che solamente a chi viene d’altri luoghi è il reggimento di questo luogo dato nelle mani.” Quantunque io mi sentissi in un subito a balzar il cuore, sicchè i polsi con frequentissime scosse avrebbero dato, a chi tocchi gli avesse, un sicuro indizio della mia allegrezza, adattandomi tuttavia a’modesti visi che nell’isola avea veduti, volli dimostrarmi degno di cotanto onore col ricusarlo; e fattogli molte belle scuse intorno alla mia picciola attività per un officio di tanta importanza, ne lo ringraziai umilmente, coprendo la mia smisurata boria sotto il velo d’un parlare dimesso. Il sacerdote adocchiatomi il viso, e stringendo le spalle, presemi senza altro dire per mano, e mi condusse ad una grotta, la quale avea scritto di sopra: Pietra del cimento, dove, entrato appena, vidi da ogni parte risplendere tant’oro massiccio e tanta ricchezza di quello, che, appena, ora che son desto, la potrei più immaginare, non che descrivere. Non sì tosto fui entrato colà dove così mirabile tesoro si stava raccolto, che il sacerdote rivoltosi a me, e, più che prima non avea fatto, tenendo gli occhi suoi fissi e attenti nella mia faccia, così prese a parlare: “Vedi tu quest’abbondanza del più desiderato metallo del mondo? La vedi tu? Ricusando tu oggi la reggenza di questi popoli, sappi che tu hai tutta questa ricchezza rifiutata ad un tempo. Non è perciò ch’io non ti lodi grandemente, e non esalti la tua virtù fino al cielo, che potendola possedere, anche giuridicamente e per ispontanea offerta che ne venne a te fatta, tu ti sia contentato della tua santissima modestia, e di vivere una povera vita. Dappoichè tu non hai voluto essere padrone di quest’oro, che pure era tuo, n’avrai in iscambio molte canzoni de’nostri migliori poeti, e una pubblica orazione delle tue lodi, fatta dal più elegante dicitore di questo luogo.” Io volea ringraziarlo di tanto favore; ma le parole mi s’appiccavano alle labbra; le braccia, che pur volevano con l’azione assecondare la lingua, stavano ciondoloni, sicchè non potea levarle; e per giunta era divenuto nel viso pallido come bossolo, ed ogni mio atto palesava che nè le canzoni de’poeti nè la diceria dell’oratore poteano compensare il dispiacere della perduta ricchezza. Appena dunque io avea proferito un grammercè rimasomi mezzo nella strozza, che la mia guida si diede a ridere sgangheratamente, e mi disse: “A che vuoi tu con una intempestiva simulazione dimostrare non vera modestia? e fingere di fuori con le ciance quel sentimento che non hai nel tuo cuore? Eccoti che non reggesti al cimento, e dinanzi all’oro hai scoperto la tua volontà. Tu dèi sapere, che siccome in tutti gli altri luoghi è saggiato l’oro ad una nera pietra per conoscere la sua vera bontà, qui l’oro è saggiuolo degli animi altrui, per comprendere l’intrinseco valore di quelli. Pazzo! vieni; e poichè lo puoi giustamente possedere, abbilo, chè non è male che tu l’abbia.” Poco mancò che non m’uscissero le lagrime vedendomi manifestato per un ipocrita dinanzi al mio condottiere; con tutto ciò ricreandomi col pensiero della mia novella grandezza, giurai fra me, che sendo divenuto di tal tesoro posseditore, volea da indi in poi fare con esso sperienza di quanti mi capitavano alle mani. Intanto fu pubblicato per un trombetta, ch’io era il novello rettore dell’isola; si fecero le feste solenni, e molte magnificenze, ch’io in vero non so come in un sogno d’una notte possano cotante e così varie cose accadere. Mentre che si faceano le feste, io posi l’occhio addosso ad un giovane, il quale mi parea che traesse profondissimi sospiri, mirando con infinito desiderio una fanciulla, la quale all’incontro o mostrava di non porvi mente, o talora con sì brusche occhiate lo rimirava, che avrebbero atterrito ogni uomo, e fattolo uscire di speranza per sempre. M’informai da certi isolani della loro condizione, e intesi che la purissima giovinetta era fiore d’onestà, e odiava sì gli uomini, che non potea comportare di vedergli. Oltre alla gran voglia ch’io avea di fare sperienza dell’oro, s’aggiunse un’altra ragione al mio desiderio, e fu di fare sotto alla reggenza mia fiorire co’dolci vincoli de’maritaggi la popolazione di quella. Per la qual cosa chiamato il giovane a me, e datogli una grandissima somma d’oro, gli dissi quello che n’avesse a fare; e che di quello ch’egli facesse, venisse a rendermene ragione. Ritornò egli fra poco, e dissemi che avea prima offerto alla giovane una certa quantità di quell’oro, e perciò ricevutone un grandissimo rabbuffo; onde era stato obbligato ad accrescere la somma, ma senza pro; e che finalmente avendogliene quanto possedea proferito, avea notato che la fanciulla senz’altro dire, tutta coperta il viso da una fiammolina di verecondia, gli avea voltate le spalle. Allora io null’altro rispondendo al giovane, mandai alcuni de’miei per la fanciulla, e facendole un dono di quell’oro che il giovane le avea proferito poco prima, senza fatica d’altre-persuasive, la vidi dar la mano all’innamorato garzone, e accogliendolo per isposo, deporre tutta lieta la sua ruvidezza. Dopo la prima sperienza ne feci un’altra in un vecchiotto d’austerissima vita, il quale, per un certo valsente ch’io gli avea fatto promettere occultamente, era risoluto a guastare tutti i suoi ben trascorsi anni, calunniando a torto un suo congiunto; e già avea apparecchiata con mille inestricabili trame l’accusa per buscarsi l’illecito guadagno, s’io non gli avessi in segreto rinfacciata la sua ingordigia e il mal fondo dell’animo suo, tanti anni tenuto coperto pel solo timore della vergogna. Che più? io toccai in sul saggiuol dell’oro gli animi di due amici che pareano un solo intelletto ed un corpo, e vidi che tutto era finzione. Feci prova di mariti e mogli, di fratelli e sorelle, di padri e figliuoli, e vidi che i vincoli della parentela e i legami del più legittimo amore rimanevano dinanzi all’oro una sola apparenza; e benchè non lasciassi in effetto nascere scandalo veruno, m’avvidi tuttavia che gli animi umani, cimentati allo splendore di questo metallo, scoprono l’effettivo loro valore, e quanto hanno di mondiglia. Mentre ch’io scriveva in un quaderno le fatte sperienze, e ad una ad una l’aggiungeva certe annotazioni, mi svegliai, ripetendo le parole che avea veduto sulla grotta scolpite: Pietra del cimento, pietra del cimento.
Ritratto Nono.

