Zitiervorschlag: Gasparo Gozzi (Hrsg.): "Numero IX", in: Gli Osservatori veneti, Vol.1\09 (1761-03-03), S. 471-475, ediert in: Ertler, Klaus-Dieter / Fuchs, Alexandra (Hrsg.): Die "Spectators" im internationalen Kontext. Digitale Edition, Graz 2011- . hdl.handle.net/11471/513.20.3570 [aufgerufen am: ].


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No IX.

A dì 3 marzo 1762.

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I castelli in aria

Dialogo.

Poeta e chi verrà.

Allegorie► Dialog► Poeta. A che mai sono io venuto alla luce, o piuttosto alle tenebre di questo mondo? Imperocchè posso io ben dire che sieno tenebre colà, dove per li miei continui pensieri non giova punto a ricreare [472] gli occhi miei nè la serenità del cielo, nè lo splendido sole che illumina gli occhi di tutti gli altri mortali. S’io m’aggiro il giorno, altro non veggo che uomini più di me fortunati, i quali, vagando qua e colà co’più lieti visi del mondo, mostrano negli aspetti consolati la quiete e la contentezza dell’animo loro; e comparando tutto quello che m’apparisce in essi col mio tribulato spirito, altro non sento che rabbia e rammarico de’fatti miei. Son divenuto mutolo, cieco, sordo, e peggio. Ecco qua in quale ristretto stanzino io mi risveglio, per esempio stamattina! A quest’ora le migliaia di persone si destano in ampie camere, guernite di damaschi, velluti, arazzi, broccati d’oro e d’argento; ridono loro intorno e sopra il capo le delicate pitture; chiamano i servi a sè con uno zufolino, o col suono d’un campanelluzzo, perchè la voce non infreddi, ed ecco che accorrono i famigli, alzano le cortine, aprono le finestre, e attendono gli ordini de’loro beati signori. Io all’incontro appena curato da una fanticella zoppa, guercia, e per giunta anche sorda, che se mi fendessi a chiamarla, la non verrebbe se non quando ella vuole, debbo a dispetto mio uscire delle coltrici, e fare da me accoglienza al giorno, per vedere uno stanzino guernito da’ragnateli. Sono questi i tuoi giusti scompartimenti, o iniqua e dolorosa Fortuna? Scherzi tu forse a vedere le tribulazioni e le sciagure altrui? Che sia tu maladetta. Insensata! balorda! Come mai si trovarono al mondo uomini che ti rizzassero altari? E voi anche, divine Muse, che siete da’bufoli poeti chiamate spesso la delizia dell’Olimpo, e il mèle delle lingue, trattate voi in questa forma i vostri seguaci? È questa la mercede che mi date dell’avervi onorate, tante volte chiamate Dee, fatte ammirare le vostre abitazioni del Parnaso, allettato genti a visitarvi, risvegliato il vostro linguaggio sopra la terra, difeso il vostro onore contro l’ignoranza, e finalmente dell’avervi innalzate sopra l’altre Deità del cielo? Meritava io da voi così fatto trattamento? Ma non sia io, e distruggansi quest’ossa, s’io non dico del fatto vostro tanto male, quanto ho detto fino a qui di bene, e se non vi fo conoscere a tutti per quelle ingrate e crudeli che voi siete: perchè alla fine io non crederò mai che voi siate Dee, ma solamente certe magre fantasie, inventate dall’ingegno umano, il quale per sua cortesia e per sua umiltà ha voluto riconoscere da voi quello che potea da sè medesimo: ed esservi obbligato di quel vigore e quell’attività che nasceva da lui. Sgualdrinelle! A poco a poco sento che mi s’infiammano i sangui, e poco anderà che quand’io avrò alquanto ordinato un certo mio pensiero, e guernitolo con la creativa facoltà d’alquanti artifizi che saranno per voi stecchi e spuntoni, io vi farò conoscere chi voi siete, e se sieno ragionevoli i miei lamenti.

Apollo. Udite voi, o figliuole di Memoria e di Giove, le altissime querele che salgono a noi da quello stanzino colaggiù, il quale venne da voi tante volte visitato, il cui abitatore mi fu così spesso raccomandato da voi? Io mi sento quasi quasi tentato di voltargli le spalle, e di non curarmi più di lui, come se non fosse al mondo. Che ne dite voi?

