Référence bibliographique: Gasparo Gozzi (Éd.): "Numero XCI", dans: L’Osservatore veneto, Vol.1\091 (1761-12-16), pp. 382-386, édité dans: Ertler, Klaus-Dieter / Fuchs, Alexandra (Éd.): Les "Spectators" dans le contexte international. Édition numérique, Graz 2011- . hdl.handle.net/11471/513.20.476 [consulté le: ].


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N° XCI

A dì 16 dicembre 1761.

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Dialogo VII.

Ulisse, Galli e Marmotte.

Niveau 4► Dialogue► Utopie► Ulisse. A poco a poco io vo prendendo una consuetudine di favellare con bestie, la quale potrebbe farmi rincrescere la conversazione degli uomini. Hanno queste una certa schiettezza ch’io non ho ancora in essi ritrovata giammai, e mi scoprono tutt’i loro più intrinseci difetti. Non già che lo facciano di voglia, nè spontaneamente; ma hanno acquistata dall’esser bestie una certa goffaggine, che facilmente, chi ha un poco d’intelligenza, scopre benissimo qual sia la loro inclinazione. A parlare con uomini, appena si giunge a comprendere quello che sieno in capo a molti anni; tanto sanno con lo studiare le parole, co’movimenti delle ciglia, e con l’atteggiar delle braccia e altre apparenze di fuori, coprir i pensamenti che covano nella testa. Io ho veduto a cadere le lagrime dagli occhi a persone alle quali rideva il cuore; genti che ridevano, e aveano voglia di piangere; taluno baciare, che avrebbe voluto mordere; e tutto ciò farsi con tanta squisitezza d’artifizio, che occhio umano non se ne sarebbe mai potuto avvedere . . . Io odo di qua galli a cantare. E che sì, che avrò fra poco una nuova conversazione? Non ho mai sentito galli a cantare così spesso. Non tacciono mai. Forse m’avranno veduto, e mi accennano perch’io vada a quella volta. Voglio andar loro a’versi, e cianciare con essi, come ho fatto coll’altre bestie . . . Eccogli. Qui dee essere un pollaio. Ma non mi debbono però avere invitato, poichè non mi guardano in faccia; e pure son appresso ad essi. Mirano in terra, battono l’ale, poi alzano il capo, e stridono chiudendo gli occhi. Qualche cosa dee forse essere sul terreno che gli fa star quivi così fermi. Che sarà mai? Oh! oh! molte marmotte che quivi si giacciono a dormire, o piuttosto a sonniferare, poichè col canto loro sembra che i galli dieno ad esse disagio, e le sveglino di tempo in tempo. Io voglio certamente saper la sostanza di questo canto e di questo dormire. Che novella è questa? Mano alla ricetta delle lodi per fare articolare le lingue delle bestie. Io non odo, mai a cantare galli, che non mi si ricrei tutto il cuore. Parmi che la voce loro sia sempre annunziatrice della bella aurora, dietro a cui vengono tutte le bellezze del mondo. Sembra che questo canto richiami gli uomini dalla morte, poichè quando l’odono, scuotono da sè il sonno, e dato bando alla nociva pigrizia, ritornano alle usate opere, e divengono per sua cagione diligenti ed attivi.

Coro di Galli. O giusta, o giusta mano

Celeste, che vendetta
Fai delle afflitte genti
[383] Sopra i crudi tiranni;
Col mantice sovrano
Che negli aërei campi
S’empie d’aria possente,
Soffia ne’petti nostri
Mattutina canzone,
Interminabil suono,
Che mai, che mai non manchi
Nelle stridule gole.
E come acuta punta
Di strale, che la via
S’apre in avversi corpi,
Ferisca i duri orecchi
Delle compagne nostre,
E gli assopiti sensi
In troppo dolce sonno
Richiami al travagli oso
Uffizio della vita.

Coro di Marmotte. Oh! oh! del caro sonno

Sturbatori sbadigli,
Oimè, chi vi risveglia
Ne’musculi inquïeti?
Chi le gravi palpèbre
Alza, e il dïurno raggio
Con sua viva facella
Entrar nelle pupille
Sforza, divoratrici
Della nemica luce
Che l’anima risveglia?
Maladette canzoni;
Ed importuni galli!

