Zitiervorschlag: Gasparo Gozzi (Hrsg.): "Numero XXXV", in: Gli Osservatori veneti, Vol.1\35 (1761-07-07), S. 576-581, ediert in: Ertler, Klaus-Dieter / Fuchs, Alexandra (Hrsg.): Die "Spectators" im internationalen Kontext. Digitale Edition, Graz 2011- . hdl.handle.net/11471/513.20.3596 [aufgerufen am: ].


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No XXXV.

A dì 7 luglio 1762.

Ebene 2► Quando un coltello, un’ascia, una scure, o stromento altro da tagliare, avrà tanto fatto l’ufficio suo, che il taglio ne resti ammaccato, l’artefice lo fa arrotare per valersene all’opera sua con l’utilità di prima. Non altrimenti pare a me che sia dell’ingegno dell’uomo. Quando egli avrà per lungo tempo servito a colui che scrive ora d’una cosa, ora d’un’altra, se non è rinnovato il filo suo, in iscambio di far quanto dee con prontezza e bene, fa mala riuscita; picchia, ripicchia, gli è quel medesimo, la fattura non va avanti, o dimostra lo stento e la fatica. Io ho ai passati giorni, anzi mesi o vogliam dire anni, tanto tempestato, flagellato e martellato sopra mille argomenti con questo qual-[577]sivoglia mio ingegno, che mi sono abbattuto talvolta ad abbisognare di rifargli il taglio e la punta. L’arrotino mio, a cui ricorro perchè me lo rinnovi, è spesso qualche antico autore, perchè quanto a’moderni, egli è come chi frega il coltello ad un altro per affilarlo, che gli riesce male o per poco tempo. Ma fra tutti quelli a’quali io ho più fra gli antichi affezione, gli è Luciano . . . Oh! voi ridete, perchè vi parea quasi d’averla indovinata. Egli è Luciano . . . Oh! abbiam noi però di tempo in tempo ad udir intuonare questa musica di Luciano? Egli è Luciano, lasciatemi dire, il quale con quella sua vivacità e varietà d’invenzioni, con quel suo sale di dettatura, con quel suo pepe delle facezie, mi risveglia e mi dà poi animo a proseguire. Di grazia, non v’ingrognate. Che? per cinque, sei o una dozzina ancora, a cui non piaccia il sentir a ritoccare questa materia, io non voglio far torto a molto maggior numero di persone che me la domandano; e voi vedete pure ch’io uso tanta parsimonia, ch’egli si conosce bene quanto sia il rispetto che ho anche di voi. Metatextualität► A questi giorni adunque squadernando mezzo svogliato per le passate fatiche quell’a me dilettissimo libro, m’invogliai di traportare nella nostra lingua quattro lettere scritte al tempo delle feste Saturnali, ch’è quanto chi dicesse del carnovale, che in que’tempi durava sette giorni, cioè dai sedici fino ai ventitrè di dicembre. La prima lettera è de’poveruomini scritta a Saturno, nume presidente ad esse feste, i quali si querelano a lui de’ricchi; la seconda è la risposta di Saturno ai poveri; la terza di lui a’ricchi, e la quarta la risposta di questi. Ho eseguita la mia intenzione, pubblico le lettere, e prego chi legge ad iscusarmi, se per usare qualche diligenza ho mancato di dare alla luce il consueto foglio. ◀Metatextualität

Ebene 3► Brief/Leserbrief►

Lettera prima.

Io a Saturno, salute.

