Référence bibliographique: Francesco Anselmi (Éd.): "N. XVI", dans: Il Socrate Veneto, Vol.16\ (1773), pp. 60-64, édité dans: Ertler, Klaus-Dieter / Fuchs, Alexandra (Éd.): Les "Spectators" dans le contexte international. Édition numérique, Graz 2011- . hdl.handle.net/11471/513.20.975 [consulté le: ].


[61] Niveau 1►

N. XVI.

De’benefizj

Niveau 2► Non prendete tanto piacere per aver beneficato molte persone, avvegnacchè ben presto farete le meraviglie, e rimarrete attonito nello sorgere, e trovar molti ingrati. Voi fate benissimo a dire che a larga mano avete profusi e sparsi i benefizj vostri; avegnacchè se fissate attentamente lo sguardo alla disposizion di coloro, che li ricevono, ne avete perduta la maggior parte. Alcuni si dispenseranno dall’esservi obbligati col non ricordarsene, altri corrisponderanno con ingiurie al piacere che loro avete fatto; e quand’anche non ne riceveste alcun dispiacere, non mancheranno mai di far de’lamenti. Non sentimmo noi tutto dì moltissimi a parlar de’lor benefattori come se fossero nati maltrattati? Io confesso che questo è un procedere ingiusto; una è sì ordinario, che talvolta meno lamentasi de’nemici, che ci fanno ogni sorta di male, che di coloro, che ci fanno tutto il bene. Niveau 3► Exemplum► Leggete Lucano, e vedrete che Fotino si lamenta di Pompeo, e in Seneca troverete che Sabino declama contro Augusto. ◀Exemplum ◀Niveau 3 Ma per non prendere gli esempi dall’antichità, e per parlarvi piuttosto con la sperienza che con l’autorità, date un’occhiata alle Città tutte, ed udirete a risuonar le strade di simili lamenti: essendo già più agevole il ritrovar persone che veramente sieno benefiche, che quelle le quali confessino di essere obbligate.

Or mi sembra che ogni sorta d’ingratitudine venga particolarmen-[62]te da tre principj. Il primo è l’invidia, la quale prendendo per affronto i favori che agli altri si fanno, non risguarda poi quelli che a se vengono fatti. L’altro è l’orgoglio, che si stima sempre degno di ricevere assai più di quello che gli vien dato; oppur si rammarica in vedere che un altro gli è preferito, quantunque paja di avere un minor merito. La cupidigia o sia avidità è il terzo principio d’ingratitudine, perchè essa non resta mai dai regali addolcita e sazia; ma all’opposto maggiormente si accende, e cercando con ansietà nuovi beni, si dimentica di quelli che avea fortunatamente acquistati. Potrei dire più brevemente che la follia è cagione di tutto questo male, come pure di tutti gli altri. Io chiamo follia l’ignoranza del vero bene, e la sregolatezza delle opinioni. Da quelle nascono principalmente la superbia e la cupidigia, che non scorgono mai un servigio che meriti somma lode, nè una liberalità che sia singolare; esse trovano questa scarsa e tenue nella sua magnificenza, e l’altro nella sua libertà quasi obbligato.

