Référence bibliographique: Gasparo Gozzi (Éd.): "Numero VI", dans: Gli Osservatori veneti, Vol.1\06 (1761-02-20), pp. 459-463, édité dans: Ertler, Klaus-Dieter / Fuchs, Alexandra (Éd.): Les "Spectators" dans le contexte international. Édition numérique, Graz 2011- . hdl.handle.net/11471/513.20.3567 [consulté le: ].


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No VI.

A dì 20 febbraio 1762.

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Dialogo naturale
tra il
Rabbuiato e il Colombani.

Dialogue► Rabbuiato. Non si può però dire, Colombani mio, che voi non siate sempre d’un umore. L’aver a fare con voi è una bellezza: almeno si sa d’avere a trovare oggi in voi l’uomo di ieri, e domani, quello d’oggi. Per lo più un pochetto ingrognato al primo; ma poi col ragionare vi escono di mente le malinconie, e ridete.

Colombani. Rabbuiato, io non ho oggi voglia di berte. Lasciatemi stare.

Rabbuiato. Ecco l’esordio. Io avrei giurato che tale dovea essere la risposta vostra, quale me l’avete data. Ma se avete cosa che vi sturbi la fantasia, egli è pure il meglio che vi sfoghiate. In questo modo s’alleggerisce l’animo ed il cervello; e la fortuna, che prima pareva trista, comincia a parer buona.

Colombani. La fortuna io non la conosco, ed ella non conosce me, e però non mi ragionate di lei, che mi farete perdere la pazienza.

Rabbuiato. Come? voi siete uno de’più avventurati uomini di Venezia. Oh! oh! che fate? Perchè gittate via con tanta furia quel libro, picchiate la terra co’piedi, con la mano il banco, e levate gli occhi al cielo?

Colombani. Poichè vi siete deliberato a volermi oggi far arrabbiare, vedete la bella fortuna ch’io ho. Osservate fuori della bottega. Notate questo concorso di maschere che paiono un formicaio. Passano, ripassano, fanno un bulicame perpetuo: uomini, donne di ogni stirpe, di ogni genere. Dalle sedici ore fino a questo punto, che sono quasi le ventiquattro, se ne traete mezz’ora o poco più che ho impiegata nel mangiare, io mi trovo qui dentro, e fra tante migliaia che vanno e vengono su e giù, non è caduto ancora in fantasia ad alcuno di comperar un libro. Cerco di allettargli col metter fuori frontispizi, cartelli di opere nuove, collo stampare diligentemente, e tanto vale; passano come torrente, che va e più non è. Non è uomo, ch’io vegga da lunge fuori per quell’invetriata, che io non isperi di vederlo ad entrare nella bottega, l’accompagno con l’occhio fino all’uscio, ed egli passa via. Di qua se alcuno s’accosta alla bottega, pongo la mano al finestrino per domandargli che vuole, ed egli va via. Che diavol s’ha a fare? Tutti questi libri mi muoiono intorno; e que’cartelli ch’io appicco loro addosso in lettere maiuscole e ben grandicelle, acciocchè chi entra gli vegga e scelga a posta sua, possono chiamarsi quelle inscrizioni che si fanno sulle sepolture, poichè i libri non si cavano mai di là dove gli posi la prima volta; e io son divenuto non un libraio, ma un guardiano di morti. Questa è la fortuna mia.

[460] Rabbuiato. Se voi foste quel solo libraio, a cui accade quanto mi dite, io vi consiglierei a disperarvi molto più di quello che fate. Ma gli è un male universale, e non odo però che gli altri si lagnino come fate voi. Sapete che è? Voi non fate come parecchi altri, i quali hanno una loro filosofia naturale che gli conforta, e mantien loro in corpo quella santa pazienza che voi perdete così presto.

Colombani. Io non so qual filosofia gli possa confortare; e credo che questa sia una delle vostre baie, come parecchie altre.

Rabbuiato. Poichè non vengono comperatori, e siamo qui soli, se volete ascoltarmi, vi dirò qual sia quella filosofia che non è da voi conosciuta. Se la vi piace, abbracciatela; se non volete, lasciatela andare.

Colombani. Dite, che v’ascolterò. O volentieri poi o mal volentieri, non v’importi.

