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Quelle: Calvino e il comico, hgg. L. Clerici /B. Falcetto, Mailand, Marcos y Marcos, 1994, S. 7–17.

Calvino e il «comico delle idee»

Fra gli aspetti più interessanti ma finora poco approfonditi dell’opera calviniana, merita particolare attenzione il suo rapporto, assai complesso, con l’opera di Flaubert. Se guardiamo al percorso della poetica di Calvino come viene documentato dai vari saggi di Una pietra sopra, questo rapporto è stato sempre caratterizzato da un atteggiamento che potremmo definire come un insieme di manifesta avversione e di segreto fascino. Per quanto riguarda le prese di posizione d’indole poetologica durante gli anni Cinquanta, risulta evidente che la manifesta avversione prevaleva largamente su un sentimento di fascino piuttosto esitante e dubbioso. Furono gli anni in cui il giovane Calvino, messo di fronte alla famosa formula di Gramsci (di Romain Rolland, di Nietzsche) «pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà», cercava di salvare a tutti i costi l’ottimismo della volontà. Si spiega così il suo entusiasmo, già allora un po’ forzato, per «i classici che [...] sono nell’arco che va da Defoe a Stendhal, un arco che abbraccia tutta la lucidità razionalista settecentesca» [1] , entusiasmo che trovava il suo logico complemento nel rifiuto altrettanto volontaristico di «tutta quella montagna di letteratura del negativo che ci sovrasta», di «quella letteratura di processi, di stranieri, di nausee, di terre desolate e di morti nel pomeriggio» [2] .
Da un lato, dunque, la «lucidità razionalista settecentesca», celebrata nella figura emblematica di Voltaire: «Nel Settecento, Voltaire, partendo da un totale pessimismo oggettivo, da una nozione di natura e di storia non illuminate dal raggio di alcuna provvidenza, aveva posto le basi d’un ottimismo soggettivo, fiducioso nelle sorti della battaglia ingaggiata dalla ragione umana» [3] . Dall’altro lato troviamo invece il «pessimismo delle cose» che, dopo Voltaire, «corrode sempre di più i margini di questo ottimismodella ragione», scoprendo «la sconfitta, la vanità della storia, l’impossibilità di comprendere la vita in uno schema razionale»: temi appunto che «saranno il motivo di fondo che serpeggia nella grande narrativa dalla metà dell’Ottocento in poi» [4] . Se il tipo ideale di ciò che si chiama «ottimismo soggettivo» o «ottimismo della ragione» viene individuato in Voltaire o Stendhal, il «pessimismo oggettivo» o «pessimismo delle cose» avrà il suo più alto rappresentante proprio in Flaubert. Parlando della letteratura realistica che «con Flaubert [...] tocca la sua punta massima di fedeltà ai dati dell’esperienza», Calvino osserva infatti come «il senso che ne risulta è quello della vanità del tutto», cioè la famosa e famigerata «éternelle misère de tout»:
Dopo aver accumulato minuziosi particolari e costruito un quadro di perfetta verità, Flaubert ci batte sopra le nocche e mostra che sotto c’è il vuoto, che tutto quel che succede non significa niente. La terribilità di quel grande romanzo che è L’éducation sentimentale consiste in questo: per centinaia e centinaia di pagine vedi scorrere la vita privata dei personaggi o quella pubblica della Francia, finché non senti disfarti tutto sotto le dita come cenere [5] .
Possiamo ora constatare che, visto in rapporto a questi concetti elaborati nei saggi Il midollo del leone e Natura e storia nel romanzo,già un testo quale Il barone rampante presenta un elemento di amara ironia, di un’ironia per così dire oggettiva. Concepito a livello di allegoria nella forma di un’esaltazione dell’ottimismo della volontà, a livello di storia il romanzo finisce come una seconda Education sentimentale in cui l’ultima parola spetta al «pessimismo delle cose» [6] . Dopo il fallimento della rivoluzione, incompiuta come nel romanzo di Flaubert, il racconto si muove nel solo senso di una linea discendente. Se Flaubert mostra che «sotto» («un quadro di perfetta verità») «c’è il vuoto», anche il «frastaglio di rami e foglie», teatro delle avventure di Cosimo, si rivela alla fine «un ricamo fatto sul nulla» [7] . E se nella conclusione (o non-conclusione) dell’Education sentimentale «senti disfarti tutto sotto le dita come cenere», lo stesso vale per il trentesimo capitolo del Barone rampante:«Grava sull’Europa l’ombra della Restaurazione; [...] gli ideali della giovinezza, i lumi, le speranze del nostro secolo decimottavo, tutto è cenere» [8] .
