Cita bibliográfica: Gasparo Gozzi (Ed.): "Numero II", en: L’Osservatore veneto, Vol.1\002 (1761-02-07), pp. 5-10, editado en: Ertler, Klaus-Dieter / Fuchs, Alexandra (Ed.): Los "Spectators" en el contexto internacional. Edición digital, Graz 2011- . hdl.handle.net/11471/513.20.304 [consultado el: ].


Nivel 1►

N° II

A dì 7 febbraio 1761

Cita/Lema► Arte citæ, veloque rates, remoque reguntur,
Arte leves cursus
.

Ovid.,De art. am., lib. I.

Con arte, vela e remo si reggono le veloci navi,
e coll’arte i leggieri cocchi. ◀Cita/Lema

Nivel 2► Credo che sempre sia stata al mondo l’usanza del guidare i giovanetti alla cognizione delle scienze e delle buone arti per vie difficili, aspre, dirotte, e come dire per rupi e scogli, acciocchè la scuola fosse lunga, piena d’aggiramenti e di lacci, da non trarne fuori i piedi sì tosto. Intanto i maestri adoperano le borse de’padri, le quali si chiuderebbero, se il fanciullo acquistasse dottrina in breve. Certi sputatondi e begl’ingegni nel sottilizzare, io non so se per malizia o per goffaggine, hanno fatto tante osservazioni, tante chiose e comenti a tutto, che ogni arte e disciplina spiccatasi da quella sua ingenua e armonica concatenazione di principii semplici trovati da’primi osservatori, è oggidì ravviluppata fra le ortiche e le spine, divenuta così malagevole, inintelligibile, e tale, che se gli uomini vivessero quanto gli antichi patriarchi, appena verrebbero a capo d’intenderne un terzo. Ma sopra tutti gli altri allungano il cammino i maestri dell’eloquenza, i quali non fanno altro oggidì che spaventare i giovanetti, ricordando loro le fatiche di Demostene, che, per ben proferire, correva su per le colline con le pietruzze in bocca; quella grotta, in cui stette coperto tanti anni dal mondo, con la barba mezza rasa e mezza no, per aver cagione di vergognarsi delle genti, se usciva mai: il parlare di Pericle lo nominano tuono e folgore, per atterrire con questi paroloni superbi i discepoli, i quali si credono di nulla poter dire, se il favellar loro non è tuono e saetta. Narrano le veglie d’Isocrate, gli studi di Cicerone, tanto che per non infrangersi sotto agli stenti, la gioventù se ne sbriga con la disperazione, e col mettere i libri a dormire. E hanno grandissima ragione; perchè la via dell’imparare ad essere bel parlatore è facilissima, e deriva dal più piacevole studio e dal più grato che altri possa immaginare. Metatextualidad► Plutarco, nella vita d’Antonio, m’ha invogliato di fare sopra [6] ciò alcune brevi osservazioni, alle quali, se saranno a proposito, non mancheranno altri osservatori che diranno le cose più chiare e più appunto di quello ch’io possa dirle fra confini di questo foglio. Due grandissimi tratti d’eloquenza ritrovo nella vita d’Antonio. ◀Metatextualidad Nivel 3► Exemplum► L’uno quando, dopo la morte di Cesare, parlò con tanta compassione e pietà di lui, che commosse tutti a prendere armi e fuoco contra gli uccisori di quello; e l’altro, quando dopo d’aver perduta una battaglia, se n’andò nascosto e travestito al campo di Lepido. Quivi, solo, abbandonato, vestito di nero e con la barba rabbuffata, s’avvide che Lepidonon lo volea accogliere; onde tanto fece con un compassionevole aringo, che acquistò la grazia di tutt’i soldati, per modo ch’egli non solo entrò nel campo, ma, dal titolo in fuori, ebbe il governo di quello. Altre molte e mirabili cose potrei dire della forza di sua eloquenza; ma in ciò non è posta la mia osservazione. Per quanto io abbia con diligenza notato, non trovo che fin da’suoi primi anni egli avesse altra pratica di migliori maestri, che delle femmine. Nella sua più fresca giovinezza capitò alle mani d’un certo Curio, il quale gli fece comprendere questa verità, che le sono le migliori rettoriche del mondo; ond’egli, ch’era uomo d’ingegno, l’intese di subito, e da quel punto in poi ebbe sempre qualche nova maestra; fra le quali Cleopatra, quanto è alla pronunzia, gli dovette insegnare bellissimi segreti e tuoni; poichè dicono gli scrittori che quando la cominciava a parlare, la voce sua avea quella varietà che hanno gli strumenti, quando il sonatore comincia a tasteggiare per mutar suono. ◀Exemplum ◀Nivel 3 Per la qual cosa vedendo io che il secolo nostro non abborrisce punto tali maestre, ho buona speranza, che se i giovani le visiteranno con questa intenzione, senza affaticarsi punto in lunghe e noiose scuole, o perdere il cervello in sui libri, riusciranno più garbati e facondi dicitori degli uomini d’Atene e di Roma. Qualche frutto se ne vede, benchè non sieno fino a qui state visitate con tale avvertenza rettorica. Vedesi che le parole non vengono meno, e che l’abbondanza della favella fiorisce. In una conversazione di dieci o dodici maschi, non c’è più nè chi stia mutolo, nè chi, fatta una proposta, abbia la pazienza d’attendere la risposta. Tutte le gole sono piene d’eloquenza, e tutte mandano fuori le parole ad un tratto. Ecco il grande indizio di facondia e loquela, che un dì, regolata poi da qualche norma, riuscirà in isquisitissime orazioni d’ogni genere.