Veramente ti feci avvisato tempo fa del caso in cui mi trovava, che per la povertà mia correva pericolo d’esser io quel solo che non potessi godere della solennità da te intimata: e ricordomi benissimo di avervi anche aggiunto esser contra ogni ragione, che alcuni di noi stieno immersi fino ai capelli nelle ricchezze e nelle delizie, nè di quello che posseggono dieno cosa alcuna a chi meno ha; e alcuni muoiano di fame, principalmente ora che son vicine le feste Saturnali. Ma poichè non ebbi da te risposta, ho creduto che sia bene ritoccarti la stessa materia. Sai tu quello che dovevi fare prima di intimare le feste? Toglier via la disuguaglianza, e mettere le facoltà e gli agi in mezzo di tutti. Ora siamo a tale, che si può dire quel proverbio: Chi è formica, e chi cammello. Anzi immagina un recitante di tragedie, [578] che nell’una gamba avesse un alto stivale da teatro, e l’altra nuda e scalza: ben sai che s’egli camminasse fornito a questo modo, anderebbe per necessità or alto, or basso, secondo che n’andasse ora coll’un piede, ora coll’altro. Questa appunto è la disuguaglianza nella nostra vita. Altri ci sono a’quali fortuna mette sotto gli stivali e ci schiacciano. Ma noi povera minutaglia e feccia di popolo n’andiamo a piè scalzi sul terreno, che pur sai che se avessimo chi ci desse i fornimenti, ingrandiremmo il passo noi ancora e faremmo quel ch’essi fanno.

Io odo pure, che dicono i poeti che in quel tempo in cui avevi la signoria delle cose, le faccende umane non andavano a questo modo; ma che senza aratro o semente la terra dava loro ogni cosa, e da mangiare ad ognuno quanto gliene capiva nel ventre; che i fiumi scorrevano parte di vino, parte di latte, e fin di miele. E quello che principalissimo è, dicesi che quegli uomini furono d’oro, e che povertà non s’accostò mai ad essi. Laddove noi appena si può dire che siamo di piombo o peggio; e i più hanno a trovarsi il vitto con gli stenti: oltre di che povertà, non saper che farsi, disperazione, oìmè, e donde ne caverò io? e maladetta fortuna! e altre sì fatte sono le grazie di noi altri poveri. Ma non ci saprebbe tanto male, credimi, se non vedessimo all’incontro i ricchi godere in grandissima felicità; i quali tenendo rinchiuse infinite somme d’oro e d’argento e di vestimenti, oh quanti! e possedendo servi, cavalli, borghi interi, campagne e abbondanza di tutto, non solo non ce ne danno una minima porzioncella, ma non si degnano di guardare in faccia questi plebei.

Queste sono, o Saturno, le nostre passioni principali, queste sono le insofferibili: a vedere che uno che si giace in finissimi panni in tante delizie, rutta, vien esaltato da’domestici suoi, e fa festa ogni giorno, quando io e i miei pari non possiamo pensare ad altro, anche in tempo della maggior quiete, anche in sogno, se non come dobbiam mettere insieme quattro soldi per poter andare a letto almen pieni di pane e polenta, e aggiungervi per companatico nasturcio, porro o cipolla. O dunque, Saturno, cambia queste cose e riducile ad uguaglianza, o, se non si può altro fare, commetti a’ricchi che non godano essi soli di tanti beni, ma che di quelle cotante staia d’oro ne spargano almeno qualche quarteruola fra tutti noi; e delle vesti ci dieno quella quantità sola che non rincrescerebbe loro se venisse rosa da’tarli, e dieno a noi, acciocchè ci vestiamo, cose che in fine periscono e marciscono, piuttosto che lasciarle muffare e putrefarsi in casse ed in ceste.

Commetti in oltre che accettino a cena ora quattro e ora cinque di noi poveri; non già come si usa alle cene d’oggidì, ma con un certo modo più famigliare, dove tutti possano avere ugual parte. Sicchè non ci sia chi diluvi il companatico, lasciandogli il servo il piatto, finchè non possa più mangiare, e lo stesso servo, quando noi ci apparecchiamo a mettervi dentro la mano, a pena ci lasci poi vedere [579] quel che v’è dentro e ce lo faccia sparire; nè il trinciante metta innanzi al padrone i buoni bocconi, e agli altri l’ossame. Comanda ancora che impongano a coloro che danno a bere, che non aspettino che ognuno di noi abbia domandato da bere sette volte prima di darcelo, ma che alla prima richiesta versino, vengano, e dieno una tazza non men grande o men piena di quella che avranno data al padrone. Ordina che il vino che si dà a tutti i convitati, sia d’una qualità sola e il medesimo universalmente; poichè dove fu mai scritta legge, che uno s’ubbriachi con vino odoroso e buono, e che a me rompa le budella il mosto?

