L’Osservatore veneto: Numero I, Ragionamento I che serve di prefazione

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Livello 1

N° I

A dì 4 febbraio 1761

Ragionamento I
che serve di prefazione

Citazione/Motto

. . . si tibi vera videtur,
Dede manus; et si falsa est, accingere contra.

Lucret.

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Racconto generale

Dione Crisostomo, egregio orator greco de’suoi dì, per odio che gli pose addosso Domiziano imperadore, andò ramingo parecchi anni qua e colà in diverse parti del mondo; e finalmente ritrovavasi in un cantuccio della terra, quando intese ch’era morto il suo nemico, e salito Nerva alla dignità dell’impero. Con tutto che l’eloquentissimo Dione avesse fatto ogni suo potere per tenersi coperto e sconosciuto, la fama di lui non potè anche nella miseria dell’esilio starsi occulta, tanto che ogni gente e nazione avea caro di vedere la faccia di colui ch’era celebrato in ogni luogo. Sopra ciascun altro però ardevano di voglia di vederlo gli uomini della sua città, e gli aveano significato questo lor desiderio con lettere ed ambasciate. Egli, udito che Nerva era stato eletto imperadore, fece intendere a’concittadini suoi che volea fare sollecitamente un viaggio per presentarsi a Nerva, da cui era grandemente amato; sicchè non potendo per allora andare a Prusia, città in cui era nato, assegnava un dì, in cui dovea passare per Cizica, e appostava loro quel tempo, acciocchè lo potessero vedere. Giunse la nuova alla sua patria; e narra lo storico della sua vita che tutti gli ordini di persone furono a romore per andarlo a visitare in Cizica. Uno lo dicea agli orecchi d’un altro: ciascheduno nominava Dione: nobili, popolani, uomini, donne, tutti voleano vederlo, sicchè la città fu quasi deserta, e vi rimasero appena i vecchi e gli azzoppati, pregando anche questi che fosse salutato a loro nome. Il cammino fu una solennità. S’udivano stromenti, si vedevano cori di persone che danzavano, vestiti candidi, inghirlandati capi, tutto festa, tutto funzione, quasi andassero a visitare il tempio d’alcuno Iddio. Dione dall’altro canto giunto in Cizica nell’assegnato dì, attendeva i salutatori, e forse si vanagloriava in sè di questa pubblica testimonianza di stima datagli dalla patria sua, e avea già con acconcie parole e con rettoriche capestrerie apparecchiata una delle più armoniche dicerie che avesse fatte a’suoi giorni. E già erano i suoi concittadini alle porte di Cizica, ed egli sotto un ombrello stavasi decorosamente attendendogli nel suo albergo, riandando con la memoria la sua bella orazione; quando entrò nella stessa città un musico, il quale dovea in quel medesimo giorno far udire la dolcezza della sua voce in ispettacolo sulla scena. Ampliatasi in un subito la fama del cantore, e celebrandosi la dolcezza della sua gola per tutt’i lati di Cizica, gli abitatori della città concorsero tutti al teatro; e que’medesimi che venuti erano con tanto struggimento per vedere e salutare Dione, stimolati dalla novella curiosità, si dimenticarono di lui, come se in quel punto non fosse più stato al mondo, e andarono con tutti gli altri al teatro. Dione, veduta questa faccenda, travestitosi e copertosi, fece come gli altri, cioè andò a sedere fra gli ascoltatori non conosciuto, e la mattina per tempissimo uscì di Cizica, e andò a suo viaggio. Dicesi che lasciò scritto in una polizza: « Oh! ineffabile potenza de’Fefautti! chi può reggere alla tua forza? »