Si direbbe pertanto che, malgrado le migliori intenzioni di un «distacco storico» e di una «ostinazione nonostante tutto» [9] , anchela storia del Barone rampante sichiuda sulla triste conferma di un «mare dell’oggettività», conferma tutto sommato più vicina a Flaubert che a Voltaire. Anzi, secondo i termini dei primi saggi, la struttura diegetica che determina le avventure di Cosimo appare come l’esatto rovescio del Candide volterriano. Se il Candide partiva da un totale «pessimismo oggettivo» per scoprire alla fine la possibilità di un – seppure tenue – «ottimismo soggettivo», nel caso del Barone rampante ilpunto di partenza consiste in una allegoria dell’ottimismo della ragione che si dissolve man mano in una storia tutta rivolta alla conclusione flaubertiana di un pesante pessimismo delle cose.
La presenza dell’Education sentimentale rimane tuttavia nel Barone rampante una presenza per così dire sotterranea, in un certo senso estranea al programma poetologico della trilogia degli Antenati. Ben più marcata e probabilmente più consapevole appare invece la presenza flaubertiana nei testi dell’ultimo Calvino. Penso anzitutto al caso di Palomar,a un testo cioè in cui quel «pessimismo dell’intelligenza» scongiurato e combattuto nell’opera giovanile riesce a prendere apertamente (e tristemente) il sopravvento sull’«ottimismo della volontà» [10] .Se per il Calvino degli anni Cinquanta «l’impossibilità di comprendere la vita in uno schema razionale» fu «il motivo di fondo che serpeggia nella grande narrativa dalla metà dell’Ottocento in poi», questo motivo è infine divenuto esplicitamente calviniano, impregnando di sé la lunga serie delle disavventure intellettuali del signor Palomar. Solo che il registro in cui l’esperienza della «sconfitta» e della «vanità della storia» viene formulata non è più quello della «grande narrativa» ottocentesca, ma il registro, decisamente marginale nell’Ottocento, dell’ultimo Flaubert di Bouvard et Pécuchet. Ne consegue che l’estremo disincanto di Palomar,piuttosto di cercare un’intonazione tragica, si limita consapevolmente al tono medio di un amaro «comique d’idées».
Usando il concetto di «comico delle idee», mi riferisco a una espressione della corrispondenza di Flaubert in cui l’autore di Bouvard et Pécuchet intende sintetizzare la novità e l’audacia della sua «enciclopedia critica farsesca» («encyclopédie critique en farce»). Flaubert non lascia nessun dubbio sull’ambizione filosofica investita in quell’enciclopedia, parla tra l’altro di un «ouvrage de grande envergure» e ammette: «J’ai la prétention de faire une revue de toutes les idées modernes» [11] .Tale rassegna di tutte le idee moderne avrà però la pretesa di essere comica («aura la prétention d’être comique») [12] ,proponendosi uno scopo che dovrebbe produrre, secondo Flaubert, un effetto estetico del tutto nuovo:
Je crois qu’on n’a pas encore tenté le comique d’idées. Il est possible que je m’y noie, mais si je m’en tire, le globe terrestre ne sera pas digne de me porter [13] .
