Citazione bibliografica: Luca Magnanima (Ed.): "Saggio VII.", in: Osservatore Toscano, Vol.1\07 (1783), pp. 91-105, edito in: Ertler, Klaus-Dieter / Fuchs, Alexandra (Ed.): Gli "Spectators" nel contesto internazionale. Edizione digitale, Graz 2011- . hdl.handle.net/11471/513.20.3560 [consultato il: ].


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Saggio VII.

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Elogio del Padre Abate don Ubaldo Montelatici de‘ Canonici Lateranensi ora soppressi di Fiesole

Sono sulla terra alcune Città, ove il popolo si può dire immenso, ove alcuni posseggono vaste ricchezze, e che a fronte ogni istante, mostrano quel che può la stessa ricchezza, sì per parte del corpo, che dello spirito. Questi pochi, ed un gran numero di altri men ricchi consumano quel che rende la terra ed il mare, e quel che inventano le arti ingegnose, e lo consumano con tanta profusione, che se la Natura non fosse per tutto così doviziosa, forse poco rimarrebbe al grande e miserabil numero degli altri. Costoro intenti unicamente ad osservare quel che abbaglia la vista, senza muover mai l’intelletto, d’altro in conseguenza non son contenti, che di quelli oggetti che fra noi an meritato il nome di spettacolo. E per questo nome non pure intendono un finto campo di guerra, una battaglia navale, un teatro spazioso, ma anche l’uomo stesso che si presenta in pubblico o solo, o seguitato da un buon numero di schiavi, o di servi. Avvezzi ad osservare anche nell’uomo lo spettacolo, poco si fermerebbero colla vista ad un Sapiente, che mai non suol darne alcuno di se, senza vederlo ricca-[92]mente vestito, o quel che è sicuramente lo stesso, senza osservargli intorno tutti i capricci, e tutte le stravaganze della ricchezza. Ma se mai fosse loro additato, la semplicità gli offenderebbe, da farne subito un disprezzo, o se a tanto non pervenissero; un riso leggiero, ma crudele nel tempo stesso, non gli mancherebbe. Or chi vogliam noi dire che avesse rag one [sic], o i ricchi superbi, o il sapiente semplicissimo all’aria, all’abito, al portamento? Ad appellarsi al tribunale di essi, la ragione sarebbe dalla parte loro, assuefatti a credere che la potenza può giudicare ancora di quel che non ha saputo giammai; ma a consultare la ragione stessa, consumata a star con se, e ad uscir fuori di se, per istarsene a studiare le cose, direbbe il contrario. Così è molto raro che si distingua il bello della semplicità, della Natura una volta che se n’è perduta l’immagine, a forza di vedere i trovati, ed i capricci de’ nostri uomini. Livello 3► Eteroritratto► Così ad osservare un sapiente Coltivatore, un Socrate, senza le vesti sempre nuove e sempre linde, nel Padre Abate Montelatici, ma piuttosto negligente, e sparuto, non si farebbe detto da costoro: Questi è un di quegli uomini che vale un buon numero di tutti noi, perchè solamente applicato a quella scienza ed utile e bella che si chiama agricoltura. Tale fu certamente quest’uomo, il quale, attese le sue vaste, lunghe, e pertinaci fatiche, si potrebbe chiamare il martire il più illustre dell’agricoltura toscana.

