Cita bibliográfica: Gasparo Gozzi (Ed.): "Numero XXIII", en: Gli Osservatori veneti, Vol.1\23 (1761-04-21), pp. 529-532, editado en: Ertler, Klaus-Dieter / Fuchs, Alexandra (Ed.): Los "Spectators" en el contexto internacional. Edición digital, Graz 2011- . hdl.handle.net/11471/513.20.3584 [consultado el: ].


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No XXIII.

A dì 21 aprile 1762.

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Dialogo.

Molte Ombre e l’Osservatore.

Diálogo► Ombre. Mano a’sassi, a’cepperelli, a’mattoni; prendiamo cocci, tegoli, e tutto quello che ci si presenta. La furia ci somministri l’arme. Su; azzuffiamoci tutti contro cotesto Osservatore, al quale non bastano gli uomini che vivono, ma l’attacca fino a noi che siamo sotterra, nè le migliaia e centinaia d’anni dopo la nostra caduta ci salvano dalla sua penna. Dov’è egli cotesto bell’umore? Dappoichè Radamanto ci ha conceduto di poter venire al mondo per questa giornata, impieghiamola a fare la nostra vendetta. Lapidiamolo. Gli sia spezzato il teschio, vediamo quello ch’egli ha in quel suo cervello sturbatore della nostra pace; e giacchè egli ha così gran voglia di favellare de’fatti nostri, facciamolo discendere fra noi, dove ci potremo almeno difendere dalle sue ciance. Su, compagni; su, amici.

Osservatore. O somma possanza del divino Giove! Dove sarei io mai giunto al presente, se, a quello che mi par di vedere, a costoro non mancasse la vista? Io son pure vicino a loro; e tutti hanno qualche cosa in mano per avventarmela contro, e tuttavia non sanno dove io sia, e vanno, come ciechi, qua e colà braccheggiando, senza tener mai cammino diritto. È egli possibile che paia loro d’aver occhi? Rimarrebbe mai anche dopo morte la prosunzione negli uomini di poter fare quel che non possono? Non s’avveggono essi punto c’hanno vote le occhiaie come anella senza gemma? Ad ogni modo però egli è male l’avere a fare con ciechi arrabbiati. S’eglino s’avvedessero mai ch’io sono qui presente, so che menerebbero le mani d’una santa ragione.

Ombre. Di qua è chi favella. Facciamo cerchio intorno a questa voce. Alto. Chi va? Arrèstati. Chi sei tu?

Osservatore. Oh! chi io mi sia non lo dirò loro così in fretta.

Ombre. Chi sei tu? Favella. Sbrígati, spácciati.

Osservatore. Il nome mio è cotanto oscuro sopra la terra, che quando anche io ve lo dicessi, non sapreste chi io mi sia; nè gioverebbe ch’io vi facessi un lungo ragionamento intorno a’fatti de’miei maggiori, i quali non fecero mai opere cotanto solenni, che ne sia rimasa memoria al mondo, o se le fecero, non ne fu lasciato registro da loro, nè da altrui; e però sarebbe invano ch’io vi dicessi quello che mi domandate.

Ombre. Taci il nome tuo in malora, quanto tu vuoi; ma di’almeno se tu conosci chi sia, e dove abiti un certo lunatico e strano umore, il quale s’è intitolato l’Osservatore.

Osservatore. Mettete giù le pietre e l’altre armi che voi avete in [530] mano. Voi mi parete tutti in collora, e io non sono uomo da appiccare conversazione con genti alterate dall’ira.

Ombre. E ci dirai tu chi egli sia, senza punto mentire?

Osservatore. Sì, ve lo dirò.

Ombre. Ecco fatto. Sono a terra l’armi. Favella. Lo conosci?