Metatestualità

Io credo che sotto a questo vocabolo quel valentuomo volesse significare i diletti universalmente, a fronte de’quali ogni altra cosa, per buona ed importante che sia, perde il suo vigore. Tanto che qualunque uomo vuole scrivere intorno a’costumi e alle pratiche umane, biasimando i vizi e lodando le virtù, appena verrà ascoltato in ogni tempo, perchè da tutt’i lati zufola il dolcissimo suono de’Fefautti. E veramente io non so qual capriccio mi tocchi ora il cervello di volere con questi fogli ragionare di cose che dipingano costumi, facciano ritratti della vita umana e delle usanze del mondo. Questo fu sempre ad un modo. È un gracchiare al vento il notare i difetti suoi. Che hanno fatto tanti che hanno scritto? Che faranno gli altri che scriveranno? Altro non si può dire, se non ch’essendo il mondo stato sempre ad un modo, sono anche in esso sempre stati due generi di persone. Una fazione, ch’è la maggiore, ha voluto sempre fare a sua volontà; e l’altra, ch’è la minore, ha voluto sempre gracchiare, e dire la sua opinione della prima. Vedesi in ciò la forza di tutti e due i partiti, chè nè l’uno nè l’altro ha mai voluto cedere forse da seimila anni in qua; e dura ancora la medesima costanza, o vogliam dire ostinazione, del fare e del dire, e il mondo è sempre quel medesimo. Qual benefizio fa dunque lo scrivere e il cianciare, se non è atto a far migliorare il mondo? Vale a renderlo ingegnoso e vario nelle apparenze. La malizia ha le radici così fitte a dentro, che non è possibile lo sterparle affatto. Chi scrive, taglia ora questo ramo, ora quell’altro della mala pianta che torna a rampollare. Essa rampolla di nuovo, e lo scrittore di nuovo taglia. Altro non può fare. Un altro bene fa; ch’egli scopre questa malizia, la quale sotto finissimi veli si copre, e avvisa chi non sa, della malignità di quella; ma essa poi si cambia di velo, e si ricopre ad un’altra guisa. Egli mi pare appunto che questa ingannatrice femmina abbia bottega di mascheraio, alla quale concorrano gli avventori in grande affluenza. Essa dà le maschere a questo e a quello. Poniamo, ad un ipocrita dà la maschera della religione, ad un femminacciolo la maschera della carità del prossimo, ad un prodigo quella della generosità. Lo scrittore se n’avvede; e a poco a poco fa conoscere che le son tutte maschere, sì che in capo a qualche anno ognuno le conosce, onde le apparenze non giovano più. Ma la malizia affina i lavori suoi, e fa le maschere più naturali, e meno atte ad essere riconosciute per finzioni; e gli avventori lasciano le prime, e s’acconciano le seconde, e sono quelli di prima, coperti con sottigliezza maggiore. Eccoti di nuovo lo scrittore in campo, che scopre le maschere; e la malizia di nuovo assottiglia l’arte del nascondere, e un altro di nuovo scrive; tanto che in fine il mondo rimane quel medesimo, dalle maschere in fuori, che si tramutano di tempo in tempo. Pure, poichè il mondo fu composto sempre di chi fa e di chi parla, io prego le genti a leggere con benigno animo quello ch’io scrivo, comportando pazientemente ch’io mi stia nel partito di chi favella. Benefizio e gratitudine sono vocaboli usatissimi. Ognuno gli profferisce. Il primo l’adatta a sè, il secondo ad altrui. « A tutti ho fatto del bene. Dio lo perdoni a tutti. M’hanno ingannato. Udite. Io mi sono più adoperato per lui, che per me stesso. Egli m’ha pagato sì male che me ne vergogno a dirlo. Bestia ch’io fui. Ma no, non me ne pento. Ad ogni modo io ho fatto quello che doveva un uomo dabbene, egli all’incontro. » Così dice uno d’un altro. E questi dice lo stesso del primo. Chi ha ragione? Io nol so. Per giudicarne, abbisognerebbe sapere le circostanze, in cui si trovavano. Quello ch’essi dicono non basta. Ognuno è eloquentissimo, quando tratta la causa propria, e sì la colorisce che agli orecchi che ascoltano, par verità quello che dice. Due lettere mi sono per avventura pervenute alle mani, che trattano di questa materia. La prima è una querela d’Antinoo uomo ricco contro ad Iro, pover’uomo; e la seconda una risposta d’Iro ad Antinoo. Di chi abbia ragione fo giudice il Pubblico.