Ora conviene chiederci in che cosa consista quella comicità da cui Flaubert si promette una così vasta risonanza. Evidentemente bisogna considerare in primo luogo la struttura episodica e seriale delle disavventure intellettuali vissute dai due protagonisti flaubertiani. Si tratta, per quanto riguarda il comico del romanzo, di un apriori fondamentale, perché solo la serialità conferisce all’esperienza immancabilmente negativa di Bouvard e Pécuchet quel carattere innocuo che la distingue idealmente da un’esperienza tragica. Se invece di una serie di disavventure incontrassimo una disavventura che formasse la figura di un solo destino, non sapremmo più ridere: ci troveremmo allora di fronte non al caso di Bouvard e di Pécuchet, bensì a quello di Frédéric Moreau o a quello di Emma Bovary [14] .È dunque necessaria la moltiplicazione seriale per rendere comica l’esperienza di un fallimento, perché la serialità ci garantisce che dopo ogni crollo vi saranno un nuovo inizio e una nuova partenza: nessuna catastrofe porterà l’apocalisse. Vediamo così (se mi si permette una parentesi) come la conclusione di Palomar – quella frase «In quel momento muore» tanto laconica quanto enigmatica – indichi un punto di rottura doppiamente dissonante. Essa nega e annienta non solo l’esistenza del protagonista, ma allo stesso tempo l’attesa del lettore, creata da quella garanzia di comicità che è la struttura seriale di un libro (oppure di un film slapstick)
Il ripetersi delle disavventure ha dunque come conseguenza che di Bouvard e di Pécuchet possiamo ridere e rallegrarci allo stesso tempo: ridiamo della loro ingenuità e ci rallegriamo del loro ottimismo che conferisce ai due protagonisti una forza d’animo tale da sopportare tutte le disillusioni. Si tratta della stessa ambivalenza che da sempre ha caratterizzato la reazione dei lettori alle disavventure di Don Chisciotte. C’è il riso che irride l’incapacità del «Caballero de la triste figura» di accorgersi della contingenza del reale, ma c’è insieme la gioia suscitata da un essere intrepido che non si lascia mai scoraggiare. E ricordiamoci che lo stesso Calvino, nel 1968, parlò del suo Barone rampante come di «una specie di Don Chisciotte della ‹filosofia dei lumi›» [15] , un Don Chisciotte dunque più ammirato che canzonato.
Un altro aspetto della comicità di Bouvard et Pécuchet risiede in quel che vorrei chiamare con Karlheinz Stierle «komische Fremdbestimmtheit» [16] .Questo concetto difficilmente traducibile si riferisce alla situazione in cui qualcuno crede di agire, mentre in realtà è lui ad essere agito, di qualcuno cioè che si pone come soggetto per venire poi comicamente trasformato in oggetto. Tale trasformazione di un’autonomia fittizia in un’eteronomia reale determina tutta la carriera dei due enciclopedisti flaubertiani. Nel momento in cui Bouvard e Pécuchet, approfittando di un’improvvisa eredità, imboccano la carriera delle scienze – così naturali come umane – e della filosofia, essi sono convinti di penetrare nel regno dell’autonomia e della libertà: «Nous ferons tout ce qui, nous plaira! nous laisserons pousser notre barbe» [17] . La realtà della ricerca intrapresa da Bouvard e Pécuchet con tanta speranza si rivela però totalmente diversa da come se l’erano aspettata. Nel corso dell’esperienza scientifica e intellettuale vien meno ogni certezza, e l’unica cosa di cui alla fine possono essere sicuri sono le loro limitazioni, anzi il carattere illusorio e fallace della loro autonomia.
