Zitiervorschlag: Gasparo Gozzi (Hrsg.): "Numero XII", in: Gli Osservatori veneti, Vol.1\12 (1761-03-13), S. 467-487, ediert in: Ertler, Klaus-Dieter / Fuchs, Alexandra (Hrsg.): Die "Spectators" im internationalen Kontext. Digitale Edition, Graz 2011- . hdl.handle.net/11471/513.20.3573 [aufgerufen am: ].


Ebene 1►

No XII.

A dì 13 marzo 1762.

Ebene 2► Ebene 3► Allegorie► Rimase attonito l’infelice poeta alla svanita apparenza del castello della Ricchezza; e comecchè effettivamente l’avesse veduto repentinamente dileguarsi in aria ed in fumo, non potea perciò darsi pace che quell’abitazione fosse dalle Muse vituperata per mala cosa, e a dispetto loro considerava tra sè ch’egli volentieri avrebbe voluto far prova, e dimorare almeno per breve tempo in quel soggiorno. E diceva in suo cuore: “Perchè l’abitatore di quel castello si lasciò egli ingannare dal Sospetto? E a qual fine prestava gli orecchi all’Adulazione? Oh! gli veniva turato l’udito! Suo danno. S’egli avesse studiato e conosciuto sè medesimo, si sarebbe avveduto che le melate parole degli adulatori erano per trarlo alla trappola, e farlo cadere in rovina”. Ma mentre che faceva così fra sè queste riflessioni, e sarebbe forse d’una in un’altra proceduto chi sa quanto a lungo, ruppegli i pensieri nel mezzo questa nuova canzone, che le compagne di Talía cantavano celate nel primo boschetto:

Tu che vedesti in poco d’ora sgombre

Le ricche mura che parean sì forti,

Dirizza il viso, e vedi novelle ombre.

Se saper vuoi come i piacer sien corti,

Laggiù nel fango vedrai lor fralezza,

E nel poco diletto mille torti.

E già sorge il castel che sì s’apprezza

Da genti cieche in giovenil etade,

Che dall’amaro trar cerca dolcezza.

Non son sì lievi allo sparir rugiade,

Quando fuor esce mattutino sole,

Come edifizio di piacer sen cade;

E chi dentro albergava, invan si duole.

In questo modo diedero fine le Muse alla loro moral canzone, quando rivolgendo il poeta gli occhi allo ingiù, vide un’ampia palude, nella quale soffiando parecchi spiriti, faceano salire fuori di quel pantanoso fondo una nebbia, non molto dissimile da quella che vediamo talora la mattina, o in sul far della sera, levarsi dalla superficie di certe acque stagnanti; se non che questa era di più colori, e di vago aspetto a’riguardanti appariva. A poco a poco innalzandosi, di qua si disgiunse, di là s’accostò, e tanti aggiramenti fece, che in un luogo aprendosi, e chiudendosi in un altro, prese la forma d’un bellissimo castello, di cui non potevan gli occhi umani vedere cosa più bella. Non avea questo, come l’altro, ponte levatoio, nè porta chiusa; ma era solamente custodita l’entrata sua da parecchie donzelle così attrattive, garbate e piene di tanta grazia, che poco mancò che il poeta medesimo, il quale avea però veduta la vanità del castello, non si desse a correre giù dalla montagna, e, abbandonando la compagnia delle sante sorelle, non cercasse a tutto suo potere d’entrarvi con la buona licenza delle vezzose guardiane di quello. E tanta fu la forza del suo pensiero, che, non potendo del tutto tenerlo rinchiuso, gittò un altissimo sospiro, e abbassati gli occhi, e divenuto in viso vermiglio, diede [485] indizio della sua segreta intenzione all’avveduta Talía, la quale non si spiccava mai dal suo fianco. Arrossì Talía, non meno di lui, vedendo il debole animo del suo discepolo, e rivoltasi, con quelle sue ciglia amorevoli e con atto di compassione, gli disse.