[93] Egli si determinò assai tardi allo studio della terra, e delle sue produzioni, e bisognò per determinarlo, che nascesse una di quelle occasioni che servono per trarre un uomo dal suo nulla, o dal suo stato di pura quiete. Era egli al suo anno cinquantesimo pervenuto,1 e finquì da che avea preso l’abito de’Canonici lateranensi, altro non avea fatto che studiare le scienze della memoria, e fare il lettore di esse. Or dopo molti anni di sì fatto esercizio, lasciò la sua lettura, e se ne tornò a Firenze, perchè fatto Abate privilegiato. Osserviamo le vicende della fortuna. Appena egli è tornato alla patria, e gode del suo titolo, viene a vacare una Chiesa, cura di anime, la quale appartiene all’Ordin suo. Sebbene non uso a fare il Curato, la chiede, e gli è data, a condizione però che debba pagare un certo canone all Ordine stesso sulle rendite di quella. Era presso Laterina chiamata . Pietro in Casa Nuova. Ecco il principio della sua passione per l’agricoltura. O fosse la solitudine, o la necessità che la facesse nascere in lui, è certo che ad altro non attese mai più, fuori che ad essa, sempre facendo sperimenti, ed esercitandosi nella pratica ancora delle rustiche faccende. In conseguenza da quest’epoca in poi, non ascoltò altre voci, se queste non furon di terre, di piante, e di armenti. Non dico già che mancasse agli obblighi della sua vocazione; ma voglio dire che dopo di esse, [94] l’amore per tutto quello che riguarda la coltivazione, fu senza esempio, perché l’occupò interamente. Solo dunque ed abbandonato alla sua nuova, e possente inclinazione stette per nuove anni in campagna a fare il Curato, e in tutto questo tempo si esercitò nelle cose pratiche, delle quali ebbe una distinta cognizione. Lasciata poi la sua Chiesa per motivi di salute, non lasciò punto la sua bella e forte passione, quando fu tornato in Firenze che seguì l’anno 1751. Sembra anzi che andasse in lui crescendo di più, benchè avesse 59. anni; perchè dopo di aver osservato per avventura che un uomo solo avrebbe potuto far poco per l’aumento, e per l’onore dell’agricoltura toscana, pensò di stabilirne in Firenze un’Accademia. Non credette molto difficile l’eseguire il suo pensiero; giacchè fu agevole in altri tempi di fondarne alcune altre, le quali, se tolgasi quella tanto celebre del Cimento, dovean risuonare di bagattelle canore. Con tutto questo l’idea, sebbene delle più utili, e delle più belle, dovea esser derisa, come son derise generalmente tutte le cose utili, non perchè utili, ma perchè nuove. E non già per malignità umana; ma forse perchè sapendosi poco, e tenendolo assai nascoso, senza pretender meno al merito di sapere assai, si vuol parlar di tutto, e massime di quel che è nuovo, o quel che è peggio, di quel che non s’intese giammai. Così il Padre Montelatici dovette sentir non pochi oziosi indebolire il suo coraggio con avvilire il suo disegno. Non pertanto come [95] egli era un di quegli uomini pertinaci, che non molto si perdono al di fuori, non ascoltò quelli che fanno la lor vita a contradire in tutto senza legger mai nulla, nè pensare, e seguitò ad architettare la nuova Società. Questa finalmente rimase stabilita l’anno 1753, se ne fece l’apertura il 4. di giugno dello stesso anno. Allora fu che il nostro Fondatore vi lesse egli il primo una Memoria, la quale servì per introduzione alla prima adunanza. È assai naturale a pensarsi che trattò con tutta la semplicità un oggetto utilissimo, e bellissimo, qual si è la coltivazione della terra, senza molto curarsi di sfavillare per la parte dell’ingegno e dell’arte.

Fra i primi Accademici furon subito noverati Giovanni Lami, Domenico Maria Manni, Giovanni Targioni Tozzetti, Saverio Manetti, tutti letterati, e naturalisti ben conosciuti. Il Lami pensò tosto ad una bella impresa. Era questa di pubblicarsi per comun consenso, e lavoro una raccolta di tutti gli Autori greci e latini, i quali anno scritto dell’agricoltura, e della caccia a tutto il secolo tredicesimo, in uno, o più tomi. Il Manni si era posto a scrivere la storia di tutti i Fiorentini, ed altri toscani che aveano trattato d’agricoltura; ed il nostro Montelatici andava compilando una libreria generale di tutti gli scrittori che avessero pensato sulle faccende della vilia sì antichi che moderni. Ognun vede quanto voleano illustrarsi nella società novella questi uomini; ma quel primo calore forse si raffreddò, e niuna di queste opere si è mai [96] veduta nè stampata, nè scritta a mano2 . È però bene che sia rimasa l’idea di queste Opere; poichè anche la semplice idea può giovare ad alcuno che voglia darsi a sì fatti lavori. In quanto a me le avrei reputate utilissime; perchè come si posson tentare nuove scoperte, se non si fa bene la storia delle prime, e delle altre fatte fino a noi? Un quadro disegnato da mani sì esperte mi sembra necessario anche al presente; e la storia de’nostri toscani Geoponici sarebbe ella pure stata di gran soccorso a novelli Studiosi, se non altro ad apprendere almeno la lingua delle cose villesche, la quale ormai resta ne’volumi de’ padri, per mostrar forse solo che ella ci fu, per additare in qual decadenza ella sia ne’nostri tempi, anzi quanto abbia mai degenerato dall’antica semplicità, e dall’antico sapere. Ma al presente si va fino al disprezzo di questi studi; e la nostra lingua diverrà fra poco un barbarismo continuato, perchè quella stessa che si destina pe’libri è quella degli uomini già corrotti dal lusso, e dalle cose de’forestieri; e perciò la più scorretta e la più strana lingua del mondo.