Il disincanto che riserva l’esistenza da intellettuali proviene essenzialmente da due scoperte strettamente legate fra loro. La prima scoperta riguarda il potere e lo spessore dei discorsi che Bouvard e Pécuchet devono affrontare nel loro contatto col mondo delle scienze e delle lettere. Essi si ripromettono di raggiungere la verità, ma ciò che offrono i discorsi delle varie discipline sono – per parlare con Foucault – solo dei «jeux de vérité», dei «giochi di verità» ogni volta parziali e contraddittori. Da qui scaturisce la seconda scoperta, che concerne l’impotenza del mondo dei discorsi di fronte alla complessità del mondo reale. Tale scoperta è provocata da una serie di eventi e di situazioni per così dire concatenati. Questa serie funziona, con iterazioni ogni volta un po’ diverse, pressapoco nel modo seguente. Bouvard e Pécuchet cercano (e già mi servo significativamente di una formula calviniana) di «comprendere la vita di uno schema razionale» mediante le strutture discorsive di una disciplina scientifica, per esempio l’anatomia. I fenomeni però sfuggono o si ribellano all’ordine imposto loro dal discorso «anatomico», cosicché Bouvard e Pécuchet si trovano nella necessità di passare a un’altra disciplina che potrebbe essere la fisiologia, poi a sua volta insoddisfacente e parziale, e così via (quasi) all’infinito [18] .
Questa serie di esperimenti e di esperienze in cui il soggetto conoscitivo appare inevitabilmente condannato alla frustrazione sviluppa una comicità di tipo particolare. Si tratta del comico prodotto dal confronto antagonistico fra l’idea, il discorso, il progetto conoscitivo del soggetto, da una parte, e lo spessore, l’opacità e l’imprevedibilità degli oggetti sfuggenti all’ordine della conoscenza, dall’altra. È una forma di comico analizzato in particolare da un allievo piuttosto anti-hegeliano di Hegel, Friedrich Theodor Vischer, non nella sua Estetica (1846–1857), ma nello strano romanzo autobiografico Auch Einer del 1879, in cui si discute di una teoria semiseria della «Tücke des Objekts», della «malizia dell’oggetto». Difatti l’oggetto viene visto da Vischer in un’eterna lotta colla volontà dell’uomo: «O, das Objekt lauert [...]. Von Tagesanbruch bis in die späte Nacht, so lang irgend ein Mensch um den Weg ist, denkt das Objekt auf Unarten, auf Tücke» («L’oggetto sta in agguato [...]. Dall’alba alla tarda notte; finché un essere umano si trovi nei dintorni, l’oggetto sta meditando la beffa, la malizia») [19] .Il concetto di «malizia dell’oggetto» comprende dunque tutto quello che si sottrae alla volontà umana, quegli elementi sempre casuali e contingenti che insidiano ogni pretesa di un ordine ideale, sia esso conoscitivo, morale o letterario. In un certo senso, si potrebbe sostenere che il concetto vischeriano formi il logico complemento del concetto flaubertiano di un «comique d’idées», perché il «comico delle idee» è reso evidente solo dalla resistenza che le idee e i discorsi possono incontrare nella «malizia degli oggetti». E forse non sarà un puro caso se i romanzi di Vischer e di Flaubert, pure così diversi nella loro struttura narrativa, sono stati scritti e pubblicati in quasi esatta contemporaneità (negli anni Settanta dell’Ottocento).
Se torniamo, dopo questo excursus ottocentesco, ai testi dell’ultimo Calvino, ci accorgiamo subito che Palomar partecipa tanto al «comico delle idee» quanto a quell’aspetto strettamente collegato e complementare che è la «malizia dell’oggetto». Già il primo episodio, Lettura di un’onda,dimostra infatti che la volontà conoscitiva del signor Palomar non è molto diversa da quella dei signori Bouvard e Pécuchet. C’è sempre, come negli anni Cinquanta all’epoca dei primi saggi, un elemento di «ottimismo sogettivo» che vorrebbe individuare un senso della storia e «comprendere la vita in uno schema razionale». Se Palomar si dedica con tanto accanimento all’operazione visiva di «guardare un’onda», lo fa perché sa che la «lettura di un’onda» è in realtà una metonimia, e che quella lettura potrebbe trasformarsi nella «chiave per padroneggiare la complessità del mondo» (p. 8) [20] .Si tratta dunque, come nel caso di Bouvard et Pécuchet,di un progetto in cui il soggetto persegue una conoscenza che è allo stesso tempo una padronanza, «padronanza sulle proprie inclinazioni e azioni» (p. 121) come sulla «complessità del mondo». Anche qui il proposito di conoscere e di padroneggiare si confronta però con la malizia dell’oggetto (per parlare con Vischer) e «si trova» (secondo Calvino) «faccia a faccia con la realtà mal padroneggiabile» (p. 113), in una situazione di non corrispondenza fra realtà e modello che – data la sua ricca eredità letteraria – viene il più delle volte giudicata con ironico distacco: «Il modello», dice Calvino per esempio, «è per definizione quello in cui non c’è niente da cambiare, quello che funziona alla perfezione; mentre la realtà vediamo bene che non funziona e che si spappola da tutte le parti» (p. 111).
