A dì 7 marzo 1761.
In judicandos alios homo frustra laborat,sæpius errat, et leviter peccat.
Nel dar giudizio d’altrui, l’uomo invano
s’affatica, spesso s’inganna, ed erra facilmente.
Sbattuto da un crudelissimo soffiare di venti contrari, e dall’onde qua e colà condotto senza punto sapere a qual parte approdar dovessi, pareami ch’io piangessi amaramente i miei casi in una nave mezzo sdrucita, in cui era salito da me solo, e postomi in mare, per fuggir dalle mani di certe genti che m’aveano inseguito con le sguainate spade dietro alle spalle. Vedendo quivi la mia vita giunta all’estremo, m’era rivolto con tutto l’animo al cielo, e a lui solo raccomandava la mia salvezza; quando abbonacciatosi tutto ad un tempo il mare di sotto, e chetatisi tutti i maligni venti, un solo prospero ne rimase fra gli altri, il quale soavemente spirando, e ferendo diritto le vele, in breve ora mi sospinse ad un porto. Quivi, non so io come, la nave in cui era portato, e la quale poco prima era stata quasi inghiottita dall’acque, divenuta una ferma e verde isoletta, e da tutti i lati ampiamente allargandosi, si fece un’abitazione di molti uomini e femmine, tutti d’un’aria cotanto modesta, e sì d’atti misurati e composti, che avresti detto tutto il paese essere stato educato dalla divina Pietra del cimento, dove, entrato appena, vidi da ogni parte risplendere tant’oro massiccio e tanta ricchezza di quello, che, appena, ora che son desto, la potrei più immaginare, non che descrivere. Non sì tosto fui entrato colà dove così mirabile tesoro si stava raccolto, che il sacerdote rivoltosi a me, e, più che prima non avea fatto, tenendo gli occhi suoi fissi e attenti nella mia faccia, così prese a parlare: “Vedi tu quest’abbondanza del più desiderato metallo del mondo? La vedi tu? Ricusando tu oggi la reggenza di questi popoli, sappi che tu hai tutta questa ricchezza rifiutata ad un tempo. Non è perciò ch’io non ti lodi grandemente, e non esalti la tua virtù fino al cielo, che potendola possedere, anche giuridicamente e per ispontanea offerta che ne venne a te fatta, tu ti sia contentato della tua santissima mo-
Io volea ringraziarlo di tanto favore; ma le parole mi s’appiccavano alle labbra; le braccia, che pur volevano con l’azione assecondare la lingua, stavano ciondoloni, sicchè non potea levarle; e per giunta era divenuto nel viso pallido come bossolo, ed ogni mio atto palesava che nè le canzoni de’poeti nè la diceria dell’oratore poteano compensare il dispiacere della perduta ricchezza. Appena dunque io avea proferito un grammercè rimasomi mezzo nella strozza, che la mia guida si diede a ridere sgangheratamente, e mi disse: “A che vuoi tu con una intempestiva simulazione dimostrare non vera modestia? e fingere di fuori con le ciance quel sentimento che non hai nel tuo cuore? Eccoti che non reggesti al cimento, e dinanzi all’oro hai scoperto la tua volontà. Tu dèi sapere, che siccome in tutti gli altri luoghi è saggiato l’oro ad una nera pietra per conoscere la sua vera bontà, qui l’oro è saggiuolo degli animi altrui, per comprendere l’intrinseco valore di quelli. Pazzo! vieni; e poichè lo puoi giustamente possedere, abbilo, chè non è male che tu l’abbia.” Poco mancò che non m’uscissero le lagrime vedendomi manifestato per un ipocrita dinanzi al mio condottiere; con tutto ciò ricreandomi col pensiero della mia novella grandezza, giurai fra me, che sendo divenuto di tal tesoro posseditore, volea da indi in poi fare con esso sperienza di quanti mi capitavano alle mani. Intanto fu pubblicato per un trombetta, ch’io era il novello rettore dell’isola; si fecero le feste solenni, e molte magnificenze, ch’io in vero non so come in un sogno d’una notte possano cotante e così varie cose accadere. Mentre che si faceano le feste, io posi l’occhio addosso ad un giovane, il quale mi parea che traesse profondissimi sospiri, mirando con infinito desiderio una fanciulla, la quale all’incontro o mostrava di non porvi mente, o talora con sì brusche occhiate lo rimirava, che avrebbero atterrito ogni uomo, e fattolo uscire di speranza per sempre. M’informai da certi isolani della loro condizione, e intesi che la purissima giovinetta era fiore d’onestà, e odiava sì gli uomini, che non potea comportare di vedergli. Oltre alla gran voglia ch’io avea di fare sperienza dell’oro, s’aggiunse un’altra ragione al mio desiderio, e fu di fare sotto alla reggenza mia fiorire co’dolci vincoli de’maritaggi la popolazione di quella. Per la qual cosa chiamato il giovane a me, e datogli una grandissima somma d’oro, gli dissi quello che n’avesse a fare; e che di quello ch’egli facesse, venisse a rendermene ragione. Ritornò egli fra poco, e dissemi che avea prima offerto alla giovane una certa quantità di quell’oro, e perciò ricevutone un grandissimo rabbuffo; onde era stato obbligato ad accrescere la somma, ma senza pro; e che finalmente avendogliene quanto possedea proferito, avea notato che la fanciulla senz’altro dire, tutta coperta il viso da una fiammolina di verecondia, gli avea voltate le spalle. Allora io null’altro rispondendo al giovane, mandai alcuni de’miei per la fanciulla, e facendole un dono di quell’oro che il giovane le avea proferito poco prima, senza fatica d’altre-persuasive, la vidi dar la mano all’innamorato garzone, e accogliendolo per isposo, deporre tutta lieta la sua ruvidezza. Dopo la prima sperienza ne feci un’altra in un vecchiotto d’austerissima vita, il quale, per un certo Pietra del cimento, pietra del cimento.
Ritratto Nono.
Chi avrà più l’ardimento d’opporsi alla sperienza e di negare i virtuosi sentimenti del platonico amore, se i più affettuosi innamorati ce ne danno ogni giorno qualche notabile prova?