Sugestão de citação: Luca Magnanima (Ed.): "Saggio XII.", em: Osservatore Toscano, Vol.1\12 (1783), S. 142-150, etidado em: Ertler, Klaus-Dieter / Fuchs, Alexandra (Ed.): Os "Spectators" no contexto internacional. Edição Digital, Graz 2011- . hdl.handle.net/11471/513.20.3704 [consultado em: ].


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Saggio XII.

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Stato presente della Lingua toscana

Tutte le lingue variano di continuo. Ora si smettono alcune voci che dianzi erano in bocca di tutti; ora ne nascono delle nuove che non si conoscevano, ed ora si dà una nuova vita a quelle che erano da gran tempo dismesse, e come morte per sempre. Questa è una vicenda costante delle nostre voci, e delle cose nostre. Ognuno la vede, la sente, e se ne affligge; perché generalmente suol tendere al peggio. Il diletto della novità aiuta anche sì fatta vicenda.

Tutto questo si può applicare alla nostra Lingua toscana in questo secolo decimottavo, la quale va quasimente a perdersi. Ognuno intende che io parlo dell’ottima lingua, di quella cioè che si conserva negli scritti di tanti eccellentissimi ingegni che l’amarono, la coltivarono per genio, e la tramandarono per gloria, sempre pura ed eletta, a noi che siamo lor discendenti. Ognuno, dico, l’intende; poichè la lingua del popolo è quasi sempre la stessa, ed egli è forse il più tenace de’modi antichi di favellare, e delle loro proprietà. Quello che è da compiangersi è questo che ella non si coltiva più punto, o per dire anche me-[143]glio, la lingua de’nostri padri, de’nostri più moderni scrittori, che su quelli studiarono, più non si fa. Ov’è la lingua de’Villani, de’Boccacci, de’Passavanti? Ove sono le scritture del Redi, e de’Saggi del Cimento? Si leggano le opere che si stampano, non dirò in Italia, ma nella nostra Toscana stessa, e si vedrà se la nostra lingua ha più il suo color naturale, le sue maniere schiette d’un tempo. Ora si corre dietro a quel che è nuovo, e tutto è infetto di un parlare strano, e di modi che non son nostri. In vece di servirsi di voci nate presso di noi, si va in cerca di quelle che o sono d’altrui, o si sono create senz’alcuna necessità. Ov’è, per esempio, la lingua della nostra agricoltura? In somma se noi osserviamo la massa sola delle parole, vedremo che ci siamo tanto allontanati dalla sorgente, che più non si ravvisa. Se il Salviati, cavaliere, e maestro di nostra favella, non era discorde da quelli che la prosa del Boccaccio avean per illustre, per bella, ma non reputavan la lingua cosi pura come quella del Villani, che direbbe a’nostri giorni che la tela delle parole, e dell’espressioni non è più nostra? Che direbbe egli che più non si fa conto di quella lingua purissima che si conserva negli scritti de’suoi fondatori, e che per una certa burbanza senza principio, più non si leggono? Egli direbbe che si è smarrita la diritta via, e che per rimettersi in essa bisogna ritornare a’primi fonti. Così pensiamo anche noi. Se non ci poniamo a studia-[144]re di nuovo sopra di essi andremo peggiorando a segno che si scriverà poi in un’altra lingua. A questi è pur di mestiere il ricorrere. Son eglino i primi e gli ottimi. La purità, la proprietà, la natura, tutto è in loro. Non bisogna farsi a credere di potersi formare un’altra favella, che sia migliore della prima; che questo sarebbe un esser fuor di se; bisogna giorno, e notte averli sotto gli occhi, e con discrezione sceverare da loro quel che ci torna in acconcio. Quai tesori di pura lingua! Qual sapore! Qual dolcezza naturale!