Talía. Se questa fosse la prima voce di poeta che si querelasse del fatto nostro, io dico, o gran Duca e Rettore della nostra compagnia, [473] che tu avresti grandissima cagione non solo d’abbandonarlo, ma d’adoperare contro di lui quelle saette con le quali ti vendicasti dell’orgogliosa Niobe, contro i sette suoi maschi, quando ella per l’acerbo dolore divenne sasso. Ma tu ti dèi pur ricordare che non fu mai poeta senz’amarezza d’animo, e, dappoi in qua che cominciarono a suonar versi pel mondo, s’udirono insieme le voci de’poeti a querelarsi della loro condizione. Per la qual cosa io giudico che sia il meglio usare con costui la clemenza, e procurare a poco a poco di raschiargli dall’animo quel veleno che lo rode, e ricondurlo alla sua bontà e modestia di prima. Ricordiamoci con quanta fede ci abbia fin dalla sua più tenera età coltivate: come a dispetto, per così dire, di mare e di vento, egli ci abbia difese dalle calunnie altrui, e quante ghirlande egli abbia devotamente offerite al nostro tempio. Consideriamo che le cose degli Dei non sono così note a’mortali, ch’essi possano formarne un certo giudizio. Che sa egli il meschino che non sia conceduto da Giove a te, nè a noi, l’ampliare le ricchezze di coloro, i cui ingegni sono nati per essere sotto la nostra tutela? Chi gli ha rivelato, povero sciagurato, che essendo egli nato coll’inclinazione rivolta a questa nostr’arte, e standosi sotto la nostra protezione, gli altri Dei non si curano punto di lui, per non offenderci; e che ciascheduno degli abitatori del cielo custodisce coloro che sono ad esso soggetti? Tutte queste cose sono occulte a costui; e perciò egli non sapendole, e credendo tuttavia che i nostri servi possano essere al mondo meglio trattati, e che gl’infortuni suoi gli piovano addosso per nostra cagione, l’attacca a noi, e ci bestemmia senza un rispetto al mondo. Egli si crede che sia in balía nostra l’accrescere le sue facoltà, come può far Cerere quelle de’suoi devoti, Bacco quelle de’suoi, e Mercurio, o qualche altro Iddio opulente, quelle di coloro che gli seguono. E non s’avvede il meschino che noi non abbiamo altro che la giurisdizione d’un poco di fiume donde non s’udì mai che si traesse un menomo pesciatello, e la signoria di certi magri boschi a’quali l’altre Deità non lasciano nè melo, nè pero, nè altro albero che fruttifichi; e che la nostra più ricca pianta è l’alloro, che, da certe amare bacche in fuori, non produce altro.

Poeta. Chïunque in questa dolorosa valle

Cade, che mondo ha nome, ed è costretto

Ad una morte che si chiama vita,

Guardi le spalle sue, pesi le braccia:

E se le trova poderose e salde

Sì che durino i nervi alle fatiche,

E di fiato e polmoni ha pieno il petto,

Miri le zolle, e dell’annosa terra

[474] Il duro dorso, e desïoso corra

Di marre e vanghe a maneggiare il peso.

Benigni spirti gioveranno l’opre

E il suo sudor con invisibil destra.

Non abbia a sdegno l’aspro orror de’calli,

Nè la dal Sole intenebrata pelle,

Mali del corpo. Cheto avrà lo spirto,

Parte miglior della mistura egregia,

Onde si muove ed uom si chiama. Fugga

Da’falsi allettamenti delle Muse,

Che con dolce armonia di dolce canto

Invitan l’alme a guisa di Sirene,

Per farne poi strazio crudele ed empio.

O divino intelletto, e nato in cielo

All’eterna quïete, alle ricchezze

Accostumato delle sfere, quale

Diventi nelle man d’empie sorelle

Che ti pascon di fole e di lusinga?

Hai più pace! Hai più ben? . . .

Hai più pace? hai più ben? Hai più pace . . . . Che vuol dire che mi manca così in un subito il mio entusiasmo? Hai più pace? hai più ben?

Talía. Fino a tanto che gli è venuta meno la prima furia del comporre, vagliamoci di questo tempo; non lo lasciamo andare avanti. L’ira sua l’ha convertito in una bestia. Chi sa quello ch’egli direbbe?

Apollo. Che s’ha a fare?