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Dialogo

Ad Iro. — Chi lava il capo ad un certo animale, perde ranno e sapone, dice il proverbio. Per quel po’d’ingegnetto che tu hai in capo, e una certa civiltà di nascita, ti credi d’essere da più che ogni uomo nel mondo. Tu sai bene quanto ho fatto per te, e che tu non hai potuto far nulla per me. Almeno, essendo tu disutile sulla terra, m’avessi usato gratitudine, per li molti benefizi che t’ho fatti. Ma no. Tu vai dicendo male del fatto mio, e mi paghi di quella moneta con la quale tutti gli uomini beneficati pagano coloro da’quali hanno ricevuto benefizio. Non è già ch’io mi curi punto che tu abbia o non abbia gratitudine verso di me, imperciocchè questa non mi potrebbe fare nè bene nè male; ma voglio che tu sappia e intenda, che conosco qual tu sei e qual cuore hai nel corpo. Da qui in poi fa come ti pare e dì quello che tu vuoi, ch’io non me ne curerò nè punto nè poco, avendo intorno, per grazia del Cielo, altre persone di buon animo, le quali sono più di te meritevoli d’avere la mia stima e l’amicizia mia. Prego solo colui, il quale può tutto fare, che t’illumini la mente, e ti faccia conoscere il tuo torto, e quella vergogna che fai a te medesimo essendo la più ingrata creatura del mondo. — Antinoo. Ad Antinoo. — Non mi lagnerò punto del dispregio con cui mi scrivete. Rispetto in voi que’doni della fortuna, che vi fanno risplendere fra l’altre genti. Nè avrò punto a male, che mi chiamiate ingrato, finchè vi pare d’avermi fatti de’benefizii. Ma che direte voi, s’io intendo che sia affatto il contrario, e d’essere io quegli, che abbia beneficato voi? Io non ho avuto da voi altro che speranza vana un lungo tempo, e questa me l’avete fatta costare tante burle, berte o motteggiamenti, fatti e detti da voi, che da tutti della vostra famiglia io era guardato con ischerno. S’io ho ricevuta qualche piccola grazia da voi, me l’avete fatta con tanta boria, e con tali magnificenze di parole in presenza di tutti, che egli mi parea d’averne una coltellata. Col titolo di vostro amico e molto domestico vostro, e come dicevate voi, tutto di casa, io era forse meno considerato dell’ultimo staffiere che vi entrava, e mi venivano imposti da voi molti ufficii non convenevoli ad un onesto uomo; e s’io fingeva, o di non udire, o con qualche invenzione mi causava, mi facevate il benefizio, o di mostrarvi ingrognato, o di berteggiarmi. All’incontro, io ho dato del mio più a voi di quello che n’abbia tenuto per me medesimo. Vi dovete ricordare, quando per ischernire la mia mala fortuna, dicevate a tutti di me, che i miei poderi e terreni erano un oriuolo da sabbia e non altro; e parendovi d’aver parlato facetamente, smascellavate dalle risa. Ve lo concedo. Non ho altro che quel meschino oriuolo che voi dite. Fate ora voi il vostro conto, quante ore di quel benedetto oriuolo, cioè di tutta la mia facoltà, io abbia consegrate ad udire mille ciance, che nulla importava che uscissero all’aria; ad aggirarmi qua e colà per la città in compagnia vostra; e quel ch’è peggio a narrarvi semplicemente i fatti miei, stimolato dalla vostr’aria di bontà e sperando io di muovervi a tenerezza de’casi miei; che furono poi saputi da ciascheduno de’conoscenti vostri per vostro mezzo. L’oriuolo mio era quel benefizio ch’io potea farvi, e io l’ho impiegato più all’uso vostro che al mio; e quella che voi chiamate ingratitudine, e per la quale voi m’aggravate al presente con tanti rimproveri, non è altro che una voglia d’adoperare per me l’oriuolo mio, il quale ripreso da me, non minora punto la vostra buona fortuna. Addio. — Iro.