Saturno, se farai queste correzioni, allora avrai fatto che la vita sia vita, e i giorni festivi feste. Se nol fai, essi faranno la festa, e noi ci staremo sedendo e facendo voti che quando escono del bagno, il servo riversi e rompa loro il vaso, che il cuoco guasti loro il brodo con l’odore del fumo di cucina, e che sopra pensiero gitti nella lenticchia la salamoia del pesce; che il cane, mentre sono affaccendati i cuochi, divori le salsicce e mezzo il pasticcio; che il cinghiale, il cervo e i porcelletti, mentre vengono arrostiti, gli facciano quello che narra Omero che facessero i buoi del Sole, e non solamente si rampichino e movano, ma balzando fuori con gli spiedi, fuggano alla montagna; e le grasse pollastre, anche apparecchiate e pelate, volino, spariscano, tanto che non le possano essi soli godere.

E quello che più spiacerebbe loro, entrino le formiche, quali sono quelle indiane, a cavare di notte que’loro tesori, e gli mettano fuori pubblicamente; le vesti loro per negligenza de’custodi sieno a guisa di crivelli forate da valentissimi topi, sicchè non sieno punto diverse dalle reti da prendere il tonno; e che a que’loro galanti e ben chiomati coppieri, ch’essi sogliono chiamare Giacinti, Achilli e Narcisi, mentre che porgono loro la tazza per bere, caggiano i capelli, diventin calvi, spunti la barba, paiano staffieri d’inferno. Questi e altri voti saranno fatti da noi, se non vorranno i ricchi lasciare quel loro grande amor proprio, addomesticarsi e darci qualche cosa. ◀Brief/Leserbrief ◀Ebene 3

Ebene 3► Brief/Leserbrief►

Lettera seconda.

Saturno a me suo carissimo, salute.

Sei tu forse uscito del cervello, amico mio? A me scrivi tu delle cose presenti? e vuoi ch’io sia quegli che ordini una divisione di facoltà? Questa è opera di quell’altro, di colui che ora è signore delle cose. Maravigliomi bene che tu sia quel solo che non sappia ch’io, il quale fui già re, ho distribuito l’impero tra’figliuoli, e tralasciato di essere quell’uno ch’io era. A Giove, a Giove spetta la cura di tali fatti. Il regno nostro è fra dadi, allegrezze, bere, canzoni; questi sono [580] i suoi confini, poco più là si stende, nè dura più di sette giorni. Sicchè intorno a quelle cose antiche delle quali mi scrivesti, e del togliere la disuguaglianza, onde ugualmente sieno tutti o poveri o ricchi, ti risponda Giove. A me s’aspetterà il giudicare se alcuno, quanto alla solennità mia, ha intenzione di essere ingiurioso o avaro. Scrivo però ai ricchi la cosa delle cene, della quarteruola dell’oro e dei vestiti, acciocchè a cagione della solennità vi mandino qual cosa; è giusto, come voi dite, che ciò facciano, purchè non abbiano qualche ragione da addurre al contrario.