Talía. Se mi concedi ch’io faccia, eccoti la mia intenzione. Il pover uomo, non avendo al presente altro in animo e in mente che le sventure sue, giudica da quelle d’essere il solo uomo sventurato nel mondo. Tutti gli altri cred’egli di vedere dalla beatitudine circondati. Io volgo per mente di levargli quel velo che gli copre la veduta delle cose, e dimostrargli quanto s’inganna. Non siamo noi quelle sole Deità infine che pascano gli uomini d’acque e di fronde. Quella stessa Cerere, quello stesso Bacco, e Mercurio, e tutti gli altri Dei che furono detti di sopra, gl’ingannano, e mostrano lucciole per lanterne. Tu sai pure, che standosi, essi a godere l’ambrosia ed il nèttare costassù nel cielo, senza darsi le più volte una briga al mondo dell’umana generazione, mandano giù dalle nuvole certi simulacri i quali hanno la sola apparenza; ma quando si va per toccarli, svaniscono come la nebbia. Sono questi, con vocabolo dagli uomini stessi ritrovato, chiamati Castelli in aria, i quali pascono con le loro apparizioni l’umana stirpe; ed essa, fondatasi in quelli, si crede di possedere cose grandi; ma poi alla fine altro in pugno non istringe, che aria e vento. Tu sai bene che la facoltà nostra è quella dell’imitare, e già hai veduto in qual guisa nelle pubbliche scene imitiamo ora le comiche facezie, ora le tragiche querimonie rappresentate in superbi palagi, in frequentate corti; come mettiamo in piedi eserciti, gli facciamo insieme azzuffare; e talora fra le capanne e gli alti monti facciamo apparire le pastorelle; e il tutto per modo, che coloro i quali si stanno a vedere, giurerebbero che fosse la verità. A me dà dunque l’animo di fargli comparire innanzi con diversi movimenti molti Castelli in aria, tanto ch’egli comprenda non essere punto diverso lo stato suo da quello di tutti gli altri, e forse molto migliore.

[475] Apollo. Va’, Talía, e cerca di ricoverare l’onor nostro sulla terra. Questo è pur troppo malmenato dalla maldicenza altrui; e se costui ancora, che pur fino a qui è stato nostro affezionato, ci volge le spalle, tu vedi quale sarebbe la mormorazione comune.

Talía. Io vado; ma pregovi bene, o Muse compagne mie, venite meco, e con la dolcezza del canto vostro procurate d’assecondarmi, e di scacciare da quell’inasprito animo la mal conceputa acerbezza. Quando l’avremo renduto tale ch’egli possa ricevere la medicina, porremo mano a’lattovari, e procacceremo di ricondurlo alla sua prima salute. Io veggo che ciascheduna di voi mi promette l’opera sua volentieri. Andiamo.

Poeta. Qual barbaglio è questo? A poco a poco cresce a questo mio picciolo stanzino lo splendore. Dove son io? E qual cheta, soave e grata splendidezza è questa? Io sento anche un dolcissimo toccare di strumenti. È questo un incantesimo? un vaneggiamento d’infermità? Non so più dove io mi sia.

Muse. Dal pensier che t’ingombra

Fuggi per poco, o addolorata mente,

E dà’loco al consiglio ed alla pace.

Il vero alma non sente,

In cui di grave duol s’addensi l’ombra,

E nel suo male tenebrosa giace.

Guerra a sè stesso face

Chi suoi consigli dall’affanno prende;

E sè medesmo atterra

Chi dal suo proprio duol non si difende,

E dentro ha l’armi, onde si move guerra.

Basti che umana vita

Da’mali intorno è combattuta e cinta,

Come vuol sorte di terreno stato;

Senza che l’alma vinta

Sè stessa aggravi, ed alla rete ordita

Aggiunga laccio più saldo e serrato.

Intelletto beato

Perder non dee suo bel volo nel vischio,

Ma sè giudichi eterno.

Il suo vigor lo salverà dal rischio,

Se di sè stesso avrà sempre il governo.

Poeta. Oh! dolcissime voci che mi suonano intorno! Almen vedess’io da chi sono esse formate! Gli altissimi e veraci sensi che in esse si comprendono, mi dimostrano benissimo che divine voci son queste. O voi, quali vi siate, che questa mia picciola cameretta vi degnate di riempiere di celeste armonia, degnatevi di lasciarvi vedere. ◀Dialog ◀Allegorie ◀Ebene 3

Metatextualität► Quello che avvenisse lo dirà l’altro foglio che dovea oggi essere pubblicato insieme con questo, se un raffreddore non avesse occupato lo scrittor di questo Dialogo a tossire e a spezzarsi l’ossa del petto in cambio che a scrivere. ◀Metatextualität ◀Ebene 2 ◀Ebene 1