Forse è proprio la consapevolezza del peso di un’abbondante tradizione letteraria che ha convinto Calvino a ricorrere, per l’estremo messaggio di un pessimismo dell’intelligenza, all’intonazione di una medietas comica, aliena da qualsiasi enfasi. In ogni modo, la struttura di Palomar siavvicina a quella di Bouvard et Pécuchet nella serialità degli episodi che sono quasi sempre disavventure di una volontà conoscitiva frustrata. Per mantenere il carattere seriale di tali disavventure, il signor Palomar, sebbene lontano dall’ingenuità dei protagonisti flaubertiani, deve essere provvisto di una certa dose di ottimismo. Il registro in ultima istanza comico degli episodi richiede infatti che, dopo ogni crollo, Palomar ricominci da capo, seppure in maniera sempre più modesta e ridotta. Si spiega così come Palomar, per quanto di indole cauta e riflessiva, disponga di una notevole prontezza a prendere delle decisioni, sempre alla ricerca di una lucida razionalità di osservazione e di comportamento. Anzi, la forza di carattere che risiede nella capacità di giudicare e di agire con decisione forma un Leitmotiv del suo comportamento. «Volendo evitare le sensazioni vaghe, egli si prefigge per ogni suo atto un oggetto limitato e preciso» (p. 5), perché – come sostiene un altro capitolo – «il signor Palomar ha deciso di limitarsi a guardare, a fissare nei minimi dettagli il poco che riesce a vedere» (p. 63). All’inizio del capitolo Il mondo guarda il mondo gli atti di decisione addirittura si ripetono: «il signor Palomar ha deciso che la sua principale attività sarà guardare le cose dal di fuori», e poi: «Il signor Palomar ha deciso che d’ora in avanti raddoppierà la sua attenzione» (p. 115). E infine, l’ultimo capitolo comincia con un annuncio davvero sorprendente: «Il signor Palomar decide che d’ora in poi farà come se fosse morto, per vedere come va il mondo senza di lui» (p. 123).
Certo, si tratta il più delle volte di decisioni che mirano a un atto di limitazione o di riduzione, ma altrettanto sicuro è che anche quelle limitazioni e riduzioni sono in fondo delle strategie intese a conservare la padronanza del soggetto sulla «malizia degli oggetti», cioè su una «realtà mal padroneggiabile». Se siamo giunti al grado zero dellapretesa soggettiva e dell’ottimismo della volontà, la stessa rinuncia si propone ancora come un progetto di conoscenza che guarda per esempio l’oggetto «limitato e preciso» di un’onda allo scopo di poter poi «estendere questa conoscenza all’intero universo» (p. 10) [21] . Ora, il «comico delle idee» peculiare di Palomar consiste nel fatto che anche in quell’ambito prudentemente circoscritto l’intento conoscitivo rimane condannato all’insuccesso. O detto in altre parole: il signor Palomar ha imparato dalle vicende di Bouvard e Pécuchet a muoversi nel mondo del sapere con un’estrema prudenza fenomenologica che ormai diffida dei discorsi e si rivolge a una politica dei piccoli passi in materia gnoseologica. Ma nemmeno l’estrema prudenza saprà salvarlo da un’esperienza di disillusione sotto tanti aspetti identica a quella degli ingenui enciclopedisti flaubertiani.