Ulisse. Io non avrei pensato mai d’aver ad udire un coro di tragedia fra galli e marmotte. Ma fino a tanto che cantano, io non saprò mai quali essi sieno, o in qual modo qui sieno capitati, e come tramutati in bestie. Io m’indirizzerò a quel gallo colà nel mezzo, che mi sembra il più grande e il più bargigliuto, e colla più solenne cresta degli altri, e co’più begli sproni a’piedi. Prima che tornino ad intonare, è bene ch’io incominci. O nobilissimo gallo, dappoichè l’essere pennuto uccello non ti toglie che tu possa favellare, io ti prego che tu mi risponda, e lasci per un poco il tuo dolcissimo canto.

Gallo. Alto, alto, o compagni. Statevi in posa per alquanto, sicch’io possa rispondere a questo valentuomo, che ha ad appagare la sua curiosità. Il ragionare che faremo insieme, sarà invece di canzone, e terrà deste queste dormigliose che abbiamo intorno. E tu, o forestiere, il quale non soggiacesti ancora in quest’isola alla sorte comune, e sei uomo, chiedi quanto t’occorre.

Una marmotta. Sì, che gli si secchi la lingua, poichè anch’egli viene a sturbarci con le sue ciance.

Ulisse. A quanto io veggo, voi dovete essere fra voi nemici, dap-[384]poichè vi contrastate gli uni agli altri fino il sonno. Quali siete voi e donde venuti?

Niveau 5► Utopie► Gallo. Noi fummo tutti, quanti qui ci vedi, abitatori d’Atene. Queste, che intorno si stanno dormendo, erano compagne nostre, alle quali coi nodi d’Imeneo eravamo legati. È Atene, io non so se tu lo sai, una delle più garbate e forbite città della Grecia, nella quale ogni qualità di feste e di giuochi fioriscono sempre più che in altro paese. Gl’ingegnosi giovanetti studiavano ogni giorno passatempi per intrattenersi, e tenevano la città in continua allegrezza. La bellezza delle donne gli stimolava a divenire di giorno in giorno più acuti nel ritrovare; e tanta fu la fertilità delle invenzioni, che non bastando più il corso del giorno a tutt’i sollazzi, si cominciò anche una gran parte della notte a vegliare. Erano le vie d’Atene popolate il dì quanto la notte; anzi trascorrevano pedoni e cocchi per le strade con furia molto maggiore quando tramontava il sole, e per tutto il corso della notte, che in altri tempi. D’ogni intorno s’udivano voci, ardevano facelle, facevansi concorrenze ora ad una veglia, ora ad un giuoco; e qua ad un teatro, e colà ad un’adunanza dove si cantava; per modo che avresti detto che il popolo ateniese avea posto l’ale; così rapidamente trapassava da un luogo ad un altro. Erano i letti quasi sempre vôti e freddi, e di rado nascevano più figliuoli, perchè sposi e spose aveano perduta l’usanza del letto, e sempre erano in piedi, quasi volando di qua e di là senza mai arrestarsi; perchè terminata una festa, si dava principio all’altra, e con un continuo aggiramento da questa a quella si trapassava. Tu forse ti maraviglierai, s’io ti dirò che in tale occasione il più gentile e il più delicato sesso si dimostrò di gran lunga più gagliardo che il nostro, il quale vien giudicato il più robusto universalmente. Quelle morbide e molli membroline delle femmine, que’nervi finissimi, quegli ossicini di bambagia, non si stancarono mai; e da un certo pallidume in fuori, e un pochetto di lividura intorno agli occhi, mai non si vide in loro altro segno di stanchezza, o di mala voglia; nè mai fu veduta una che con le dita si fregasse le pupille, perchè la cogliesse il sonno. All’incontro i mariti cominciarono a sonniferare, a movere le gambe a stento, ed andar qua e colà mezzo addormentati; e non sì tosto erano incominciate o le danze o altre funzioni, ch’essi mettevansi a sedere, e chiudendo gli occhi, col capo penzoloni, e che ora sull’una spalla, ora sull’altra cadeva loro, dormivano per non poter altro. Esse all’incontro deste sempre e vigilanti scherzavano intorno a’mariti; e quando dinanzi a loro passavano, o si stringevano nelle spalle, o ridevano, o tiravano loro così un pochetto il naso per importunargli; di che i miseri non sapeano più che farsi. E peggio era, che terminata la giocondità di quel luogo, venivano con le strida e con gli urti destati a forza, acciocchè dovessero correre tosto ad un altro per vedere un nuovo passatempo. Tu non avresti veduti più uomini, ma ombre. L’ossa si potevano loro noverare nel corpo. Aveano sempre gli occhi incavati, duri come di talco; appena levavano più le braccia, come se le fossero state di piombo; le ginocchia vacillavano di sotto; non rispondevano mai secondo quello che veniva loro domandato; e una [385] brevissima risposta era preceduta da un lento sbadigliare. Le faccende loro andavano quasi tutte alla peggio, perchè le facevano in sogno; in somma non avevano d’uomini più altro che il nome. Fra tante loro angosce avvenne che la sposa di Menelao fu rapita da Paride, il quale accettato dal re . . .