Osservatore. Lo conosco. Voi avete a sapere che non solo egli è noto a me, ma ch’io so tutti i fatti suoi, e fino i suoi più intimi pensieri. Io l’ho anche rimproverato più volte, ch’egli si dia le brighe degl’impacci, e siasi dato a scrivere certi suoi fogli, ne’quali, non so se vi sia stato detto, va sfogando non so quante fantasie, ora intorno a’costumi degli uomini, e talora intorno a certi particolari appartenenti alle buone arti. “Lascia correr l’acqua alla china, lasciala andare”, gli ripeto io più volte. Ed egli mi risponde: “Tu hai ragione, così dovrei fare, ad ogni modo siamo a quel medesimo, e veggo ch’io diguazzo l’acqua nel mortaio. Ma che credi tu però ch’io lo faccia con isperanza di produrre buon effetto veruno? Hammi tu per così fuori del cervello? Credi tu mai ch’io possa darmi ad intendere che dopo sì gran numero di libri che inondano la faccia della terra, scritti da tanti valentuomini, dettati con sì profonda scienza, sia riserbato l’onore a certe poche carte vergate in fretta di riformare il mondo? Non mi giudicare per così privo di giudizio. Sai tu quello ch’è? Tu vedi ch’io fo una vita solitaria, lontana dal rumore del mondo, non so se per mia elezione, o per dispetto. Pensa che vivendo a questo modo, io debbo a poco a poco raccogliere nel capo vari pensieri, e che questi hanno a uscire. Gli altri uomini aprono l’uscita a quello che hanno nel cervello più fiate al giorno, per le case, per le botteghe, e ripongono negli orecchi de’loro conoscenti qua venti parole, colà cinquanta, da una parte due, da un’altra quattro, tanto che la sera se ne vanno a letto quieti, e con la testa vota che non dà loro un fastidio al mondo, e dormono agiatamente fino alla mattina. In iscambio di compartire le parole mie tante per ora, o per giorno, io l’ho divise in due parti: l’una parte delle quali le profferisco tutte il mercoledì, e l’altra il sabato; tanto che la domenica, giorno di riposo, ritrovomi libero e sgravato d’ogni pensiero, e colla testa vacua, quanto ogni altro che abbia mandato fuori per la lingua quello che avea dentro, per tutto il corso della settimana, minuzzandolo d’ora in ora e di minuto in minuto”. “Bene,” rispondo io allora, “ti concedo che ogni uomo sia il padrone della sua lingua, e possa a qual ora egli vuole, o tacere, o cianciare; ma qual fantasia è questa tua, ch’egli pare che tu non abbia altro a dire, che di costumi, o di lettere?” – “Oh! oh!” ripiglia; “e che? Pare forse a te ch’io ragioni d’altro, che di quello che dice ogni uomo? Se tu ponesti mai mente a quello che dico io, e a quanto dicono gli altri, tu vedresti benissimo che questi sono gli argomenti comuni. Sai tu qual diversità passa fra il mio favellare e l’altrui? Che favellando le genti fra loro, mettono a campo un fatto particolare, e s’internano con le forbici nelle viscere del prossimo, a tanto che chi capita loro fra l’ugne n’esce scorticato e sventrato; laddove io prendendo a meditare qualche punto di morale, senza avere in mente nè Girolamo, nè Salvestro, ma solamente in universale quel pezzo di carnaccia del cuore umano, vo descrivendo quello che me ne pare. E quanto è alle lettere, dappoichè ogni uomo ne tratta per diritto e per traverso, credo di poter anch’io manifestare la mia opinione.”

[531] Ombra d’Alessandro. Tu menti per la gola, ch’egli non ferisca alcuno particolarmente. Non sono passati ancora quattro giorni, che, non curandosi punto del nome mio, nè di quelle infinite lodi che mi diedero già Plutarco e Quinto Curzio, egli ragionò di me non altrimenti che s’io fossi stato un uomo del volgo; e io non so se a te è noto ch’io sono Alessandro Magno.

Osservatore. Oh! io ho caro quanto più aver si possa di vedere il vincitore di Dario, la cui fama dopo tanti anni è al mondo verde e fiorita! Ma come può egli essere ch’ei t’offendesse?

Ombra. Pare a te poco ch’egli s’ingegnasse di provare che io fui da qualche cosa solamente, perch’io avea intorno i vestiti regali; e che solamente i vestimenti sono quelli che fanno distinguere l’un uomo dall’altro? Imperciocchè tutto quell’aggiramento di parole non significa altro che quanto t’ho detto.

Osservatore. Credimi, Alessandro, egli non volle dirittamente fare ingiuria a te, ma solo si valse del nome tuo per appiccarvi addosso la sua opinione, come chi prende un pezzo di legno per intonacarlo di fuori con lamine d’argento cesellate e portarle intorno. Pensa anzi ch’egli fece un grandissimo conto della tua gloria e del tuo nome; e di quello si valse per mettere innanzi agli occhi di tutti uno che noto fosse all’universo, qual tu sei veramente, e sarai fino a tanto che durerà il mondo. Che se tu avessi voglia di sapere donde trasse il principio del suo argomento, sappi che quel Quinto Curzio, medesimo, il quale ti diede cotante lodi, gli destò in capo questo argomento.