Come nel romanzo di Flaubert, le delusioni continuamente rinnovate restano essenzialmente comiche perché risultano in un certo senso innocue, non minacciando mai l’integrità fisica dell’eroe intellettuale. Ciò che viene annientato dalle disavventure di Palomar è invece l’orgoglio del soggetto come principio e radice di ogni conoscenza. Quell’umiliazione di un individuo fiero della sua (pur ristrettissima) competenza di conoscere, di giudicare e di decidere, può manifestarsi in episodi da cui risulta che, contrariamente alla doxa kantiana, i suoi atti di conoscenza non sono premesse indispensabili all’esistenza degli oggetti. Si tratta di un’esperienza così cruciale che essa viene ripetuta in due episodi con conclusioni quasi identiche. In entrambi i casi, Palomar deve convincersi che un fenomeno visivo non ha bisogno della sua percezione: rassicurato ma insieme annullato e del tutto insignificante, è libero di «tornare a casa». Così finisce per esempio il capitolo Luna di pomeriggio,nel momento in cui la pallida luna di pomeriggio appena visibile si trasforma nella splendida luna piena di una notte d’inverno:
A questo punto, assicuratosi che la luna non ha più bisogno di lui, il signor Palomar torna a casa (p. 37).
Alla stessa conclusione arriva il capitolo La spada del sole,che presenta Palomar mentre nuota e osserva il riflesso a forma di spada che il tramonto del sole produce sulla superficie del mare:
Ora tutte le tavole del surf sono state tirate a riva, e anche l’ultimo bagnante infreddolito – di nome Palomar – esce dall’acqua. Si è convinto che la spada esisterà anche senza di lui: finalmente s’asciuga con un telo di spugna e torna a casa (p. 20).
L’esperienza di umiliazione comica diventa ancora più clamorosa quando il soggetto dell’atto di conoscenza non solo si convince di essere insignificante, ma viene addirittura trasformato da soggetto in un oggetto di osservazione. Qui il meccanismo della comicità si rende immediatamente evidente nella tecnica di un paradossale rovesciamento. Prendiamo come esempio il signor Palomar che fa «la coda in un negozio di formaggi, a Parigi» (p. 73). In questo negozio-museo che «custodisce l’eredità d’un sapere accumulato da una civiltà attraverso tutta la sua storia e geografia», la volontà classificatoria, peculiare di Palomar, viene provocata così intensamente che, di fronte alla vastità dell’assortimento, il nostro osservatore rischia di perdere ogni controllo di sé. Nell’estremo sforzo di padroneggiare quella «complessità del mondo» che è il «museo dei formaggi» l’unico obiettivo raggiunto da Palomar pare che sia la perdita della «padronanza sulle proprie inclinazioni e azioni» (p. 121). E così l’osservatore che si confonde davanti alla complessità dell’osservato diventa lui stesso spettacolo per l’osservazione degli altri:
nella fila dietro di lui tutti stanno osservando il suo incongruo comportamento e scuotono il capo con l’aria tra ironica e spazientita con cui gli abitanti delle grandi città considerano il numero sempre crescente dei deboli di mente in giro per le strade (p. 76).
Un destino quasi uguale è riservato all’avventura della «contemplazione delle stelle», indubbiamente fra le più comiche del libro perché essa già dall’inizio mostra Palomar alle prese colla «malizia degli oggetti». Così, per la sua contemplazione, Palomar parte da una situazione singolarmente scomoda fra la cupola del cielo e la mappa astronomica:
l’esperienza del cielo che interessa a lui è quella a occhio nudo, come gli antichi navigatori e i pastori erranti. Occhio nudo per lui che è miope significa occhiali; e siccome per leggere la mappa gli occhiali deve toglierseli, le operazioni si complicano con questo alzare e abbassare degli occhiali sulla fronte e comportano l’attesa di alcuni secondi prima che il suo cristallino rimetta a fuoco le stelle vere o quelle scritte (p. 45).