Un’altra cosa mi dà non minore speranza che il bello e vigoroso parlare debba in poco tempo ingrandirsi e giungere alla cima della sua perfezione. Questa è la sensibilità dell’animo, dalla quale, più che dalla forza dell’intelletto, nasce la possanza del favellare e la persuasione. E certo nessuno mi potrà mai negare che le femmine non sieno in questa parte molto meglio fornite degli uomini, i quali se possono chiamarsi superiori in robustezza e vigoria d’intelletto, quanto è alla dilicata sensibilità del cuore, non arriveranno giammai ad essere uguali a questa garbata e sensitiva metà del mondo. Ma non è qui luogo da trattare questo punto. A me basta ch’io conosco benissimo che la continua costumanza con le donne ha ridotti gli animi de’giovani così voltabili ad ogni sentimento, che ad ogni picciola avversità di fortuna paiono disperati; che il perdere un terzo d’ora di dormire gli rende d’un umore bestiale, e d’ogni cosellina s’allegrano ed escono quasi di sè; e per un picciolissimo dispiacere impallidiscono e fanno lamentazioni che si veggono uscir loro dalle più intrinseche radici del cuore. Di tutto mercè [7] sia alla pratica delle femmine che senza tenere a bada con troppo lunghe scuole o con magre regole, insegnano non artifizi o figure da fingere quello che non si sente in cuore, ma a sentir tutto repentinamente, e con quell’invasazione ch’è necessaria al persuadere. Perchè dunque gli avanzamenti sieno più veloci, io consiglio i novelli discepoli a por mente intanto a due soli principii, dietro a’quali camminando con qualche leggiera meditazione, potranno diventare in brevissimo tempo egregi parlatori. Ciò sono l’amplificazione o esagerazione, e l’avvilimento, o rendere picciole quelle cose che per sè sono grandi, e deturparle quanto è possibile con la picciolezza e sparutezza de’vocaboli; arte nella quale sono in superlativo grado eccellenti le loro maestre. Della qual cosa non abbisogna ch’io adduca esempi, potendo ciascheduno di per sè notare com’esse grandeggiano nell’amplificare certe picciole infermità, e lo squisito lavoro d’un nastro, o altre bagattelluzze sì fatte. E all’incontro con quanta miseria di parole e con quale svilimento abbassano e rendono picciola e meschina agli orecchi di chi le ascolta, la servitù prestata loro lungo tempo da qualche uomo dabbene; e in qual modo assottigliano e rendono quasi invisibili que’dispendi che saranno stati fatti, o s’avranno a fare per appagarle! Metatextualidad► So che ho detto poco; ma, come accennai di sopra, sono migliori nell’arti i pochi principii e semplici, che i molti e gli avviluppati. ◀Metatextualidad

Nivel 3► Carta/Carta al director► Metatextualidad► Al Veneto Osservatore

Io non so se questa lettera possa aver luogo ne’vostri fogli. Troverete una novella allegorica, la quale mi sembra che si confaccia alle intenzioni che avete. L’allegoria non è sì coperta, che non possa intendersi facilmente. In breve, farete a modo vostro; e se volete dire che l’avete scritta voi medesimo, ditelo, chè a me non importa d’essere creduto autore. Vi saluto cordialmente e sono vostro amico

L. Q. ◀Metatextualidad

Nivel 4► Allegorie►

Il viaggio del piacere e della saviezza
Novella allegorica

Cita/Lema► . . . Alterius sic
Altera poscit opem res, et conjurat amice.