Ulisse. Gallo, non mi raccontare a lungo questo fatto, perchè son Greco io ancora, e lo so benissimo; sicchè tronca.

Gallo. Volentieri. Andati dunque tutt’i popoli della Grecia a quella spedizione, cessarono i giuochi e le feste nella nostra città. Io non ti posso dire quanta fosse la tristezza delle donne, e quanta la consolazione de’mariti, i quali si credeano di dormire a loro agio, e di rientrare in que’letti che aveano per parecchi anni presso che abbandonati. Ma che? Andò loro fallito il pensiero. Le femmine avvezze ad una continua vigilia, non poteano più chiudere gli occhi. Stavansi tutta notte o sedendo o cianciando con le serve, e con una fastidiosaggine la maggiore del mondo, ora sgridando quel servo, ora questo; e visitandosi spesso l’una con l’altra, ragionavano tanto de’passati diletti, che a noi non era possibile di ristorarci delle passate fatiche. Speravasi! bensì tra noi che dopo qualche tempo, ritrovandosi esse in ozio, e stanche del favellare delle cose passate, si dessero a dormire per disperazione; ma non fu vero. Venne in Atene, non so donde, notizia che nell’isola di Circe cantavansi dolcissime ariette, e si facevano continue danze: la qual novella pervenuta agli orecchi delle femmine ateniesi, cominciarono incontanente a brillare di non usata allegrezza. Andò tutta Atene sossopra; non s’avea altro in bocca che l’isola di Circe: Invitaronsi le donne a quel nuovo viaggio. Appiccarono cartelli per le muraglie, assegnando il giorno e l’ora della partenza, per poter essere tutte insieme allo stabilito porto. Destarono a forza i mariti, gli mandarono a contrattare co’nocchieri, tutti gli artisti furono occupati in drapperie, nastri, dondoli d’ogni qualità, fino al giorno destinato. Vollero partirsi di notte, per far dispetto, dicevano esse, a’loro dormiglioni; e sgangheratamente ridevano. Arrecaronsi fardelli alle navi, che appena vi si potea capir dentro; e quando piacque al cielo, c’imbarcammo, e demmo a’venti le vele. Giungemmo all’isola di Circe. Questa cortesemente ci accolse. Le nostre care mogli ad un ricchissimo convito cominciarono a farsi beffe di noi, e a raccontare alla Sovrana dell’isola la nostra istoria. Essa ne rise; finalmente datoci non so qual beveraggio, parea che attendesse la riuscita di quello. Di là a poco, quello che non ci era avvenuto mai, vedemmo le nostre femmine a sbadigliare, e gli occhi loro a chiudersi un poco; e mentre che noi ancora volevamo motteggiare, e rallegrarci fra noi della maravigliosa novità che ci appariva dinanzi agli occhi, le nostre parole divennero voci di galli, e ci vestimmo di penne, e vedemmo le compagne nostre divenute gravi e sonnolenti animali. Allora Circe, levatasi in piedi, ci disse con altissima voce: “O galli, fate la vendetta vostra. Non cessi mai la vostra importuna canzone di ferire i loro orecchi, e di sturbare sonno loro, com’esse sturbavano il vostro.” Da indi in poi ubbidendo a Circe, noi cantiamo intorno ad esse, divenuti vigilanti e nemici del sonno quanto esse lo furono un tempo. ◀Utopie ◀Niveau 5

Ulisse. Io ti ringrazio, o gallo, della storia che m’hai narrata; ma [386] perch’io veggo che i tuoi compagni già battono l’ale per dar principio ad un nuovo canto, vi lascio; consigliandovi, contra il parere di Circe, a non tentare di destar le vostre compagne. Chi sa, se un giorno le si risvegliano, in quale impaccio vi troverete maggiore? ◀Utopie ◀Dialogue ◀Niveau 4 ◀Niveau 3 ◀Niveau 2 ◀Niveau 1