Alla precarietà del posto di osservazione si aggiunga la precarietà di un sapere «instabile e contraddittorio» che, sfaccettato nei suoi vari discorsi, rimane per Palomar necessariamente frammentario. Alla fine, esso si rivela proprio come l’antitesi e la negazione di quell’«esatta geometria degli spazi siderei, cui tante volte il signor Palomar ha sentito il bisogno di rivolgersi, per staccarsi dalla Terra, luogo delle complicazioni superflue e delle approssimazioni confuse» (p. 47). In realtà, la promessa di una contemplazione serena finisce per Palomar in una ricerca senza speranza, disorientata e innervosita:
Della conoscenza mitica degli astri egli capta solo qualche stanco barlume; della conoscenza scientifica, gli echi divulgati dai giornali; di ciò che sa diffida; ciò che ignora tiene il suo animo sospeso. Soverchiato, insicuro, s’innervosisce sulle mappe celesti come su orari ferroviari scartabellati in cerca d’una coincidenza (p. 48).
E così si produce di nuovo – come una volta l’effetto del beffatore beffato nel fabliau e nella novella farsesca – la situazione tristemente comica dell’osservatore osservato, cioè del soggetto della conoscenza reso oggetto di una curiosità divertita che sorprende in lui le gesticolazioni disarticolate dei «deboli di mente»:
Delle ombre silenziose si stanno muovendo sulla sabbia; una coppia d’innamorati si stacca dalla duna, un pescatore notturno, un doganiere, un barcaiolo. Il signor Palomar sente un sussurro. Si guarda intorno: a pochi passi da lui s’è formata una piccola folla che sta sorvegliando le sue mosse come le convulsioni d’un demente (p. 49).
1 Italo Calvino, Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Torino, Einaudi, 1980, p. 15.
2 Italo Calvino, ibidem, p. 17.
3 Italo Calvino, ibidem, p. 25.
4 Italo Calvino, ibidem.
5 Italo Calvino ibidem, p. 26.
6 Cfr. Ulrich Schulz-Buschhaus, Calvinos politischer Roman vom Baron auf den Bäumen, in Romanische Forschungen, 90 (1978), pp. 17–34, e U. Schulz-Buschhaus, Italo Calvino und die Poetik des «Barone rampante» in Italienisch, 20 (1988), pp. 39–55.
7 Italo Calvino, Il barone rampante,Torino, Einaudi, 197014, p. 247.
8 Italo Calvino, ibidem, p. 243.
9 Italo Calvino, Una pietra sopra cit., p. 38.
10 Cfr. Vittorio Spinazzola, L’io diviso di Italo Calvino,in Belfagor, 42(1987), pp. 509–531, in particolare pp. 530–531.
11 Gustave Flaubert, Correspondance, vol.8, Paris, Conard, 1933, p. 336 (16 dicembre 1879).
12 Gustave Flaubert, ibidem, vol.6, p. 450 (25 novembre 1872).
13 Gustave Flaubert, ibidem, vol. 8, p. 26 (aprile 1877).
14 Cfr. Manfred Hardt, Flauberts Spätwerk. Untersuchungen zu «Bouvard et Pécuchet», Frankfurt a. M., Klostermann, 1970, in particolare pp. 37–39.
15 Italo Calvino, Una pietra sopra cit., p. 189.
16 Cfr. Karlheinz Stierle, Text als Handlung, München, Fink, 1975, pp. 58–65.
17 Gustave Flaubert, Bouvard et Pécuchet,Paris, Gallimard, 1979, p. 66.
18 Cfr. Ulrich Schulz-Buschhaus, Der historische Ort von Flauberts Spätwerk, in Zeitschrift für französische Sprache und Literatur, 87 (1977), pp. 193–211.
19 Friedrich Theodor Vischer, Auch Einer. Eine Reisebekanntschaft, Stuttgart-Leipzig, Deutsche Verlags-Anstalt, 19877, vol. 1, p. 32.
20 Le citazioni di Palomar provengono dall’edizione: Palomar,Torino, Einaudi, 1983.
21 Cfr. Mario Barenghi, Italo Calvino e i sentieri che s’interrompono, in Quaderni Piacentini, 15 (1984), pp. 127–150, in particolare pp. 143–144.
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