Dialog► Talía. È questa dunque la fede che noi abitatrici del monte Parnaso, e coltivatrici dell’onore e della virtù, abbiamo in te avuta fin dal principio degli anni tuoi? E sarà questa la bella fine di tutte le nostre fatiche, e di quella dolcissima fiamma con cui accendemmo tante volte il tuo cuore, acciocchè divenissi da qualche cosa nel mondo in tua vita, e dopo la tua morte non rimanesse teco seppellito il tuo nome? Ecco che ad un’apparizione, la quale tu vedrai come in breve tempo sarà dileguata, a guisa di fanciullo t’arresti, e desideroso divieni, e dimenticatoti di quanto a te promettemmo, ardi tutto in tuo cuore di tuffarti fino a’capelli in quell’abisso di confusione e di fumo. Bello allievo abbiam noi fatto veramente, e degno dell’immortalità, come lungo tempo credemmo! Ma non temere però che qui ti vogliamo ritenere a forza. Solamente ti preghiamo che tu voglia esercitare quelle qualità che avesti dall’altissimo Giove, e, ricordandoti che sei uomo, starai prima a vedere attentamente quello ch’è a te dinanzi apparito: e se ritrovi infine che la sostanza sia uguale alle apparenze che vedi, va’, discendi dal monte, e avvilúppati quanto vuoi in quella nebbia, che tu hai veduta con momentaneo nascimento salire da una paludosa pozzanghera, e prender forma di castello.

Poeta. È egli però così gran cosa, che dinanzi ad una gratissima veduta l’animo mio, il quale non ebbe mai una consolazione a’suoi giorni, siasi così un pochetto commosso? Io non sono però uomo che non abbia ossa, polpe e sangue, come hanno gli altri, e in cui non abbiano i desiderii vigore. Sii contenta che le tue prime voci abbiano tanta forza nell’animo mio, che ravvedutomi faccia forza alla mia inclinazione, ed apra l’adito alle meditazioni in un tempo in cui veggo costaggiù tanti che festeggiano e trionfano senza un pensiero al mondo. Se tu richiedi maggior forza, va’ e fatti a posta tua un’immagine di sasso o di legno, che, per quanto vegga, non le bollano mai i sangui nelle vene, nè mostri mai un menomo segnaluzzo di desiderio.

Talía. Via, chétati. Io credo, sciagurato, che poco starai a bestemmiare. Vedi, che stizza! Oh! razza d’uomini superba! Com’egli è difficile il farti comprendere la verità! Taci, ingrognato; guarda costaggiù, e ascoltami. Tu vedi quelle fanciulle, le quali con tanta leggiadría e con sì mirabili attrattive si fanno incontro a chiunque entra nel castello. Comprendi tu quel che fanno?

Poeta. Io veggo che le versano in certi bicchieri un liquore, e lo presentano in lucidissime coppe a chi va; e questa mi pare una gentilezza.

Talía. Ben dicesti, mi pare; poichè tu non sai l’effetto di quel beveraggio. Sappi che non sì tosto que’poveri bevitori s’hanno versato il liquore nel seno, benchè ti paia al di fuori che sieno uomini o donne, quali erano prima, scambiano intrinsecamente natura, e acquistano la qualità delle farfalle, le quali quasi mai non possono star ferme in un luogo; e tu le vedi a volare in guisa che non indovineresti mai qual fosse la loro intenzione. Imperciocchè ora rasente la terra battono quelle loro dipinte ale, ora s’innalzano, come se le volessero oltrepassare i più validi uccelli, poi ad un tratto si calano, e qua vanno diritte, e colà in giro, poi si posano sopra un fiore, poi sopra un al-[468]bero, nè hanno mai ferma abitazione, ma così abbassandosi, alzandosi, circuendo, e fiutando ora questo fiore ora quello, passano quella loro breve ed oscura vita. Tale è l’animo di tutti coloro, i quali, bevendo il liquore offerto loro da quelle insidiose donzelle, entrano nel castello del Piacere. E se tu di qua noti bene, puoi vedere che in esso non è mai stabilità veruna, anzi un perpetuo movimento e un aggiramento che non ha mai fine. E sai tu donde viene?

Poeta. Non io, se tu non me lo dichiari.

Talía. Le nature degli abitanti, cambiate per forza del beveraggio, credono di trovare in un piacere la loro beatitudine; e però tutti concorrono dove lo veggono, con tanta furia che par che vadano a nozze: ma non sì tosto l’hanno assaggiato, che scorgendone da lontano un altro, e credendo fra sè che quivi sia la felicità, incontanente si spiccano dal primo, e volano al secondo, poi al terzo, poi a tutti gli altri, senza mai aver posa; e quando gli vedi aggirarsi, che non sapresti indovinare dove abbiano indirizzato il corso, allora sono fra sè disperati per non saper che farsi, ed in che occupare i loro pensieri e la vita; e benchè tu gli vegga volteggiare e moversi, tu hai a sapere che allora sono addormentati, ed hanno così tardo l’intelletto, che appena potresti trar loro due parole di bocca, quando non tenessi ragionamento de’passati sollazzi, o non dessi loro qualche speranza di nuovi passatempi, che allora si destano, cianciano e mostrano d’aver pensieri, e danno qualche indizio d’avere loquela umana.