Rabbuiato. Fratel mio, voi avete dunque a sapere in primo luogo, che pochi sono quegli uffici e mestieri al mondo, i quali fruttino a chi gli fa in tutte le stagioni dell’anno; e quasi tutti assecondano nel fruttificare la natura, la quale ora è feconda e fruttifera, e talora si riposa e non dà nulla agli uomini della terra. Il povero villano lavora asinescamente tutto l’anno il terreno suo, ma non sempre taglia però le spighe, nè i grappoli delle viti. Due volte l’anno fa le ricolte maggiori, in altri tempi si contenta di poche erbe o di frutte, e viene finalmente il verno in cui la terra indurata, agghiacciata e vestita di brina, non gli dà nulla; nè però bestemmia la fortuna, e sa che il terreno non frutta la vernata. Intanto va facendo qualche lavorietto leggero apparecchiandosi per la primavera, e pacificamente attende l’opera di natura senza alterazione di stizza. Se voi fate bene il conto, ritroverete che tutte le botteghe sono a un di presso possessioncelle, le quali debbono esser lavorate dai bottegai per attendere la stagione della ricolta. Questa non è però in tutto il corso dell’anno, ma di tempo in tempo; e così è di tutte, salvo quelle che servono al mangiare e al bere del popolo, alle quali la necessità conduce frequentissimi i comperatori, o quelle che provveggono le femmine de’loro guernimenti, alle quali concorrono le genti a comperare, stimolate dalla continua fecondità degl’ingegni femminili, che vincono ogni focoso poeta nelle varie invenzioni. Trattone queste, come vi dicea, tutte l’altre debbono attendere le proprie loro stagioni; e l’utilità ha la sua dipendenza da quelle. Io non vi starò ora lungamente a dire qual sia la propria stagione per gli altri bottegai, che sarebbe troppo gran cosa e molesta l’andare specificando ogni particolarità; ma solamente vi dirò qual è la stagione appropriata a’librai per fare le faccende loro con giovamento.

Colombani. Nessuna, nessuna è questa benedetta stagione. Credetemi, voi non sapete quello che sia, e m’empiete gli orecchi di ciance che non significano nulla.

Rabbuiato. Adagio. Io non crederei però che nè voi, nè altri fosse cotanto sciocco e così privo del senno, che se non vendesse mai libri, si contentasse di pagare il fitto d’una bottega, e di lasciar tutte l’altre faccende per essa. Vendete voi mai? o non vendete?

Colombani Ben si sa che talora io vendo. Ma dappoich’è il carnovale, pare che non ci sia più chi sappia leggere; e non è chi mi domandi un libro.

Rabbuiato. Al nome sia del cielo. Noi siamo di accordo. Questa è appunto quella stagione che nell’anno de’librai, come in quello de’la-[461]voratori de’terreni, si può chiamare la vernata. Che credete voi che mova le genti a comperare i libri, altro che la curiosità? Non è altro certamente. Questa benedetta curiosità, che fa nascere tante voglie in cuore, a questo tempo è occupata in tante cose, che non ha campo di pensare a’libri; oltre di che le voglie ch’ella si cava al presente, sono facili, e, per così dire, alla mano di ognuno. Laddove il cavarsela ne’libri è opera di qualche giorno. S’ha a comperargli, a tagliare le carte, a leggergli facciata a facciata, ad intendere quello che si legge. Vedete quanti pensieri, quante fatiche! E se uno ritrova buono un libro, e lo dice, chi gli presta fede, dee però fare tutta quella stessa lunga opera che avrà fatta il primo, di comperare, tagliare, leggere, intendere ec. Chi volete voi, che potendo pascere la curiosità sua in modo più di questo agevole, si dia tanta briga? Tutto quello che si vede ora altrove, fuori delle botteghe de’librai, si vede in poche ore da più centinaia di persone ad un tempo. Si recita una commedia nuova; vi può concorrere un migliaio e più di genti a vederla in una sera; ed ecco che in tre ore quel migliaio di persone pasce la curiosità sua, standosi a sedere, cianciando se vuole e ridendo. È accreditato un lione per la sua piacevolezza, e per lasciarsi bastonare come un tappeto, e baciare chi lo bastona; le genti possono a centinaia e a centinaia vederlo di subito; e vedere con esso una danza di cagnolini vestiti in diverse fogge; i quali a guisa di ballerini ubbidiscono al suono di uno strumento, e fanno capriuole, scambietti, riverenze con tanta misura e virtù, ch’è una grazia a vedergli. Se voi stampate questa novelletta in un libro, a pena si può credere che così sia; e oltrechè lo scrivere è cosa morta appetto al vedere, si dee leggere più carte per venirne alla fine. Passate da quanto vi ho detto al Ridotto, alle cacce de’tori, o a quante altre allegrezze e solennità si fanno in questa stagione, ritroverete che la curiosità degli uomini è così intrattenuta, occupata e strettamente altrove legata, che non può punto ricordarsi di libri, nè di librai, come se non ce ne fosse uno al mondo. Ed eccovi il verno della vostra possessione.