Questi Scrittori sono quasi tutti fiorentini, o da’fiorentini anno appreso; ed il volgar fiorentino avrà ormai il primato su tutte le lingue d’Italia. Nè importa gran fatto che molti italiani non possano soffrirlo, ed ogni dì tentino di metterlo in derisione; poichè e la derisione nulla prova, e chi vuol aspirare al raro vanto d’egregio scrittore è pur d’uopo che vada studiando le scritture fiorentine anche le più viete; che tutte menan oro. S’intende sempre del puro sermone. Fra quelli che son mal disposti contro la lingua fiorentina, o toscana pel suo primato, si può noverare un Autor moderno, il quale ha fatto un libro che egli chiama Bibliopèa, o sia l’arte di compor libri. Dice che è molto da considerarsi l’opinione di chi la chiamò non già volgare, nè italiana, nè fiorentina, ma curiale e cortigiana. Loda un certo Vincenzo Calmeta, autore oscurissimo, che scrisse della volgar poesia, e chiamò cortigiana la lingua poetica, [145] con rendere anche ragione di questa denominazione. Costui esalta sulle altre lingue d’Italia la fiorentina, esorta il poeta ad impararla, ed a studiare Dante ed il Petrarca. Dopo di ciò lo persuade, non so se da burla, o da vero, a portarsi in corte di Roma, dove potrà affinare, e perfezionare la lingua de’fiorentini, e quella di questi due poeti; e ciò perchè in una corte che abbia principe si parla più nobilmente che non fanno quelli della provincia, del contado, ed il popolo stesso. Infine la chiama egli cortigiana; perchè dovea formarsi, o perfezionarsi alla corte romana.

Queste opinioni sono approvate dall’Autore: perchè si fa egli a dire che il Calmeta avea ben ragione di distinguere il linguaggio de’libri da quello del volgo, e di asscrire che il comune, o il volgare dovea pulirsi, ed affinarsi in una corte composta delle persone le più gentili d’Italia, come di Toscana, di Roma, della Marca, e del Regno di Napoli. Crede che da ciò sia venuto il proverbio di lingua toscana in bocca romana, il quale a parer suo vuol dire che si pronuncino voci toscane con accento romano, e che il corpo del linguaggio fiorentino, o toscano si debba perfezionare colla scelta, e giudizio de’cortigiani di Roma, i quali usavano maggior discernimento di parole e più pienezza di pronunzia, non mozzando le parole, come si fa da’Fiorentini, vale a dire, come direbbe un toscano, che usavano più scelta nelle voci, aveano una pronunzia più spiccata, nè tron-[146]cavano le parole come è proprietà fiorentina. Dice in ultimo che i nostri primi scrittori formarono il loro stile più con praticare le corti, e i letterati, che col frequentare le logge ed i mercati di Firenze. E quì nomina Dante, il Boccaccio, ed il Petrarca per confermare la sua opinione, assicurando che Dante scrisse in lingua di corte, e che se il suo stile sente del duro, questo proviene dall’avere usate maniere troppo volgari; che il Boccaccio sebbene si protestasse di scrivere in volgar fiorentino, ed in istile umilissimo, e rimesso, nondimeno si dee pur credere che lo raffinasse, lo correggesse, e perfezionasse, con osservare quali fossero le voci intese per tutta l’Italia. Assicura poi che il Petrarca non fu mai fiorentino, e che con tutto questo il suo stile è il più bello, e il più leggiadro di quanti mai ne siano stati al mondo; e se alcuno oppongono che i suoi parenti erano fiorentini, egli risponde che niuno potrà credere aver lui usata la lingua di essi, e non piuttosto quella de’prelati, de’cortigiani, con cui visse, e de’precedenti scrittori.

Noi risponderemo prima al Calmeta che lo studiare Dante, e il Petrarca è stato insegnato in tutti i tempi da coloro che an sapore dell’ottimo; ma che l’esortare, come fa egli, a portarsi in corte di Roma per affinare la lingua appresa da’Fiorentini, e da que’due gran luminari, è quel che ognuno crederà uno scherzo. Dunque, si potrebbe dire, non son essi modelli di lingua? I lor [147] modi di parlare possono affinarsi di più, e questo non può sperarsi che dall’usare nelle corti? Noi pensiam tuttavia che si parlerà nelle corti il più casto linguaggio, se si sarà appreso dal popolo, se si sarà corretto collo studio de’nostri maestri, altrimenti si parlerà assai male anche nelle corti. Per sapere le cose bisogna averle studiate a rigore. Nè giova il distinguere la lingua da usarsi nelle scritture da quella che parlasi volgarmente; poichè sebbene noi pure accordiamo la distinzione, con tutto questo non sappiamo intendere come si potesse pulire, e raffinare in una corte composta di toscani, romagnoli, marchigiani, napoletani, e d’altri italiani, sebbene ingegnosi e costumati. Quale strano linguaggio non ne verrebbe! Se si fosse detto in una corte composta del fiore de’toscani si sarebbe detto assai meglio.