Così una cosa chiede l’aiuto d’un’altra,
e fanno amichevole concordia. ◀Cita/Lema

Nivel 5► Non potea il Piacere, secondo il costume suo, che d’ogni cosa s’annoia, starsi più saldo in un paese della Grecia, dond’era Saviezza partita. E comecch’egli fosse stato cagione ch’essa di là era uscita per disperazione e per lo gran romore che faceasi giorno e notte di danze, conviti, lungo bere, serenate e altri pazzeggiamenti; pure trovandosi infine senza di lei, la quale di tempo in tempo moderando col suo grave aspetto e con le maestose parole la licenza altrui, era una dolcissima salsa che facea trovare più saporite le allegrezze e i diletti, posesi il [8] Piacere in cuore d’andare in traccia di lei ad ogni modo. Apparecchiossi dunque al cammino, e seguendo il suo capriccio, si pose intorno al capo una ghirlanda di fiori; presesi diversi strumenti da sonare e varie altre coselline da intrattenersi per non sentire la noia della via, e si diede a camminare. Da ogni lato gli correvano incontro giovani, fanciulle, uomini, donne, e ogni generazione di gente volea vederlo, e da tutte le città e castella si faceva una concorrenza grande con trombe, tamburi, mascherate di Ninfe, di Deità boscherecce e d’altro; e in tutti i luoghi veniva accolto con magnificenze che parean nozze. Avvenne un dì che passando per un villaggio, in cui abitavano certi pastori molto bene agiati e provveduti di quanto abbisogna all’umana vita, s’abbattè a quella Saviezza, della quale egli andava in traccia; di che salutatala cordialmente, e fattole non so quali brevi scuse, le fece comprendere la necessità grande ch’aveano dell’esser insieme per vantaggio comune degli uomini. Ella, che intendea le ragioni ed il vero, di nuovo si rappattumò con lui, e fatta la pace, lasciò le capanne e i pastori, e in compagnia del Piacere si pose in cammino. Così dunque andando insieme, e parte ragionando la Saviezza, e parte confortandola il Piacere coi suoi dilettevoli scherzi, giunsero in sul far della sera ad un castello abitato da un signore, il quale dimenticatosi d’ogni altra cosa, spendeva ogni suo avere in lunghissime cene, in feste e giuochi d’ogni qualità: e appunto in quell’ora era tutta la sala del suo palagio con bellissimo ordine illuminata, e uscivano della cucina i più soavi odori di salse che mai fossero stati fiutati al mondo. Presentossi al padrone il Piacere, il quale, come cosa venuta allora dal cielo, fu lietamente accolto e teneramente abbracciato. Ma quand’egli significò al padrone del castello che avea la Saviezza in sua compagnia, non vi fu modo veruno che questi le volesse fare accoglienza; sicchè per quella notte, s’ella volle avere alloggiamento, le convenne andare ad una casipola d’un sacerdote d’Esculapio, dov’ella appena ebbe di che cenare, e un letticciuolo che parea un canile.