Ombra. Quinto Curzio? Come?

Osservatore. Ti ricordi tu quel viaggio che fecero alcuni portatori de’tuoi nemici? Hai tu a memoria quello ch’egli narra? Che trovatisi sopra un monte certi bagaglioni, i quali portavano sulle spalle oro, argento, e molti ricchi e bei vestiti, avvenne che cominciarono a sentire un freddo grande che mozzava loro gli orecchi; perchè neve fioccava, sotto a’piedi aveano neve, e un gagliardo vento la soffiava loro in faccia. Per la qual cosa non sapendo essi più che farsi, immaginarono di trar fuori de’fardelli i panni che portavano, e d’imbacuccarsi bene in essi; tanto che tutta quella ciurmaglia parea una squadra d’onorate genti, e ognuno avrebbe giurato che fossero la famiglia reale de’tuoi nemici. Tu sai pure che uno de’tuoi medesimi capitani rimase a quell’aspetto ingannato, e fece dare nelle trombe, e cominciò a gridare all’arme all’arme, e a temere d’una schiera di bagaglioni ch’aveano i calli alle mani, e il cuore come i conigli; tanto ebbero di forza i vestimenti ricchi, de’quali andavano coperti per caso. Di qua trasse l’Osservatore la sua invenzione. Io ti prego; abbilo per iscusato. Che vuoi tu? Egli ha la fantasia così fatta. Fin da piccino cominciò a leggere nelle storie, con intenzione che gli avessero a servire a qualche cosa: e laddove molti pascono la curiosità leggendo fatti, ed empiendosi la memoria di questi fece, e quegli disse; egli fantastica sopra le parole e i fatti altrui, qual sugo se ne potrebbe trarre intorno a’costumi. Abbattutosi pochi dì fa a quello accidente, gli si destò nell’immaginativa il pensiero che gli uomini spogliati sono tutti uguali, e ne fece quelle poche ciance, dalle quali ti tenesti ingiuriato.

[532] Ombre. A questo modo egli non ha quel torto che ci credemmo.

Osservatore. Credetemi; egli non ha mai un’intenzione al mondo di offendere nè vivi, nè morti.

Ombre. Dappoi ch’egli non ha mai un’intenzione, vorremmo sapere chi egli è. Guidaci a lui.

Osservatore. Ombre mie, ciò non potrei io fare. Voi sapete bene quanta sia la maggioranza vostra sopra di lui, e ch’egli non consentirebbe mai alla mia richiesta. Quanto io vi posso dire, si è che tocca a lui di venire a voi: e che voi abbiate in ciò un poco di sofferenza. Voi sapete bene che gli anni non sono eterni, e che la tempera degli uomini si va logorando di giorno in giorno. Oltre di che, egli non è di que’corpi che possano tenere in una lunga schiavitù il suo spirito; e se voi lo vedeste, non vi parrebbe molto dissimile da voi. Per la qual cosa andate in pace, e lasciatelo fare, essendo certe che non v’offenderà mai, e che non tarderete un lungo tempo a pascere la curiosità vostra della sua vista.

Ombre. Tu hai dette queste ultime parole con molta affezione e tenerezza. In effetto tu dèi essere molto suo amico.

Osservatore. Tanto suo amico . . .

Ombre. Tu interrompi il tuo ragionare! E che sì? . . .

Osservatore. Fatene quel giudizio che volete.

Ombre. Sarestù mai? . . .

Osservatore. Sì; son desso. Voi cercate di brancicarmi, e non potete. O gentilissime ombre, come siete voi veramente ragionevoli e cortesi, le quali venute poco fa piene d’un’acuta collora contro di me, quella avete in breve deposta, arrendendovi alle mie ragioni! Oh! come sarebbe bello il mondo, se imparando l’usanza vostra, fosse così pronto a lasciar l’ira e a spogliarsi de’conceputi sdegni! Ma che sarà? Non ho io finalmente ad abitare un giorno insieme con esso voi? Buona compagnia m’è apparecchiata. Andate; non perdete un momento di quel vostro lungo e felice riposo; nè v’impacciate più delle cose del mondo, nelle quali a grandissima fatica si può vedere un raggio di quiete. Andate.

Ombre. E quando pensi tu che noi ci abbiamo a rivedere?

Osservatore. Non ho di ciò nè fretta, nè temenza; bastivi che ci rivedremo. Addio.

Ombre. Addio. ◀Diálogo ◀Nivel 3 ◀Nivel 2 ◀Nivel 1