Colombani. Se questo dunque è il verno, ch’io ve lo concedo, poichè non vendo un cane di libro, quale sarà il tempo della ricolta?

Rabbuiato. Verrà fra poco. Quando le genti non avranno più che fare, quando l’ozio comincerà ad entrar loro in corpo, si desterà in essi qualche curiosità, e se non altro verranno per non morire di noia, e procureranno di passare il tempo con un libro alla mano.

Colombani. E intanto avrò io a consumarmi qui sedendo tutto il giorno, e a perdere il tempo?

Rabbuiato. Come? di che vi lagnate voi? Voi siete il più felice e fortunato di quanti passano e ripassano per questa via, e vi godete molto meglio il carnovale, di quante maschere vengono e vanno.

Colombani. Odi quest’altra? Vi siete voi deliberato di farmi disperare?

Rabbuiato. Rallegratevi anzi, e conoscete il vostro bene. Voi siete qui tra le finestre, all’imboccatura della più spaziosa e frequentata via di Venezia: dove senza punto essere urtato, ne sturbato da chi va e [462] viene, vedete pacificamente tutta questa turba di maschere, potete contemplare i loro vestiti, gli atti, e vedere tutte quelle cose per le quali gli altri concorrono alla piazza maggiore con tanto disagio. Credetemi, considerate la vostra condizione come la più bella e la più vantaggiata, di tutte le altre. Ma che sarà quel cerchio colà? Due maschere. Una villanella e un villanello che si sono riscontrati. Suonano entrambi uno strumento. Ella un mandolino, egli una cetera. Sentite con qual soavità tasteggiano. E che sì che improvvisano? Oh l’avrei caro! Questo cantare sprovvedutamente mi è sempre piaciuto. Zitto: il villanello incomincia.

Maschera uomo.

Io sono divenuto una fornace,

Geva mia bella; Amor è il fornaciaio.

Aggiunge legna, e stuzzica la brace,

Sicchè un vivo carbone i’son nel saio.

E s’io tel dico, tu mi di’: Va’in pace,

Ardi a tua posta, o vattene all’acquaio.

Misero me! che il fuoco dell’amore,

Come fan gli altri, per acqua non more.

Maschera donna.

Biagio, io t’ho detto che non voglio affanni,

E lieta e spensierata vo’dormire.

Tienti a tua posta il fuoco tuo ne’panni,

Non so che farti, se non puoi guarire;

Per l’allegrezza son fatti questi anni,

E non per sospirar e per guaire.

Dimmi quanto sai dir, piangi se sai,

Io non vo’sospirar, non voglio guai.

Rabbuiato. Ed ella ha ragione. Ma che vorrà dire questo sconosciuto? Non parlò. Che lettera è questa che ha qui lasciata? Agli Osservatori. Leggiamo. ◀Dialogue ◀Niveau 3

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Articolo d’una lettera di Roma, 13 febbraio 1762.

Lettre/Lettre au directeur► Quando il carnevale di Roma prendeva buon principio, e le maschere incominciavano a godersela su e giù per quella bellissima contrada ch’è detta il Corso de’Barberi, e già tutto il paese era in festa; ecco che un miserabile accidente cambia questa città in pianto per una ragionevole compassione. Iersera, che fu venerdì, giorno in cui non ci sono teatri pubblici, si faceva in una casa particolare una commedia di signori dilettanti, con abbondantissima orchestra ed infiniti spettatori. Io pure era uno degl’invitati, e non so come, non v’andai, ma posimi a letto. Erano verso le dieci ore, quando entrò nella mia stanza tutto sbigottito un servo, il quale mi narrò piangendo d’aver veduto uno spettacolo orrendo. Il soverchio peso avea indebolito e fatto precipitare il salone in cui si rappresentava l’azione, e quivi tutte quelle povere genti in tanta quantità erano rimaste sotto alla rovina seppellite. Accorsevi di subito il Governatore, e per ordine suo s’andavano disotterrando que’corpi, de’quali quaranta fino al punto in cui si partì il servo, erano stati ritrovati: quindici morti affatto ed il restante peggio che morti. Non dirò altro intorno a ciò, perchè scrivo prima di uscire [463] di camera, e temo di non poter essere a tempo d’aggiungere altre nuove e sicure notizie per mancanza di tempo. Il caso è infelicissimo e contrista tutta la città gravemente. ◀Lettre/Lettre au directeur ◀Niveau 3 ◀Niveau 2 ◀Niveau 1