Mi direte che Aristotile par che dia peso alla vanità vostra, mentre egli tiene che sia una spezie di magnanimità il richiamare alla memoria un piacer che si è fatto, e il dimenticarsi di quello, che si è ricevuto. Ma quantunque questa opinione abbia qualche forte di apparenza, ciò nulla ostante io credo che un uomo veramente magnanimo dispreggi egualmente le cose mediocri, e le picciole; e per quanto grande apparisca all’opinion di molti ciò ch’egli fa, non divenga considerabile a lui, che vorrebbe far di più ancora, se corrispondesse al suo desiderio il potere. Al contrario, se egli è obbligato a un altro di qualche cosa, per picciola ch’essa sia, crede che gli sia addossato un gran peso perchè egli ama la sua libertà ed aspirando alla gloria, pensa di non potervi giungere, se prima non se ne sia scaricato. Si sforza egli adunque di restituire ciò che non è suo tosto che l’ha ricevuto, e di rendere la pariglia subito che si vede obbligato. Seneca a questo proposito disse assai bene, che colui il quale fa un benefizio non deve mai farne parola; ma chi lo riceve, deve pubblicarlo per ogni parte. In fatti la liberalità ha due sorta di veleno; o di piaghe che l’offendono, l’una è il rimprovero di colui che dona, e l’altra l’oblivione di colui che riceve: ciascuna è madre dell’ingratitudine, e matrigna per così dire del benefizio. Il consiglio di Seneca, che vi ho proposto, può servire di rimedio a tutti questi mali. E poi non vi gloriate di aver fatto del bene ad alcuni, poichè non ne avete fatto già a tutto il Mondo. Moltissimi si lagnano di essere stati dispregiati avendo veduto che [63] altri furono favoriti prima di essi. Or io non so donde venga che la ricordanza dell’offese ricevute faccia più impressione nello spirito, che quella de’piaceri, e de’benefizj. Succederà spesso che col mezzo di favori particolari vi farete alcuni amici, che faranno poi smemorati e tepidi; e all’opposto vi farete moltissimi nemici, che si ricorderanno di tutto, e che spingeranno assai oltre la lor vendetta. Finalmente vi sono molte persone, che non si possono beneficare se non impegnandosi in qualche manifesto pericolo. Alcuni hanno acquistato un amico con un picciolo beneficio, e con un grande un nemico. In fatti un obbligo leggiero ben presto può essere corrisposto; ma si ha rossore di essere obbligato per una cosa d’importanza; ed è molesto il corrispondere, quantunque siasi provato piacere in riceverla. Un uomo adunque, il quale si vede suo mal grado obbligato nulla più brama, che la morte del suo benefattore, affinchè mancando il creditore, cessi anche il debito. E così il benefizio è diviso tra l’odio e l’ingratitudine, essendo insoffribile il rossore di averlo ricevuto, e la necessità di contracambiarlo; cosicchè moltissimi che vi sarebbero stati affezionatissimi se voi foste stato tenace e avaro, si dichiareranno contro di voi perchè siete stato liberale. Un uomo dabbene non vive mai impunemente tra i malvagi. Dirò ora una cosa, che non vorrei, eppur devo dirla. Non v’è animale alcuno più ingrato dell’uomo, quantunque niuno dovrebbe essere più riconoscente di lui. Egli non conosce il suo dovere, che per violarne le leggi.

Oltre a ciò, non dovette soltanto aver risguardo al benefizio, ma al modo ancora con cui lo fate. Alcuni largamente beneficano, i quali per altro non amano quelle persone, cui fanno benefizio. Non è la lor bontà che li renda liberali, ma la grandezza del loro stato, e la necessità degli altri. E per ciò sono talvolta tenaci e stretti nel cuore, e prodighi in fatti. Quindi ne viene che ancora ben spesso obbligano coloro, che non solo non amano, ma neppur conoscono. Benchè dispensino regolarmente i lor favori, li distribuiscono però sempre a caso. S’ingannano adunque se pensano di essere amati per i loro benefizj; avvegnacchè ciò non fanno essi per inclinazione, ma per vanità che li stimola. Non si ama facilmente una persona, che non sente amor per alcuno. L’affetto è il legame reciproco de’cuori, e degli animi. E però siccome io non posso negare che i benefizj i quali sono bene impiegati, che vengono da un cuor sincero e affettuoso, e che cadono tra le mani di persone degne non sieno soggetto di gloria; così niuno può dubitare che la [64] maggior parte di essi non sia inutilmente perduta o per errore di quei che li fanno, o per difetto di coloro che li ricevono. Il cammino più corto e più facile per farsi amare è quello che vi ho già mostrato, cioè di amare. Che se all’amore accopiate la vera liberalità, non sarete solamente amabile, ma diverrete ancora illustre. Sempre però sovvengavi che non si risguarda dal Cielo nè dagli uomini quel che si dona, ma come, e con qual cuor si doni. I favori grandi e magnifici sono alcune volte male accolti, e i piccioli sono aggradevoli. Si considera più il cuor che le mani. Il sagrifizio del povero è tanto grande agli occhi del Cielo, quanto le offerte del ricco.

Metatextualité► Conchiudendo adunque il presente argomento dirò, ◀Metatextualité che la liberalità, perchè sia virtuosa, non deve far danno nè a quelli stessi, a cui parrà essersi fatto benefizio, nè ad altri: non deve esser maggiore delle proprie forze: e finalmente il benefizio a ciascheduno si deve compartire secondoch’egli n’è degno; perchè questo è fondamento di giustizia, alla quale tutta si riferisce questa materia. ◀Niveau 2 ◀Niveau 1