Per altro io vi dico, o poveri, così in generale; sappiate che voi prendete sbaglio, e non pensate de’ricchi quel che si dee, quando giudicate che sieno da ogni parte beati, e che soli facciano vita felice, perchè sontuose cene fanno, di vini dilicati s’inebriano, hanno belle donne e morbidi vestiti. Non sapete che sia, no. Appunto per tali cose hanno fastidi non piccioli. Sopra ognuna hanno a vegliare, perchè senza loro saputa o lo sciocco dispensiere non le gitti a male, o con frode non le faccia sparire, che il vino non inacetisca, che il grano non faccia gorgoglioni, che il ladro non porti via vasellame, e altri mali che possono loro avvenire. E tutti questi timori sono ancora una picciolissima parte di loro fastidio; tanto che, se sapeste quanti timori e quante molestie hanno, direste che non è al mondo cosa la quale più si dovesse fuggire della ricchezza.

Oltre di che, pensi tu ch’io sia così pazzo, che se la ricchezza e il comandare fossero cosa sì bella, io le lascerei agli altri, starei sedendo privato e viverei sotto il comando altrui? Ma conoscendo tutto quello che accade a’ricchi e a chi ha signoria, ho abbandonato l’imperio, nè me ne pento.

Quanto poi a quello di che ti lagnasti meco, che diluviano cinghiali e pasticci, e che voi rodete nasturcio, porro e cipolle ne’giorni festivi, pensa che tanto giova l’un cibo quanto l’altro, quando si ha appetito, e non è molesto. Per quello che accade dopo, voi siete a miglior partito. Imperciocchè voi non vi levate il giorno vegnente, com’essi fanno, con la testa aggravata per ebbrezza, nè dallo stomaco troppo ripieno vi escono romori e vapori. Essi, oltre a questo frutto, passando le notti per la maggior parte in altre dissolutezze, secondo che la volontà, il desiderio gli chiama, ne acquistano smagramenti, infiammazion di polmoni o idropisia per prezzo di loro mal ricevuti sollazzi. Qual di loro mi potresti tu mostrare che non fosse di pallore coperto e a cadavero non somigliante? O quale, giunto alla vecchiezza, di loro tanto può che si vaglia de’piedi suoi a camminare e non delle spalle degli uomini? Sicchè puoi dire che di fuori sono oro, ma di dentro altro; come i vestimenti da teatro, che di fuori risplendono e di dentro son canovacci e cenci. Voi non mangiate, anzi non assaggiate pesci. Ma non vedete voi che non sopportate come eglino nè gotte, nè malattie di polmoni o altro che venga da tali cagioni? E di più sappiate che il mangiar così fatti cibi ogni giorno, e più che il bisogno, non dà loro piacere; sicchè talvolta vedi che hanno pur voglia anch’essi d’erbe e di porro, più forse che tu non hai ora di lepri e cinghiali.

Non ti dirò gli altri affanni che gli stringono. Il figliuol tristo, la moglie innamorata del servidore, la donna che gli ama più per neces-[581]sità che per amore. Ma voi di poco animo vi maravigliate di quell’oro, di quello scarlatto, state a bocca aperta a vedere que’cavalli bianchi che gli portano, e adorate quello splendore di fuori. Che se spregiaste le cose esterne, e non vi tirasse a sè il cocchio d’argento; o quando trattate con esso loro, non guardaste all’anello di smeraldo, e non ammiraste la morbidezza delle vesti con quella vostra balordaggine, e comportaste che fossino ricchi a posta loro senza curarvene; voi vedreste che correrebbero a voi, v’inviterebbero a cena pregandovi, per mostrarvi i letti, le tavole, i vasi d’oro e d’argento; che il possedergli senza testimonio, è quanto non avergli.

In effetto, sapete voi quante cose posseggono non per servirsene, ma per farle ammirare da voi? Io conosco l’una e l’altra condizione di vita, onde vi scrivo ciò per consolazione. E se non fosse per altro, godetevi intanto la presente solennità con questa intenzione che fra poco avete a partirvi dal mondo, e ch’essi lasceranno le ricchezze loro, voi la povertà vostra. Con tutto ciò scriverò anche a quelli, come già promisi, e so che faranno conto delle mie lettere. ◀Brief/Leserbrief ◀Ebene 3 ◀Ebene 2 ◀Ebene 1