Poeta. Io vorrei sapere quali sono quelle persone ch’io veggo colà con quelle cetere al collo che suonano in quello spazioso loco, e al movere della bocca mi pare altresì che cantino, e intorno hanno quelle genti che fanno visacci, e pare che si ridano del fatto loro. Oh! io avrei pur caro d’intendere quello che dicono!

Talía. Quelli che suonano e cantano, sono alcuni de’seguaci nostri, i quali, per compassione che abbiamo di quelle povere genti ingannate, abbiamo fatti entrare di furto nel castello poco fa, senza che le donzelle se ne avvedessero; perchè circondati da una nuvoletta d’oro per opera d’Apollo, entrarono senza essere veduti, e non furono loro presentate le tazze. Essi per allettare le genti ad udirgli, valendosi della dolcezza di poesia, tentano di vestire co’versi certe buone dottrine, acciocchè le sieno ricevute più volentieri. Ma i circostanti tratti al primo dalla dolcezza delle canzoni, e volando a guisa di farfalle a quel diletto, quand’odono di che si tratta, fanno a’cantori, come tu vedi, quegli atti di dispregio, ridono ad essi in faccia, e voltano loro le spalle. Se tu però avessi voglia d’udire, ecco che uno canta al presente. Io ti sturo gli orecchi, e rendendogli acuti per modo che tu possa udire quello che da lontano si dice, taccio, e ti do licenza che ascolti a tua posta.

Poeta. Egli suona ora. Oh! oh! dolcissima armonia ch’io odo! Ma sta’. Egli ha lasciato di toccare le corde, e canta; ascoltiamo:

Se glorïoso ardir l’alma non move

A ricercare in sè veri diletti,

E fuori uscir d’ogni terrena usanza,

Breve è il piacere, e se lo porta il vento.

Nata è la mente per eterna vita;

Qual maraviglia è a voi, che disdegnosa

Tosto si sazii di caduchi beni?

[487] Poeta. Odi tu che il suo cantare, viene interrotto da’fischi e dal dispregio delle turbe che gli stanno intorno?

Talía. Ben sai che sì ch’io odo; e già m’avvidi che così dovea avvenire allo sbadigliare che facevano i circostanti nell’udire i primi versi. Ma fra poco vedrai come quegli ostinati avranno il gastigo del non avere prestato l’orecchio alla canzone.

Poeta. Oimè! che veggo! Quali magre figure e scarnate sono quelle che ora entrano nel castello, e, gittate a terra le custodi, e spezzate le tazze, con que’flagelli alla mano percuotono quanti incontrano? Misero me! E quelli che sono tocchi da quelle maladette fruste, oh! come s’aggrinzano! come hanno gli occhi incavati e di sotto lividi! Che maladizione è questa? Essi erano pure giovani poco fa, e non possono così in breve essere invecchiati. Qual tramutazione così súbita è questa, che tutti col capo inchinato a terra movono i piedi a stento, sicché pare a pena che possano camminare?

Talía. Quella turba di frustatrici sono diverse qualità di malattie che vengono a distruzione degli abitatori del castello, e tu puoi vedere di qua come gli conciano. Questi maladetti mostri non si solevano già vedere sulla terra, quando le genti non erano invasate de’diletti, come lo sono oggidì; e si giacevano ne’loro profondi abissi sotterrati. E quando anche venuti ci fossero, gli uomini d’ossa massicce, di saldi nervi e di vigoroso sangue, avrebbero potuto con essi gagliardamente azzuffarsi. Al presente logorati dalle lunghe veglie, spolpati dalle licenziosità, con l’ossa smidollate, co’nervi di bambagia, inzuppati di viziati umori come le spugne, ad ogni picciolo assalto rimangon sotto, e farebbero disperare Ippocrate, e perdere ad Esculapio la sua dottrina. Guarda, guarda allo ingiù.

Poeta. Dov’è andato il castello?

Talía Mentre ch’io ti faceva quel breve ragionamento, è andato in nebbia ed in aria, seguendo la sua natura. ◀Dialog ◀Allegorie ◀Ebene 3 ◀Ebene 2 ◀Ebene 1