Quest’Accademia che si volle mettere sotto la protezione del Conte di Richecourt, che governò la Toscana per venti anni, non prese gran forza, per la ragione che d’agricoltura, come di medicina ognun crede di saperne più del bisogno, come se non fosse necessario di esser già avanzati in [97] molte scienze per entrar degnamente a fare avanzamenti in essa; ovvero perchè non fu gran fatto incoraggita dal governo. Stette ella dunque per alcuni anni senza dare molti frutti di se. Solo alla venuta del nuovo Principe della Toscana, di Pietro Leopoldo II. cominciò a far suonare il suo nome, perchè il Principe stesso le diè quelle forze che non avea, le assegnò un premio da distribuirsi ogni anno, le diè un nuovo asilo nel magnifico Palazzo vecchio, ed ora va fiorendo ogni giorno più, perché la nostra Toscana si è fatta più coltivatrice di quel che sia stata altre volte. Non ha però l’Accademia date fuori a nome di essa le Memorie, che ella ha coronate, nè ha scritta la propria storia; il che fece già l’Accademia del Cimento, ed ha fatto pur ora quella de’Fisiocritici di Siena con alcuni Volumi. Questo è ora da desiderarsi, e noi le auguriamo uno Scrittore filosofo che sappia scrivere l’eloquenza della Natura, la quale, come ognun fa, essendo bella, e variatissima nel suo bello, e sublime, ha bisogno di un uomo, per iscriverla, che ne abbia compresa l’indole, e sappia, quasi direi, fare quella impressione sull’anima, che suol fare la veduta di essa, o delle sue produzioni. Sarebbe anche da bramarsi, che le Memorie premiate fussero men soggette alla servitù delle citazioni, le quali, per quanto sieno rischiaratrici, mostrano tanta poca libertà, tanta poca esperienza fatta da se, che non sembrerebbero, osservate da questo punto, neppur degne di premio. Oltre di che cosa è [98] diventa mai l’anima pensatrice, l’anima che scorrer dee liberamente sulla materia proposta, se dee combattere colle opinioni di questo, o di quel filosofo, anzi che mettere innanzi le sue? E come si può abbracciare tutto in un tempo il proprio soggetto, e spiegarlo con quel calore stesso, con cui si è abbracciato, se si dee pensare alle citazioni di quest’ o quell’ altro autore? E se non si è liberi e grandi nel trattare un grande argomento, qual onore per se, quale per un’Accademia, qual esempio per la posterità!

Si dimanderà ora se il Fondatore dell’Accademia de’ Georgofili s’illustrò con qualche scoperta, con qualche bell’opera di agricoltura. Risponderemo che la maggiore delle sue Opere è la fondazione dell’Accademia. Scrisse alcune Operette, ma di breve argomento, e più raccolte da altri scrittori che dal proprio fondo. Infatti l’anno 1752. fece stampare un suo Ragionamento sopra i mezzi per far rifiorire l’Agricoltura. A questa aggiunse la Relazione dell’erba Orobanche, detta volgarmente Succiamele, e del modo di estirparla, di Pier Antonio Micheli, la quale vide la luce la prima volta l’anno 1723. Nel suo discorso dà il Montelatici eccellenti precetti per ottenere il fine del rifiorimento dell’agricoltura fra noi3 Prese poi a considerare la coltivazione degli ulivi, e pubblicò nel 1772 in Firenze un libretto della coltura e potatura [99 degli ulivi, piantati in luoghi freddi~i], ove fa conoscere quanto avesse studiato su questa pianta, e quanto fusse pratico del suo governo. Dopo cinque anni fece anche stampare un altro libretto di agricoltura, cioè un Estratto da’più celebri autori sì editi che inediti, che hanno trattato della diversa coltivazione, ed usi varj delle patate. In esso, che è solo di pagine 17., raccoglie molte curiose ed importanti notizie di questa pianta, ne insegna la coltivazione ed i vantaggi, e la maniera di farne ottimo pane, ed ottime paste senza lievito, da cuocersi come quelle che si fanno di gran duro. Questo libretto, o sia questa memoria, ha per ultimo fine di renderne la coltivazione più generale, e spezialmente in alcuni luoghi, ove non si può seminar grano, o gettare altro seme; ma finora la Toscana non pare che siasi compiaciuta di coltivare questa pianta, o perchè non ne conosce tutti gli usi, e quello importantissimo di supplire alla mancanza del pane, o perchè la nostra industria non è giunta anche ad un grado, da non potersi spinger più oltre.