Non sappiamo poi se vi sia più stano proverbio del già detto; sappiamo bene che la prima lingua s’impara dalla balia, ed ognuno mantiene per sempre le forme prime di dire che imparò; che per pulire la lingua del popolo sarebbe vano pensiero un collegio delle persone più culte d’Italia; che la cultura giova assai, e nulla giova ancora, quando non si è studiata la lingua purissima. Non ci sembra nè manco vero che i nostri primi Scrittori formassero il loro stile usando con uomini di corte, e con letterati piuttosto che con frequentare i mercati di Firenze. Poichè per quel che appartiene alla lingua e alle sue proprietà, è pur [148] forza imparale dalle voce del popolo, e pulirla su’libri di que’fortunati che sono i maestri. Sicchè se Dante adottò molti vocaboli da altre città d’Italia, non viene che la tessitura, ed il colore non sia toscano. Le sue voci, le sue maniere son quelle de’suoi tempi, nè son esse che fanno alcuna volta duro il suo stile; e se son volgari, segno che entravano in una Commedia, ove dovean essere tutti gli stili. Il Boccaccio si protesta, è vero, di scrivere novelle in istile umilissimo fiorentino; ma l’aver fatta scelta, com’ei fece, delle voci, non vuol dire che non fossero fiorentine. Il Petrarca infine se non fu di patria fiorentino, usò assai co’fiorentini, e scelse quelle voci che più si confacevano alla natura de’suoi concetti. Mi si mostri quali altri libri può avere studiati che di fiorentini non fossero, ed allora penseremo altrimenti. E chi crederà mai che il suo stile sì puro, e sì dolce l’apprendesse da persone che son use alla servitù, e à non aver mai un pensiero, un’espressione che sia propria?

Noi dunque che abbiamo gli occhi rivolti a’Padri di nostra lingua, a quelli seguire esortiamo coloro che vogliono mostrare qualche giudicio. Bisogna tornare indietro, e sopra di essi fare nostri studi. Dante, il Petrarca, il Boccaccio sono le tre colonne del favellare nostro. In tutti e tre noi troveremo sempre que’tesori che non si credeano per avventura, e che pur vi saranno finchè avrà vita la nostra lingua. Quelli che non li cu-[149]rano, o non gli anno in quella riverenza, in che si debbono avere, saranno puniti abbastanza dal vedersi morire appena nate le loro scritture. Per iscrivere adunque all’età che verranno, bisogna farlo con quelle voci, e con que’modi che a’buoni tempi fiorivano; e se la necessità costringe, dobbiamo ammettere nuove parole sì bene, ma con una certa discrezione, come fecoro il Salvini, ed il Redi. Del resto si debbono pur lasciar dire coloro che sentono altrimenti. Dispregino, quanto possono il più, il parlar fiorentino; pensino che si può scrivere nella favella più dolce senza parlare de’nostri Padri, che noi non ne siamo nulla inquieti. Vogliamo però d’una cosa avvertire i Giovani, che la favella fiorentina d’oggi giorno, e quella de’presenti scrittori è così peggiorata da far compassione. Il medesimo disse il Salviati del suo tempo. Ecco le sue parole.Nível 3► Citação/Divisa► Diciamo che il favellare che oggi s’usa in Firenze, e quel che oggi nelle scritture de’più lodati s’adopera comunemente, è men significante, men breve, men chiaro, men bello, men vago, men dolce, e men puro che quel non era che si parlava, e si scriveva dal medesimo popolo nel tempo del Boccaccio (a)1 . ◀Citação/Divisa ◀Nível 3 Bisogna dunque opporsi a questo peggioramento; nè con altro si può fare che con ridursi verso i principj, vale a dire con ritornare a’libri di coloro che sebbene assai volte non letterati, parlavano, e scri-[150]veano con certa grazia che incanto anche oggi coloro che anno il gusto della semplicità, e del naturale. Non serve che le parole siano del buon secolo; conviene di più che abbiano un tessuto semplice, chiaro, breve, e nulla ridondante. Bisogna che abbiano quelle grazie naturali, quel sapore che sono del nostro paese, e che anticamente eran proprie degli scrittori romani. Or tutto questo non è così facile ad acquistarsi dagli altri italiani; e perciò anno ragione di mettere in gioco il Vocabolario, la fiorentinità, e tutto quel che lor piace. Scrivano dunque a lor talento nella comune lingua d’Italia, che niun lo contrasta; ma si ricordino che noi gli aspettiamo al tribunale della posterità. ◀Nível 2 ◀Nível 1

1(a) Lib. r. Cap. 3