Zitiervorschlag: Gasparo Gozzi (Hrsg.): "Numero XV", in: Gli Osservatori veneti, Vol.1\15 (1761-03-24), S. 496-500, ediert in: Ertler, Klaus-Dieter / Fuchs, Alexandra (Hrsg.): Die "Spectators" im internationalen Kontext. Digitale Edition, Graz 2011- . hdl.handle.net/11471/513.20.3576 [aufgerufen am: ].


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No XV.

A dì 24 marzo 1762.

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Le Scale

Dialogo.

Menippo e Mercurio.

Dialog► Mercurio. Quanti anni sono omai passati, che io ti condussi alla palude infernale, e ti feci passare di là nella barca di Caronte! E con tutto ciò da quel dì in poi io t’ho ritrovato più volte a rivedere la luce del sole. Tu fai contra le leggi statuite nel regno di Plutone. Io so pure che quando uno è entrato colà, non ritorna mai più sopra la terra, donde s’era partito; e tu vi ritorni tante volte. Chi ti dà questo privilegio?

Menippo. La mia lingua. Io non so se tu sai, Mercurio, che cosa sia la verità, è quanto la sia mal volentieri udita da ciascheduno. Sappi che ell’ha in Inferno quella stessa accoglienza che la ritrova nel mondo. Quell’ombre non mi possono comportare. Mi sono azzuffato con femmine, con filosofi, con re, con poeti, e con ogni genere di persone. Fecero tanto romore, che Plutone pel minor male deliberò di rimandarmi al mondo di tempo in tempo; e però quando tu mi vedi qui, pensa che ciò è avvenuto a cagione della mia lingua.

Mercurio. E però, che pensi tu ora di fare sulla terra? Tu se’già divenuto ombra, nè la favella tua potrebbe essere intesa da altri orecchi, che da quelli delle Deità e dell’ombre a te somiglianti. Con cui vuoi tu aver conversazione? Egli era pure il meglio; che tu stessi cheto laggiù negli Elisi.

Menippo. Ma sai tu che non è costaggiù alcuno il quale non si quereli di Giove? E che non discende ombra veruna, per quanto lungamente ella sia stata nel mondo, che non dica d’esservi stata balzata fuori di tempo? Io non ho potuto fare a meno di non rinfacciare più d’uno di tale stravaganza, e di non difender Giove, dicendo loro la verità, e provando che ciascheduno v’era caduto maturo, anzi pur guasto. Ma chi incolpava qualche improvviso accidente, e il più delle genti dicevano ch’erano stati i medici; e non era ombra veruna, la quale volesse confessare d’essere uscita del corpo suo, trattane da quella necessità che gira la spada a tondo sopra tutt’i capi. Nè giovò punto ch’io dimostrassi loro che quasi tutti erano stati avvisati molto tempo prima o dal cadere de’denti, o dall’aggrinzarsi della pelle, o dal tremito delle [497] ginocchia, della decadenza di loro vita e dello sfiorire dell’età. Non vi fu verso da farmi intendere; anzi non sapendo essi quali ragioni produrmi contra, incominciarono, come fa chi ha il torto, a gridare e a stridere per modo, che Plutone uscito a quel romore, mi mandò fuori del regno suo per qualche tempo, fino a tanto che sia loro passata la stizza.

Mercurio. Male ha fatto Plutone, il quale sapendo pure che tu dicevi il vero, non dovea, col discacciarti di là, far credere a quelle ostinate ombre che tu avessi il torto. Ma sai tu che è? Egli non ha mai potuto perdonare al fratel suo, ch’egli si stia fra gli stellati giri dell’Olimpo a godersi la luce, e che a lui sia tocco un reame pieno d’afflizione e di tenebre. Menippo, dappoichè sta pur la cosa come tu di’, io ho caro che tu ti sia meco abbattuto in questo luogo; e ad ogni modo sono disposto di farti vedere quello che prima con gli occhi corporei non avresti potuto vedere giammai, acciocchè rientrando nei sotterranei luoghi, tu possa da qui in poi far toccare con mano a quelle ingannate ombre che non sono uscite del mondo fuori del debito tempo, e di quel corso d’anni, che a ciascheduna era stato stabilito.

Menippo. Tu sai quanto sia sempre il diletto mio nell’imparare cose nuove, e però tu mi legherai con un perpetuo obbligo, se mi farai vedere quello che mi prometti.

Mercurio. Vieni meco. Se tu avessi intorno il carico delle membra, non potresti salire dov’io ora ti conduco; ma essendo leggiero e impalpabile più che la nebbia, mi puoi seguire. Vieni; attienti a uno de’miei piedi.