Quando pubblicò questa Operetta, già erano sette anni, che lavorava ad un’altra insieme col dottor Saverio Manetti, cioè ad un Dizionario ragionato di Agricoltura. Ne avean già quattro anni innanzi data in luce la prefazione; ma si disgustarono di quest’opera per la sua vastità, avvedendosi che due sole persone avrebbero mal potuto reggere al pesi di terminarla; e questo forse sarebbe stato anche il meno. Pensarono inoltre che sa-[100]rebbe stato difficile assai il trovare un libraio, o stampatore, che volesse incaricarsi di una grossa spesa per pubblicarla a suo conto. In ultimo incerti di questo, e, quel che più importava, incerti ancora di trovare un guadagno per tanto lavoro, ne lasciarono il pensiero, lasciandola imperfetta. Forse tutte queste non erano difficoltà da non superarsi. Piuttosto i due Autori non seppero fare un altro mestiere che è quello di sapere avvicinare insieme molti uomini, animarli ad un gran fine con gli esempi, e trionfarne con ridurli al sostegno di tutte le grandi imprese, alla speranza. Nondimeno il Padre Montelatici risolvette allora di fare un viaggio per la Germania per acquistar sempre più nuove idee, onde compir quest’opera laboriosa, ed anche per cercare se alcun Libraio forestiero volesse addossarsene la stampa. È vero che pensò un poco tardi a fare questo viaggio, ma dobbiamo sapergli buon grado di averlo fatto; poichè si arricchì di novelle cognizioni. Arrivato a Vienna fu accolto volentieri dalla Imperatrice Maria Teresa, ravvisando in lui un uomo che colla sua semplicità in tutto mostrava la sua scienza favorita. Lo spedì subito in Stiria, ed in Carintia, perchè egli esaminasse alcuni territori, e massime corte piantate di gelsi o mori di quelle provincie, con ordine d’innestarli tutti a gelsi bianchi, come quelli che son reputati migliori pe’filugelli. Eseguì puntualmente la sua commissione, perchè sapea molto bene la pra-[101]tica dell’agricoltura, come si è detto, ed ebbe tal premio, che potè fare un piu lungo viaggio.

Tornò a Firenze verso la fine del 1764. ma senza più pensare al Dizionario di agricoltura. Solo pensò a pubblicare un’Opera periodica intitolata: Voglio appartenenti all’economia di villa, e durò questa quasi per tre anni. Eran tutte materie tolte da quel Dizionario, delle quali volle che godessero i suoi toscani, accorgendosi forse che sarebbero state un giorno pascolo dello tignuole. E qui si può fare di passaggio questa riflessione, che dato il gran numero de’manoscritti letterari che son per tutto in Toscana, dato il numero de’lettori, trovare il guasto che saranno ogni anno quegli animaletti di tante belle fatiche de’nostri padri lasciate scritte, ed in quanto tempo saranno affatto distrutte. Questo problema avrebbe del vero, e del nuovo, e potrebbe trattenere un filosofo; ma un filosofo attento e conoscitore di coloro che ne fanno alcun poco meno di lui, ama più la sua pace che la gloria di fare il carattere del suo secolo.

Veggiamo ora le qualità intellettuali del nostro illustre Agricoltore. La Natura, se dobbiam dire la verità, non gli fu molto cortese de’suoi doni. La sua memoria non fu grande e tenace; e come questa è apparentemente il principio di tutte le nostre doti di mente; così egli non fu nè gran parlatore, nè franco, e concettoso. Non potè in conseguenza elevarsi a sublimi idee, e molto meno spiegarle con quella forza e novità di espressione, [102] con cui si concepiscono, e che fa tant’onore a chi la sente in se stesso, o sa comunicarla anche altrui. Non si trattenne neppure su molte scienze speculative. L’Agricoltura unica fu la passione, a cui diresse tutti i pensieri, a cui sacrificò tutti i travagli, e quel che si valuta in un secolo così avaro, gli sacrificò anche la moneta. Fu in conseguenza fermo ed insaziabile nell’accumulare notizie, e comprar libri. Non ci fu poi angolo di liberla che egli non rivoltasse per consultare gli scritti antichi, e moderni di cose villereccie. Non lascio per questo fine di essere anco importuno a molti, se avesse saputo aver loro alcuna cosa riguardante la coltivazione che egli non avesse veduta; e quantunque non fusse sempre accolto come avrebbe meritato, mai non si scoraggì. Tutto soffrì con pace, donando talora una trista accoglienza più alla naturale ignoranza che al cattivo animo. E nel vero se non si fusse fatto un petto di querce, o di ferro non avrebbe acquistato un gran tesoro di cognizioni, e la fondazione dell’Accademia sarebbe morta con tutte le altre speranze.