Livello 3

Racconto generale

In una bottega da caffè, attorniato da molti, loda Robertola lealtà ad alta voce. “Guai a chi vuole la roba altrui! non fa pro, come bragia cuoce. Iddio fece le misure di quello che dee possedere ognuno. Non metterei mano ad una spilla del prossimo, se una spilla mi facesse re. Pura coscienza è inestimabile ricchezza. Questa è la gioia mia.” — “Bella gioia!” rispondono tutti quei che l’accerchiano. “Prezzo infinito!” Tutti sono coppe d’oro. Partesi il caffettiere dal fornellino, e versando il caffè dice: “Bene, avete ragione. Ha stanotte il Graffigna rubati due mila zecchini al padron suo. Ecco il frutto. Fu colto da’birri, e balzò in prigione.” — “Bestia! Seppe trafugare due mila zecchini, e non salvarsi con essi in mano? Vada alle forche,” rispondono le coppe d’oro.

Metatestualità

Uno il quale s’intitola il Taciturno, mi scrive una breve lettera intorno all’amore platonico. Io non so se il caso da lui allegato nella sua polizza sia vero o di sua invenzione per dimostrare il concetto ch’egli ha di siffatto amore. Stimo ch’egli lo tenga per vero come la Fenice. Ognuno potrà dar giudizio della opinione di lui, leggendo la sua breve lettera.

Livello 3

Lettera/Lettera al direttore

Metatestualità

Signore
Chi avrà più l’ardimento d’opporsi alla sperienza e di negare i virtuosi sentimenti del platonico amore, se i più affettuosi innamorati ce ne danno ogni giorno qualche notabile prova?

Livello 4

Racconto generale

Due mesi or fa che un giovane cavaliere forastiero amava con indicibile affetto una mia sorella; ed essendo tutto spirito e riflessione, credevasi da sè al tutto incapace di potersi avvilire ad amare in una donna la bellezza del corpo, quand’anche fosse stata la più perfetta e la meglio armonizzata del mondo. Dichiaratosi dunque amante di lei, affermava che l’amor suo era tutto rivolto alla vivacità, giustezza e ragionevolezza dei pensieri di quella. Ed era giunta a tal segno questa sua cotanto virtuosa passione, che per avere sempre vicino un animo così ben fatto, e tante e così meravigliose qualità, anzi possederle senza interruzione, le aveva già dato parola di prenderla per isposa. Avvenne frattanto che mia sorella dal vaiuolo assalita improvvisamente, si trovò per qualche giorno a risico di perdere la vita; ma pur finalmente si risanò, e altro non le rimase fuorchè una certa maschera in sulla faccia di macchie rossigne; ma nulla però perdette della prima grazia e vivacità dello spirito. Non si prese già ella pensiero nè sentì punto d’afflizione per la scambiata faccia, sapendo molto bene che il virtuoso giovane non amava punto in lei una bellezza corruttibile e di passaggio, ma che era tutto rivolto a’nobili sentimenti e all’intellettiva bellezza. In effetto venne il cavaliere a visitarla dopo la sua infermità, e nulla mutando del suo primo carattere, le protestò lo stesso amore di prima e le chiese licenza di poterla importunare più spesso con le sue visite, giurandole che sempre più ne vivea innamorato.
Sono quindici giorni che mia sorella nol vede e non si sa dove sia. Oh! amor platonico, quanto se’tu grande! e chi potrà più negare la tua evidenza?

Metatestualità

Il Taciturno