Menippo. Oh! oh! come n’andiamo velocemente! Ecco già che lasciamo sotto di noi le più alte cime delle querce. Qual migliore e più sottile aria si respira quassù! Vedi, vedi quelle città sotto di noi come le sono divenute piccine! Noi siamo ora sopra le nuvole. Oh! monte altissimo ch’è questo! Tu cali?

Mercurio. Sì. Questo è il luogo della restata. Di qua si scopre tutto il mondo. Il venire a questo monte è conceduto solamente agli Dei, o a coloro a’quali gli Dei concedono che essi vi possano pervenire. Sanno bene gli uomini che questa altissima montagna è al mondo, e da tutti i lati la cercano; ma essa con maraviglioso incantesimo fugge dagli occhi di tutti. S’essi qui potessero salire, vedrebbero la verità di tutte quelle cose ch’essi non sanno. Chiamasi il monte della Sapienza, altissimo, come tu vedi: luogo veramente degl’Iddii, che non può mai essere intenebrato da quell’aria grossa che circonda i cervelli nella profonda valle del mondo. E quello che più ti farà maraviglia si è ch’egli ti parrà, al volare c’hai fatto, d’esserti scostato dalla terra mille miglia; e non è vero. Adocchia. Tu vedi la terra, anzi l’hai così d’accosto, che puoi dire d’essere in essa, nè v’ha altra diversità, se non che tu vedi chiaro; e coloro che quivi s’aggirano, vanno tentoni, ed hanno offuscata la vista. Dimmi, dimmi quello che vedi ora.

[498] Menippo. Non è quella la medesima terra in cui abitai già quando fui in vita?

Mercurio. Sì, ell’è quella medesima. Pare a te però un’altra? Che vi ritrovi tu di disusato e di nuovo?

Menippo. Camminavasi al tempo mio sopra un piano uguale da ogni lato; e perchè veggo io al presente scambiato l’aspetto del mondo, e da ogni parte tutto occupato da scale e da genti, che quali salgono e quali discendono?

Mercurio. Menippo, egli è il monte, sopra il quale tu sei, che ti fa ora vedere quelle scale che tu non vedevi prima; e tu salisti e scendesti su e giù per gli scaglioni, come fanno tutti gli altri, ma non te ne avvedevi.

Menippo. Io ti prego, Mercurio, fammi vedere la scala mia; e te n’avrò grandissimo grado. Io vorrei pur sapere dove salii e donde discesi.

Mercurio. La scala tua non la potresti tu più vedere, la quale alla tua partenza si disfece, e non è d’essa rimaso più segno, dappoichè un’altra ebbe ad occupare quel luogo. Sicchè diménticati del tutto d’essa, e poni mente alle scale altrui, perchè io voglio che tu sappia molto bene renderne conto a quell’ombre che facevano tanto schiamazzo.

Menippo. Chi è colui il quale è prossimo agli ultimi gradini che vanno allo ingiù della scala sua, e straluna gli occhi, come s’egli fosse invasato, e menando le mani con gran furia, borbotta da sè non so quali parole che a pena s’intendono, e tuttavia segue il suo viaggio?

Mercurio. Quegli è un poeta , il quale, mentre ch’egli camminava in sui gradini che guidano al colmo della scala, preso dal furore delle sante Muse, molte buone cose dettò, guidato dal vigore del suo ingegno. Ora ch’egli è in sullo scendere, venendogli meno la prima gagliardia dell’intelletto, e abbandonandolo il favore delle Muse, il meschinello credendosi ancora quegli che prima era, scambiati gli argomenti suoi nobili e di forza, in vilissimi, e quel che peggio è, scostumati argomenti, stima fra sè d’essere quel poderoso ingegno ch’era prima; e non avvedendosi ch’egli smonta, dà in luce quelle sue licenziose rime. E perchè le genti, inclinate per natura alla scorrezione, le leggono volentieri, ne tragge per conseguenza d’essere più che mai fosse in sul salire, anzi pure in sul colmo della scala sua, nè punto s’avvede d’essere divenuto debole, e dell’andare allo ingiù. Pensa tu, quando egli sarà giunto agli ultimi gradini della scala, che a colui parrà d’avernela a cominciare, e disceso tra l’ombre, più che tutte l’altre s’azzufferà teco, e dirà ch’egli è uscito del mondo fuori di tempo.

Menippo. In che modo avea egli dunque a sapere quando era in sullo scendere della scala?

Mercurio. Quando a poco a poco ne’suoi nobili componimenti s’accorgeva che la fantasia non s’accendeva più con quel subitaneo calore di prima; quando i versi non assecondavano i suoi pensieri con facilità; e a grandissima fatica conosceva che gli uscivano della penna parole colorite e gagliarde. Quello era il modo ed il tempo.