Essendo l’Agricoltura l’unico suo pensiero, fu per ella il maggior economo che sia mai stato. Si privò fino di que’piaceri innocenti che vogliono una piccola spesa, come sarebbe il tabacco, il caffè, la cioccolata, nomi che sarebbero spiritare i nostri antichi. È vero che si può stare senza di essi; ma ogni secolo ha le sue voglie, i suoi gusti, e generalmente bisogna essere un ritratto del secolo. [103] La gran virtù consiste nel saper conoscere la natura di tali oggetti, e sapersene staccare dopo di esservi stati abituati; cosa rara sì bene, ma non già impossibile, e specialmente senza che ne resti offesa la nostra sanità. Si pensi ora quanto si accostò al naturale in tutto il resto questo Valentuomo.

Dopo il suo viaggio di Germania, avanzandosi negli anni, nè lasciando di faticare come prima, cominciò il suo corpo a risentirsi de’travagli sofferti. Si risentì nella sua parte più nobile, e perciò le sue potenze si videro a poco a poco languire miseramente; poichè lo cominciarono ad assalire frequenti vertiggini, per le quali divenne malinconico, ed incapace di molte faccende. Ma tutto era presagio della più terribile delle malattie. In fatti nel 1769. soffrì un’apoplessia imperfetta, per la quale perdè subito la metà del corpo. Durò in questa emiplegia intorno a quindici mesi, quando il giorno terzo di agosto del 1770, colpito di nuovo da quel fulmine rimase privo di vita. Contava egli allora l’anno settantesimo ottavo. ◀Eteroritratto ◀Livello 3

Ora ognuno prenderà meraviglia come dopo tanti, e si lunghi studi sulla Georgica, non abbia scritto più opere, ed una grande che molte in se ne contenesse, come quegli che avea fatte vaste raccolte di cose utilissime. Risponderemo che in uomini sì fatti dee pure avvenire quel che appunto è avvenuto. Occupati tutti i lor giorni a raccogliere materiali, non è più facile dopo un certo tempo che si compiacciano di altro esercizio fuori di [104] quello. Son simili agli, avari che quanto più ammassano di oro, tanto più cresce la sete di aumentarlo. Laonde finiscon la lor vita in raccoglier sempre, stimando sempre più quel che rimane da raccogliersi, di quel che sia stato raccolto. Oltre di che arrugginiscono, per così dire, quando si anno le facoltà illustri, che ci servono per impiegare que’materiali raccolti. Ma generalmente gli uomini che ad altro non attesero che a raccogliere da’libri, non sono stati dalla Natura molto ben trattati nel dono di esse. Quindi se vien loro il desiderio di fare alcun libro, debbono sicuramente farlo di pezzi raccolti. Potremmo ciò confermare con molti esempio. Ne viene allora che gli uomini di limpido intelletto, usi a trascorrer liberamente un’Opera che sia semplice ed una, ne son tosto disgustati, perchè sentono che non è opera delle facoltà più rare di noi, ma della lunga fatica, e dello stento. Che se all’incontro questi uomini tanto agguerriti ad affrontare le cose altrui, e pigliarne la parte che lor piace, dopo di avere accumulato tesori, sapessero risponderli, e dar loro altre forme con quella giustezza che non s’insegna, vedremmo negli scritti di essi Opere degne di passare interamente a’tempi che verranno. Ma pochi uomini al mondo anno avuto tutte le doti eroiche per iscrivere un libro, ove dipinge le la storia della Natura, per eguagliarla colle tinte, e farla anche stupenda agli occhi di chi è pur uso a studiarla. Che se son rari questi uomini, dobbiamo contentarci di quelli che [105] senza esser così luminosi, sono utilissimi per le faccende più comuni della vita, vale a dire, per l’ordine di essa, in cima del quale è sicuramente la scienza che insegna a far fruttare la terra. Felici coloro che v’impiegano i lor giorni più vigorosi, e più belli! Più felici coloro che perduti a investigare le produzioni della Natura, le rivolgono poi in vantaggio del comune! La scienza di esse è la vera scienza che dà il pane Tale fu quella del Padre Montelatici, il quale sarà perciò memorando a tutti coloro che in tutte le occupazioni cercano il vantaggio, e nel carattere la vera virtù. Questi non si curano di cercar molto le discendenze. Così noi, che a questi scriviamo, ci siam dispensati volentieri dal trattenersi su quella di un Uomo che sarà illustre, senza dover nulla ad una famiglia civile, da cui discese. ◀Livello 2 ◀Livello 1

1Nacque l’anno 1692.

2Lami Novelle letterarie anno 1752.

3Novelle letterarie N. 19. anno 1752.