La mattina i due compagni furono insieme di nuovo, e la Saviezza raccontò al Piacere la mala notte che avea passata, ed egli a lei le feste che s’erano fatte nel castello; tanto che l’uno e l’altra, per due cagioni diverse avendo poco dormito, andavano sbadigliando e sonniferando per la strada. Venuta la sera, giunsero ad una terra governata da un filosofastro, il quale volea che tutte le sue genti stessero in continui studi di filosofia, nè si partissero mai d’in sulle carte, e che a guisa d’organetti facessero ogni cosa, non secondo il loro pensiero e la volontà, ma secondo quella setta, io non so se stoica o altro, di cui era egli maestro. Costui poco mancò che non flagellasse il Piacere; tanto gli fece dispetto il vederlo; e accolta la compagna di lui con quella gentilezza che potè così rigido uomo, volle che l’altro uscisse incontanente di buia notte fuori della terra sua: il quale non sapendo in che luogo trovare ricovero, si pose per quella sera in un prato di fiori sotto ad un albero, attendendo la mattina e sperando meglio per suo conforto. Appena era spuntato il sole, che la Saviezza medesima, stanca de’magri ragionamenti e delle astratte fantasie udite tutta la notte, venne fuori [9] della terra, e si ricreò alla vista dell’amico e a raccontargli quanto l’era accaduto. Egli all’incontro le fece a sapere che senza di lei appena avea potuto confortarsi della sua solitudine; onde l’uno e l’altra si giurarono di non mai più dipartirsi, e camminare fino a tanto che avessero ritrovate persone che gli accogliessino insieme. Così dunque camminando in ottima concordia molti dì e parecchie notti, e trovando chi or l’una, or l’altro volea, non acconsentirono mai d’abbandonarsi, e mantennero quella fedeltà che s’aveano giurata. Finalmente volle fortuna che trovassero quello che andavano cercando, e che aveano sì lungo tempo desiderato. Imperciocchè giunsero in sul far della sera ad una città, i cui popoli erano guidati dalla più saggia reina che mai vivesse. Le sue santissime leggi teneano tutte le cose in una giusta bilancia, sicchè il paese suo fioriva d’ogni bene e bellezza. Presentaronsi alla beata reina i due viaggiatori compagni, ed ella volle udir l’uno e l’altro parlare, imperocchè dalle parole si scopre la condizione dell’animo; e udita la diceria tutta festevole del Piacere, e l’altra saggia e accostumata della Saviezza, accolse l’uno e l’altra nel suo pacifico reame, assegnando loro certi tempi, nei quali la Saviezza dovesse gli animi degli abitatori temperare, e il Piacere riconfortargli da’pensieri e dalle fatiche; e ordinando la faccenda per modo, che fra le parole e i fatti dell’uno o dell’altra, le persone acquistassero una certa uguaglianza di spirito e una certa tranquillità che non possono derivare nè dal solo Piacere, nè dalla sola Saviezza. ◀Nivel 5 ◀Allegorie ◀Nivel 4 ◀Carta/Carta al director ◀Nivel 3

Annotazione dell’Osservatore

Metatextualidad► La novella scritta qui sopra mi fa entrare in una considerazione. Egli è vero che ognuno può farla da sè; ma dappoichè ho la penna in mano, essa vuol correre; e io che sto osservando le cose altrui, osservo questo per ora di me medesimo, che uno il quale scrive, alle volte a fatica può cominciare, e alle volte a stento finisce. Torniamo all’argomento. Tutta la diceria fatta di sopra mi fa venire in mente diversi generi di persone di vario umore, le quali la vogliono a modo loro, e tutte credono d’aver ragione. Ci sono alcuni i quali entrano sino al ciuffetto ne’diletti. Cominciano oggi da uno, che appena assaggiato perde il sapore; domani si tuffano in un altro, e anche quello svanisce; e così fanno di giorno in giorno senza pensare ad altro. Alla fine dicono: « Oh! che noia! Vedi magri diletti che dà il mondo! » E in ogni luogo trovano il fastidio, la molestia e il dispetto. Questo mondo è come una mensa. Ogni dì s’ha a mangiare. Ci sono certe vivande usuali che si mangiano ogni dì; e perchè l’appetito non se ne stanchi, furono ritrovate le salse che pungono e ravvivano il palato, acciocchè ritorni di buona voglia alle carni consuete. I continui saporetti introducono torpore in esso, sicchè per farlo assaporare, bisognerebbe rinforzare le salse; e non basterebbero infine i carboni accesi a destarlo. Le nostre carni consuete sono le faccende, i pensieri, e per lo più le calamità: perchè l’animo possa bastare a sofferire, l’onesto piacere è una manna. All’incontro certi Catoni vorrebbero che non s’uscisse mai del malinconico e del [10] grave, come se gli uomini fossero d’acciaio e non di carne. Questi tali ci vorrebbero affogati nella noia. E quando l’animo è infastidito, non è buono nè per sè nè per altrui. Il meglio è un bocconcello colla salsa di tempo in tempo, e poscia un grosso boccone delle vivande usuali. La misura ne’passatempi è rimedio della vita; ed io tanto veggo magri, sparuti e disossati quelli che non pensano ad altro che al sollazzo, quanto quelli che tirano continuamente quella benedetta carretta delle faccende. ◀Metatextualidad ◀Nivel 2 ◀Nivel 1