[499] Menippo. Tu hai ragione. Ma l’amore della gloria l’ha accecato, sicch’egli non s’avvede punto della quantità de’gradini che egli ha fatti, nè di que’pochi che gli rimangono ancora. E quell’altro che va all’insù di quella scala, con quei pennelli in mano, e di qua e di là ha tante tele e tante ne sta dipingendo, chi è egli?

Mercurio. Quegli è Apelle pittore, il quale a stento può cavare dell’arte sua di che vivere, comecchè ne sia maestro valentissimo. E sai tu per qual cagione? Vedi quanti già periti nell’arte medesima sono in sullo scendere delle loro scale, i quali ripieni dell’acquistata fama, e con l’animo inzuppato di quella, contando per nulla che già sono per natura infiacchiti, tentano, con la disapprovazione delle opere di lui, di fargli perdere il concetto, e per tutta la Grecia l’addentano quanto possono; nè punto s’accorgono che i quadri loro non hanno più quelle vigorose e vive attitudini e movenze, nè quelle infocate tinte di prima. L’invidia gli fa travedere. Che se essi vedessero con quegli occhi che veggono di quassù, alla scambiata possanza dell’immaginativa si sarebbero fino a qui avveduti c’hanno già quasi terminati i gradini, e si starebbero in pace.

Menippo. O Mercurio, e non sarebbe egli il meglio che Giove avesse aperti a ciascheduno gli occhi, sicchè tutti vedessero che sono sopra una scala, e potessero noverare quanti gradini hanno già fatti, e quanti rimangono loro ancora a farsi; nè così ciecamente vivessero, credendosi di salire quando sono in sullo scendere?

Mercurio. No. Egli avrebbe dato agli uomini troppo grave passione. Basta bene ch’egli abbia mescolati tanti indizi nella vita loro, da’quali possano trarre la conseguenza che sono in sullo scendere, senza che abbiano sotto agli occhi il novero de’gradini che mancano. Che importa che veggano il numero di tre, di due, o d’uno? È a sufficienza che conoscano, se il vogliono, che sono in sullo scendere, per potersi reggere con giudizio, e non credere che la scala non abbia mai fine.

Menippo. E a che gioverebbe loro il conoscere tali indizi?

Mercurio. Gioverebbe, quando è passato un certo tempo, a non lasciarsi allettare a speranze troppo grandi; a spogliarsi l’animo di quelle passioni che ne’giovanili animi si comportano; e finalmente a conoscere quello che si confà collo scendere dalla scala, e non fare allo smontare quello che si fa in sul salire: essendovi alcune operazioni che si convengono all’andare allo insù, ed alcune altre che s’accordano con lo scendere, e non s’hanno a mescolare l’une con l’altre.

Menippo. Sai tu, o Mercurio, che quando io scenderò di nuovo tra l’ombre, e narrerò quello ch’io ho costassù veduto di queste scale, non mi sarà punto creduto, e mi verrà detto ch’io sono un baione e che tutte sono invenzioni di mio capo per poter cianciare a mio modo?

Mercurio. A ciò ho provveduto. Prendi questa carta, in cui ho delineato il mondo: ecco che la sottoscrivo di mia mano. Plutone conosce il mio carattere, avendo egli più volte veduta la lista di quell’ombre che gli vengono da me consegnate. Vedi bene questo disegno. Ecco le scale del salire e quelle dello scendere. Qui sono tutti i nomi e tutte le professioni. Mostra all’ombre di laggiù, che tutte senza avvedersene hanno fatto il viaggio delle scale, e che non v’ha alcuna tra esse, la quale sia stata sterpata dal mondo, che non avesse fatto l’ultimo gra-[500]dino; e che se parve loro d’essere state cacciate di qua fuori di tempo, ciò fu perchè aveano mandati i pensieri e le voglie più là degli scaglioni. Sicchè tralascino di calunniare la somma sapienza di Giove, e incolpino solamente sè stesse.

Menippo. Lo farò. Ma, io ti prego, lasciami ancora qualche tempo sopra questa montagna, tanto ch’io possa ridere a vedere questo andare su e giù, con tanto inganno de’salitori e di coloro che scendono.

Mercurio. Ora tu puoi conoscere da te stesso quello che hai dinanzi agli occhi. La verità ha questo di buono, che quando s’è cominciato a vederla, si può proseguire senz’altro avviso. Sta’quanto ti piace. Io ho altre faccende. Sulla riva della Stigia palude sono infinite ombre che attendono d’essere imbarcate.

Menippo. Ombre? Mercurio, io vengo teco. Io ti farò prima udire le loro lamentazioni, e poi squadernerò loro in sugli occhi questa carta. Buono! Oh! io era pazzo! Come sarei solo disceso dalla montagna? Da’qua il piede.

Mercurio. Andiamo. ◀Dialog ◀Ebene 3 ◀Ebene 2 ◀Ebene 1